Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Il celebre idillio leopardiano è composto a Recanati tra il 19 e il 20 aprile del 1828, e compare poi nei Canti a cura dell’editore Piatti di Firenze (1831). L’ultimo verso di ogni strofa è sempre un settenario in rima come uno dei versi precedenti. In questo componimento Leopardi rievoca una figura femminile del sua giovinezza, Silvia, morta prematuramente di tisi. Il poeta riflette quindi sull’inevitabile infelicità dell’uomo e sul crollo delle speranze. La giovane, con la sua precoce morte, diventa l’emblema della disillusione dell’età adulta.
Metro: Canzone di strofe libere, senza schema fisso. Anche lo schema rimico è libero; con l’unico elemento ricorrente del verso che chiude ogni strofe che è in rima con uno dei precedenti.
Note
Nota la probabile identificazione della fanciulla con Teresa Fattorini, figlia di un cocchiere di casa Leopardi morta di tisi nel 1818, il cui nome poetico è tratto dall’Aminta di Torquato Tasso; alla figura rimanda anche un importante passo dello Zibaldone del giugno del 1828 in cui Leopardi descrive e trasfigura “una giovane dai sedici ai diciotto anni” che “ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec, un non so che di divino, che niente può agguagliare. […] quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fiore della vita”.
vita mortale: l’incipit di A Silvia si apre esplicitamente sull’onda del ricordo malinconico, come indicato dalla scelta del verbo (v. 1 “rimembri”), dall’uso del vocativo con nome personale e dal ricorso, volutamente sfumato, del pronome determinativo (v. 2 “quel tempo”). La funzione del ricordo – cruciale per buona parte della poetica leopardiana – è sottolineata anche in un celebre passo dello Zibaldone del 14 dicembre 1828: “La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”.
ridenti e fuggitivi: i due termini, quasi in endiadi come “lieta e pensosa” al v. 5, indicano sia la giovanile attesa della bellezza della vita sia la percezione, oscuramente percepita, della sofferenza che l’attende; di qui la speranza e il timore nello stesso sguardo. Il tutto contribuisce alla caratterizzazione psicologica assai puntuale della figura femminile.
La costruzione sintattica con la pausa dettata dalla virgola al verso 7 e la scansione tra lo spazio interno (“le quiete | stanze”) e quello esterno (“le vie dintorno”) quasi riproduce la propagazione ad eco del canto della fanciulla.
Tra gli “studi leggiadri” e le “sudate carte” è forse ravvisabile la distinzione tra la passione leopardiana per la poesia e gli studi di erudizione su cui Leopardi stesso spende la propria adolescenza. Da notare la figura retorica del chiasmo “studi leggiadri – sudate carte”.
veroni: aulicismo per “balconi”.
Nell’immagine di Silvia intenta a lavori di cucito si noti la figura retorica della metonimia, che sostituisce all’effetto (il suono) la sua causa (appunto, la “man veloce”).
Più che un’effettivo sentimento d’amore, Leopardi intende qui la compartecipazione di una stessa situazione esistenziale, quella appunto della giovinezza speranzosa e serena, non ancora turbata dalle sofferenze e dalle inquietudini della vita.
chiuso morbo: la tisi, o “mal sottile”.
Il soggetto della frase è la “speranza mia dolce” del v. 50; alla figura di Silvia si sovrappone dunque, nell’amarissimo finale, la speranza stessa, che indica la tomba come destino comune dell’umanità. “L’apparir del vero” (v. 60) è insomma il crollo delle illusioni nutrite in gioventù, e che le sofferenze della vita adulta hanno smontato pezzo per pezzo.
Parafrasi
- O Silvia, ti ricordi ancora
- quel periodo della vita terrena,
- quando la bellezza splendeva
- nei tuoi occhi felici e furtivi
- e tu, serena e riflessiva, ti avvicinavi
- alla soglia della giovinezza?
- Le stanze silenziose
- e le vie circostanti risuonavano
- per il tuo canto ininterrotto e spontaneo,
- quando sedevi, dedita
- ai lavori femminili, e assai felice
- di quell’indeterminato futuro che avevi in mente.
- Era il mese di maggio pieno di profumi primaverili:
- e tu eri solita trascorrere così le tue giornate.
- Io abbandonando talvolta i miei
- amati componimenti e i testi di studio su cui faticavo,
- dove si spendeva la miglior parte
- di me stesso e della mia adolescenza,
- dai balconi della casa paterna
- porgevo l’udito al suono della tua voce,
- e a quello della mano che
- scorreva veloce sulla tela.
- Perdevo lo sguardo nel cielo sereno,
- per le strade invase dal sole e per gli orti,
- e di qui il mar che appare all’orizzonte, e quindi
- gli Appennini. Il linguaggio umano non può esprimere
- quel che allora io sentivo nel mio cuore.
- Che pensieri delicati ed indecifrabili,
- che speranze, che passioni, o Silvia mia!
- Quanto felice ci appariva allora
- la vita umana e il suo destino!
- Quando mi torna in mente di tali fiduciose illusioni,
- un moto dell’animo mi stringe
- in modo acerbo e senza consolazione possibile,
- e torno a soffrire per la mia sorte sventurata.
- O natura, o natura,
- perché non dai nell’età della maturità
- ciò che hai promesso durante la giovinezza? Perché
- inganni così tanto i figli tuoi?
- Tu, tormentata e sconfitta da un male incurabile,
- prima che l’inverno inaridisse i campi,
- ti spegnevi, o tenerella. E non potevi così vedere
- il fiore degli anni tuoi;
- non ti addolciva il cuore
- ora la lode dei tuoi capelli corvini
- ora gli sguardi innamorati e pudici;
- né con te le compagne nei giorni di festa
- discutevano d’amore.
- In modo simile periva di lì a poco
- la mia dolce speranza: il destino ha negato
- ai miei anni anche
- la giovinezza.
- Ah mia speranza fonte di lacrime,
- cara compagna della mia gioventù,
- come sei trascorsa!
- È questo quel mondo che avevamo sperato?
- Questi i piaceri, l’amore, le opere, gli accadimenti
- di cui tanto discutemmo insieme?
- Questa è la sorte dell’umanità?
- Al disvelamento della verità
- tu, misera, sei caduta: e con la tua mano
- indicavi da lontano la fredda morte
- e la tomba ignuda.
Commento
Nel 1828 Leopardi torna alla poesia, dopo l’intervallo prosastico delle Operette Morali; proprio i versi di A Silvia inaugurano la sua nuova stagione lirica. Il poeta ricorda un episodio avvenuto circa dieci anni prima: Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, era morta a ventun anni di tisi, una coetanea del poeta. La ragazza nella poesia diventa uno specchio di Leopardi, che vede la sua esistenza a Recanati come una morte in vita. Il poeta negli ultimi versi si interroga sul senso della speranza, che è rappresentata come una donna che da lontano indica la morte e la tomba, una figura monumentale quasi scultorea, che, come dice Cortellessa, sembra evocare i grandi monumenti funebri di Canova. Questo canto funebre si presenta anche come un’“elegia sulla fine di un modo poetico”:A Silvia e i grandi canti pisano-recanatesi sono, infatti, i primi esempi dell’invenzione formale di Leopardi, la canzone libera, in cui i versi della poesia lirica italiana, gli endecasillabi e i settenari, non sono più vincolati in un sistema chiuso e in una struttura riconosciuta, ma si alternano liberamente. Questa libertà negata all’individuo nella vita reale viene vissuta dal poeta nella sua scrittura, come dissoluzione dei legami e delle forme chiuse della poesia tradizionale.
Questi versi celeberrimi con i quali Leopardi torna alla poesia nel 1828 a Pisa, inaugurano una nuova stagione lirica di Leopardi. L’episodio che generalmente si associa a questo personaggio (Silvia, dal nome tassiano, preso dall’ecloga tassiana “Aminta”, molto amata da Leopardi), è un episodio di quasi dieci anni prima. Teresa Fattorini era la figlia del cocchiere di casa Leopardi, era morta di tisi a ventun anni (nel 1818): una coetanea di Leopardi, una ragazza che sicuramente avrà conosciuto, avrà ascoltato cantare, come ci dice in questi versi, ma che diventa improvvisamente un emblema, forse il primo personaggio della poesia italiana che si trasforma in un emblema, un’immagine quasi scultorea come quella degli ultimi versi, che sembrano evocare i grandi monumenti funebri di Antonio Canova, come già le poesie sepolcrali che Leopardi aveva inserito nei Canti. Un destino di morte, un destino di dissoluzione e soprattutto un’interrogazione sul senso della speranza: senso della speranza che Leopardi indica essere concluso all’altezza di questa nuova stagione poetica. La speranza di una felicità terrena che è tanto più ingannevole, illusoria, quanto più contemplata in un periodo successivo, quando quelle speranze rivelano la loro vacuità, la loro impossibilità, quanto erano solo parole, solo canti, solo sensazioni e sguardi, ma non componevano una vita, non componevano un’esperienza di vita condivisa, di vita proseguita, di vita continua. Il personaggio della giovane diventa specchio del poeta. Una vita, quella di Leopardi vissuta a Recanati, che era una “morte in vita”, ma anche la vita degli anni successivi, all’uscita dal “natio borgo selvaggio”, non è altro che una composizione continua di attività, che però non si riesce ad annodare, a filare in una tela continua. E questa immagine della filatrice, del cucito nel quale è intenta Silvia, ci ricorda le immagini terribili del mito funebre, le immagini delle Parche. Così come nel momento in cui viene introdotta la stagione invernale: la malattia di cui Silvia si ammala è una malattia che la conduce a morte, e viene associata all’inverno. Ed è questo un immaginario che richiama l’immagine di Persefone, di Proserpina, rapita alla vita umana e trascinata nell’Ade ghiacciata, in cui non c’è più sensualità, non c’è più gioia, non c’è più felicità, ma solo un mondo cupo e tenebroso, solo un mondo chiuso in un morbo mortale che impedisce l’esistenza. Questo canto funebre, questa rapsodia funebre è anche una elegia sulla fine di un modo poetico, perché A Silvia insieme ai grandi canti Pisano-recanatesi, come vengono chiamati quelli dell’anno seguente, Le Ricordanze e Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, è un primo esempio di quella straordinaria invenzione formale di Leopardi, che è la cosiddetta canzone libera, in cui i versi della tradizione petrarchesca, i versi della tradizione retorica italiana, l’endecasillabo ed il settenario, non sono più vincolati e stretti in un sistema chiuso, in un sistema che abbia delle forme e delle strutture riconoscibili, ma si alternano liberamente e possono rilasciare, a seconda di quelli che sono i moti del sentimento, dell’immaginazione, le loro diverse energie ritmiche e prosodiche con somma libertà. Questa stessa libertà, quella che è negata all’individuo nella sua esistenza reale, biologica, nella vita reale, viene vissuta dal poeta nel suo laboratorio di scrittura, viene vissuta come dissoluzione dei legami, diluizione delle forme chiuse che erano state ereditate e come apparizione di un mondo nuovo, di un mondo libero, di un mondo aperto che invece nell’esistenza non viene concesso a noi umani. Quel verso famoso che è sempre stato tanto amato, “le vie dorate e gli orti”, in cui la successione dei nessi consonantici è così armoniosa e musicale, in realtà viene negato a Silvia o a Teresa Fattorini, se veramente si trattava di lei, così come viene negato a Giacomo Leopardi individuo biologico e sofferente, ma quelle “vie dorate e quegli orti” si sono aperte quel giorno a Pisa per tutti noi e per sempre.