Canzone recanatese composta con ogni probabilità sul finire di settembre del 1829 (più precisamente, dal 20 del mese in poi) e poi confluita nell’edizione Piatti dei Canti (Firenze, 1831).
Metro: Canzone di strofe libere, movimentata da rime, assonanze e rime al mezzo.
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
Note
col suo fascio dell’erba: allude alla raccolta di erba in campagna per l’alimentazione degli animali.
È su questo verso che si sono concentrati gli appunti critici di un finissimo esperto di botanica quale Giovanni Pascoli che, in un suo intervento del 1896 (Il sabato del villaggio, ora in G. Pascoli, Poesie e prose scelte, tomo I, Milano, Mondadori, pp. 1107-1126), spiegava che la scena è irrealistica, poiché le viole sbocciano a marzo mentre le rose sono di maggio.
La rima al mezzo (“appresta | festa”) è ben studiata e assai musicale, in quanto separa l’endecasillabo del v. 7 in due emistichi composti da un settenario e un quinario.
Alla scena idillico-campestre si aggiunge un rimando intertestuale al sonetto di Petrarca, Già fiammeggiava l’amorosa stella (Canzoniere, XXXIII, v. 5: “Levata era a filar la vecchiarella”).
novellando vien: la forma continuativa del verbo sottolinea appunto il piacere della “vecchierella” nel rimembrare, perdendosi un po’ nei dettagli del ricordo, un’età lieta ed ormai passata della vita; è anche un modo per alludere al tema, tipicamente leopardiano, del malinconico ricordo della felicità svanita e tramontata.
sana e snella: i due aggettivi compongono quasi una dittologia sinonimica, intendendo la bellezza giovanile, ormai sfiorita da tempo per la “vecchierella”.
torna azzurro il sereno: indica il passaggio atmosferico dalla luce chiara del giorno al cielo azzurro cupo che precede di poco il tramonto definitivo del sole.
il zappatore: nella figura dell’umile contadino che “riede” a casa, si concentrano, oltre alla rappresentazione di un piccolo villaggio e dei suoi abitanti, una serie di memorie letterarie che rimandano ai grandi modelli della tradizione: da un lato la prima egloga di Virgilio (“Et iam summa procul villarum culmina fumant, | maioresque cadunt altis de montibus umbrae”), dall’altro la canzone petrarchesca Ne la stagion che ‘l cielo rapido inchina (Canzoniere, L, vv. 15-24), ripresa anche nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Da notare, anche l’attento studio sul gioco delle rimedel v. 29, con una rima al mezzo che rimanda ai versi 24 e 26 (“gridando – saltando – fischiando”), e con la parola in chiusura di verso che rima con il verso 27 (“romore – zappatore”)
pien di speme: si ricordino le osservazioni dello Zibaldone del 1 ottobre 1823 (“Il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare ma l’aspettare indeterminatamente al bene o al male”), che poi suggeriscono a Leopardi anche un passo del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 13-14: “poi stanco si riposa in su la sera: | altro mai non ispera”).
In tal senso, il “travaglio usato” (e cioè, il lavoro quotidiano e costante) è “il maggior mezzo di felicità possibile”, dato che è “il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita” (Zibaldone, 12 febbraio 1821).
Ancora Petrarca, dal sonetto Ne l’età sua più bella e fiorita (Canzoniere, CCLXXVIII, 1).
In questa amara legge di vita, che un Leopardi ormai disilluso affida al suo “garzoncello scherzoso”, sembra risuonare una massima del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau che l’autore si annota in una pagina dello Zibaldone dell’aprile del 1829: “L’on n’est heureux qu’avant d’être heureux” [“non si è felici che prima di essere felici”].
Parafrasi
- La fanciulla ritorna dalla campagna,
- mentre il sole sta tramontando,
- col fascio dell’erba raccolta; e tiene in mano
- un piccolo mazzo di rose e viole,
- con cui, com’è solita fare,
- si prepara ad ornarsi,
- domani, giorno di festa, il petto e i capelli.
- Una donna anziana è seduta con le vicine
- a filare su una scale
- nel momento in cui si stempera la luce del giorno;
- e racconta compiaciuta della sua gioventù
- quando si preparava per i giorni di festa,
- e, mentr’era ancor bella e giovane,
- era solita ballare tra coloro che
- ebbe come compagni nella miglior età della vita.
- Ormai il tramonto è avanzato,
- il cielo si è fatto blu scuro, e scendono le ombre
- dai colli e dai tetti,
- illuminati dalla luna sorta nel cielo.
- Ora la campana manda il segnale
- che la festa si avvicina;
- e ti sembrerebbe che il cuore prende fiducia
- quando sente quel suono.
- I ragazzini, gridando in gruppo sparso,
- sulla piazzetta
- e saltando qua e là,
- fanno un piacevole rumore:
- e nel frattempo lo zappatore
- fischiettando, torna alla sua modesta cena
- e pensa tra sé e sé al giorno di riposo.
- Quando poi è spenta ogni altra luce,
- e tutto il paese e silenzioso,
- senti il martello battere, e la sega
- del falegname, che è ancor sveglio
- con la luce accesa nella sua bottega ormai
- chiusa e si dà da fare e si impegna
- di terminare il lavoro prima dell’alba.
- Questo è il giorno più lieto della settimana,
- pieno di aspettativa e di gioia:
- domani le ore del giorno porteranno
- con sé tristezza e tedio, e ciascuno farà
- ritorno colla propria mente al solito lavoro.
- O fanciullo spensierato,
- l’adolescenza
- è come un giorno pieno di felicità,
- un giorno limpido e luminoso,
- che anticipa la festa della tua vita.
- Lasciati andare alla gioia innocente, fanciullo mio;
- la tua è una stagione lieta e beata.
- Non voglio dirti altro; ma non avertene a male
- se la tua festa tarda a giungere.
Il sabato del villaggio di Leopardi viene composto nel mese di settembre del 1829. Il componimento è una canzone libera in endecasillabi e settenari, raggruppati in quattro strofe di lunghezza differente. La lirica è divisa in due parti asimmetriche (come sarà nella Quiete dopo la tempesta, composta nello stesso periodo, anche se in quel caso le due parti sono di uguale ampiezza). Anche tematicamente le due liriche sono simili: entrambe, infatti, trattano del piacere, inteso leopardianamente come l’attesa speranzosa di un bene.
Analisi del testo
Parte prima: il paesaggio del “Sabato del villaggio”
Nella prima parte del Sabato del villaggio (vv. 1-37) viene descritta una scena di vita quotidiana in un paese, nell’atmosfera serale di un sabato primaverile, quando gli abitanti si preparano con ansia al giorno di festa. La descrizione si concentra su alcune figure esemplari: innanzitutto, la “donzelletta”, che porta in mano porta un mazzo di rose e viole (che tuttavia, come venne notato da Pascoli sono due fiori che sbocciano in mesi diversi dell’anno), e rappresenta una figura ideale della giovinezza ma anche del lavoro nei campi (v. 1: “la donzelletta vien dalla campagna”). C’è poi la “vecchierella” che, contemplando la fine del giorno, ricorda il “suo buon tempo” (v. 11), cioè la sua giovinezza, creando così un legame tra fine del giorno e vita umana; i “fanciulli”, che giocano facendo “un lieto rumore”, rappresentano l’infanzia lieta e spensierata. Infine troviamo i lavoratori, il contadino e falegname, cui Leopardi affida (vv. 28-37) altrettanti piccoli quadri delle loro attività quotidiane: la “parca mensa” (v. 28) dello “zappatore” (v. 29) e il lavoro – “l’opra” (v. 37) – del “legnaiuol” (v. 34) che fatica prima dell’alba, che è anche simbolo di una modernità che allontana l’uomo dallo stato di natura.
All’interno di queste descrizioni, fortemente intrise del sensismo leopardiano, l’autore inserisce un breve quadro paesaggistico della notte che scende:
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna. 1
Sono versi che rimandano alla tradizione classica e in particolare a due versi delle Bucoliche di Virgilio 2; non a caso, l’atmosfera di questa prima sezione del Sabato del villaggio è ricca di riferimenti letterari (oltre a Virgilio, è Petrarca l’autore cui Leopardi guarda con più attenzione), mentre la ricorrenza di versi brevi si adatta alla descrizione, idillica e rasserenante, del “sabato” e dei suoi abitanti.
Seconda parte: la riflessione di Leopardi
Nella seconda parte del Sabato del villaggio (vv. 38-51) il poeta riflette, specularmente alla tematica della prima sezione, sulla vanità dell’attesadella festa: il piacere, che ognuno degli abitanti si aspetta, non giungerà mai, ma permarranno la noia e la tristezza dell’esistenza umana (“diman tristezza e noia | recheran l’ore” vv. 40-41) . La riflessione si estende poi anche alla vita: la giovinezza è un periodo felice, perché si attende con ansia e gioia l’entrata nell’età adulta, come quando il sabato ci si prepara per il giorno di festa; tuttavia il passaggio di età non porterà gioia, ma si rivelerà doloroso e privo di piacere.
La poesia si conclude allora con un’apostrofe a un “garzoncello scherzoso” (v. 43), e cioè una figura retorica utilizzata per invocare sulla pagina un fanciullo ancora ignaro della dura legge della realtà umana: “Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’…” (vv. 48-50). È un invito esplicito al “garzoncello” (simbolo dell’ingenuità umana e dell’inconsapevolezza di ogni fanciullo) a non desiderare di affrettare la crescita nell’ansia di diventare adulto. In questo componimento infatti il piacere è considerato da Leopardi come l’attesa di un benessere venturo, che, una volta raggiunto, si rivela vuoto e illusorio.
Si noti come il pessimismo cosmico leopardiano, che qui sancisce che ognuno di noi è destinato alla sofferenza, non assuma pose tragiche: lo stile è piano e pacato, come se quella del poeta fosse un malinconico monito al “garzoncello” inesperto della vita, e la sintassi non è spezzata né da enjambements né da inversioni o anastrofi marcate.
Tra il “Sabato del villaggio”, lo “Zibaldone” e “La quiete dopo la tempesta”
La tematica de Il sabato del villaggio viene sviluppata anche in alcune pagine dello Zibaldone, in cui viene affermato che:
il piacere umano si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solametne nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere 3.
Rispetto a questa riflessione sul piacere, la conclusione della Quiete dopo la tempesta (altro “canto” strettamente connesso con questo, e anch’esso profondamente influenzato dall’evoluzione radicalmente pessimistica del pensiero leopardiano dopo le Operette morali) si presenta più dura. Negli ultimi versi (vv. 42-54) della Quiete l’autore si rivolge contro la natura crudele e contro le riflessioni filosofiche legate all’ottimismo spiritualistico, con un tono aspramente sarcastico:
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi 4
La conclusione presenta anch’essa un’allocuzione, non al “garzoncello” ma alla “umana prole”; qui però il tono disilluso del Sabato del villaggiodiventa amara climax che definisce addirittura “beata” la condizione degli uomini che la morte libera da “ogni dolor”:
[…] Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana 5.
1 G. Leopardi, Il sabato del villaggio, in Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1993, p. 203, vv. 16-19.
2 Bucoliche, I, 82-83: “Già esce il fumo dai tetti delle case lontane e le ombre calano più lunghe dagli alti monti”.
3 G. Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1821.
4 G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta, in Canti, cit., p. 199, vv. 42-46.
5 Ibidem.