Poeta italiano (Torino 1883 – ivi 1916). Ritenuto il massimo esponente del crepuscolarismo, nelle sue opere riserva lo stesso commosso distacco e lo stesso sguardo ironico alla vacua fede letteraria, per la quale non si può non provare vergogna, e al personaggio autobiografico con cui racconta il dannunzianesimo vissuto nella grigia realtà quotidiana. Puntando su una poesia capace di assecondare l’andamento del parlato senza uscire dalla metrica tradizionale, persegue con una felicità proverbiale la rivalutazione estetica del reale già avviata proprio da D’Annunzio, e per questa via scopre che il fascino libresco, conferito dalla patina del tempo alle “buone cose di pessimo gusto”, del passato, non si distingue poi molto dalle attrattive dell’arte. Tra le sue opere si ricordano le raccolte di versi La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911).
Di famiglia agiata, compì svogliati studî di giurisprudenza, angustiato dalla tisi che lo afflisse fin dai vent’anni. All’università, frequentando per diletto le lezioni di letteratura italiana di A. Graf, entrò in contatto con un gruppo di letterati e artisti (C. Calcaterra, G. Cena, C. Chiaves, G. Gianelli, S. Gotta, A. Momigliano, F. Pastonchi, E. Thovez, M. Vugliano) aperti alle novità europee e ostili al dannunzianesimo imperante, in nome di un ideale di solo apparente moderazione borghese che sarebbe approdato alla poesia “crepuscolare”. G. ne trasse l’impulso a liberarsi a sua volta dal dannunzianesimo, rinnegando enfaticamente l’infatuazione originaria (Invece di farmi gozzano/”>gozzano Un po’ scimunito, ma greggio, Farmi gabrieldannunziano: Sarebbe stato ben peggio!) e in realtà limitandosi a cercare altrove, nel prossimo Pascoli e nella più remota poesia del Settecento, ma prima ancora nel correttivo dell’ironia, una diversa autorizzazione per una poetica sempre tributaria dell’estetismo, nutrita fino all’eccesso di letteratura e impegnata a definire i proprî problematici rapporti con la tradizione. Ma, se autentica è la ripugnanza per le “nauseose” formule magniloquenti della vena patriottica e superomistica di D’Annunzio, meno alla lettera va intesa la condanna di un tipo intellettuale, con il quale il dandy G., lettore di Schopenhauer e Nietzsche, evidentemente si identifica e del quale anzi riesce a riscattare sul piano umano e sentimentale lo scetticismo, cogliendone la drammaticità e le moderne implicazioni letterarie. Analogamente, la percezione dell’insensatezza che accomuna la vita dell’uomo a quella delle altre creature conduce G. a rifugiarsi nell’attenta e amorosa osservazione del mondo delle farfalle, da lui cantato, con la serietà del gioco e la memoria della poesia didascalica settecentesca, nelle Epistole entomologiche, che, scritte negli ultimi anni, furono rese note solo molto parzialmente. L’ispirazione libresca di G. risulta paradossalmente confermata dalle corrispondenze giornalistiche dall’India, raccolte postume nel volume Verso la cuna del mondo (1917), in cui il più impegnativo dei viaggi, ai quali il poeta si sottomise per motivi di salute, diventa un’occasione di fantasticherie in margine non a esperienze realmente vissute, ma alle sue molte letture d’argomento esotico. Scrisse anche novelle (L’altare del passato, post., 1918; L’ultima traccia, post., 1919), per le quali si veda l’edizione completa I sandali della diva (1983), a cura di G. Nuvoli, e fiabe per bambini (La principessa si sposa. Fiabe, post., 1917). Le sue Opere furono raccolte in un unico volume, a cura di C. Calcaterra e A. De Marchi (1948), mentre di Tutte le poesie esiste l’edizione critica a cura di A. Rocca (1980). A cura di S. Asciamprener sono apparse le Lettere d’amore di Guido G. e Amalia Guglielminetti (1951).