Letteratura italiana

XI Il Passero solitario

D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

Note

Passata è la tempesta: è una situazione meteorologico-paesaggistica, di natura autobiografica, ad aprire la Quiete dopo la tempesta: dopo un violento temporale, un piccolo borgo rurale – che riporta alla mente il “natio borgo selvaggio” delle Ricordanze, v. 30 – torna lentamente alla vita e alle normali abitudini, dopo lo scampato pericolo.

 augelli: tipico esempio del lessico selezionato della poesia leopardiana che, in accordo con alcune dichiarazioni di poetica dello Zibaldone, rinviene nelle parole arcaiche e desuete uno strumento assai efficace per evocare sensazioni poetiche, connesse in questo caso con la teoria del piacere e delle illusioni.

 Ecco il sereno: l’idillio leopardiano, che occupa tutta la prima strofe, è attentamente studiato; dopo il quadro dei primi versi (che descrivono gli attimi successivi alla “tempesta”), qui l’eruzione del cielo sereno dal crinale della montagna (v. 5) è qualcosa di improvviso, come indicato dall’avverbio (“ecco”) e dall’enjambement tra i vv. 4-5.

 chiarol’aggettivazione mette a fuoco l’importanza della luce in questo passo, che risplende e si riflette anche nelle acque del fiume a valle; dato che il contesto è autobiografico, si può immaginare che il corso d’acqua sia il Potenza, che scorre appunto tra Macerata e Recanati.

 il lavoro usato: la dimensione del lavoro umile e quotidiano, come attività che rallegra il cuore dell’uomo e lo tiene lontano dalle angosce e dalle paure, è presente anche nel Sabato del villaggio (vv. 31-37). Anche l’aspetto fonico fa la sua parte, con una serie di echi in particolare del fonema – r – che arricchiscono la musicalità dei versi.

umido: in quanto fresco di pioggia appena caduta.

 La strofe si chiude sempre su una nota musicale: il “tintinnio” dei sonagli, percepito da lontano, si somma allo stridere delle ruote del carro.

 Le interrogative retoriche che aprono la terza strofe indicano il passaggio dalla descrizione paesaggistica (che funge quindi da exemplum) alla riflessione filosofica, venata di pessimismo, della filosofia leopardiana e dell’intrinseco legame tra dolore e piacere per i comuni mortali.

 Piacer figlio d’affanno: è una tesi tipicamente leopardiana, che viene svolta soprattutto nelle pagine dello Zibaldone; qui, in alcune pagine dell’agosto 1822, il poeta spiega con lucidità: “Le convulsioni degli elementi e altri tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile […] si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perché più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza essi mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia […]”.

chi la vita aborria: il piacere che coglie ciascuno di noi quando scampiamo un pericolo è tale per Leopardi da cogliere anche chi, conscio del dolore che nasconde l’esistenza, desidera la morte per liberarsi dal dolore. Si tratta insomma di una pura illusione, ma che riesce ad apportare un piacere momentaneo.

 fredde, tacite, smorte: la climax degli aggettivi fotografa bene l’impotenza umana di fronte agli eventi naturali devastanti, con un accento che tornerà ne La ginestra in merito all’eruzione del Vesuvio.

 natura cortesel’aggettivazione è ovviamente sarcastica: la “natura” concede ai suoi figli solo questo tipo di “doni” (v. 43), ovvero la morte come soluzione per “uscir di pena” (v. 45). Nello ZIbaldonesi conferma: “L’uomo non può molto godere, non solo perché pochi e piccoli sono i piaceri, ma anche rispetto a se stesso, perché egli è molto limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga le sue capacità”.

 mostro: dal latino monstrum, -i, con sfumatura etimologica, “prodigio”, “cosa inaudita”. Il piacere è insomma qualcosa che ci giunge solo per eccezionale e fortuita contingenza del caso.

 eterni: l’appello agli dei (e la chiusura di tutta la Quiete) suona sprezzantemente sarcastico soprattutto nei confronti di chi si illude che il genere umano sia discendenza diretta degli dei e che il cosmo sia costruito per dare all’uomo una vita felice. Sono temi che saranno poi sviluppati dalla Ginestra.

Introduzione

Il Passero solitario fu composto probabilmente a partire dal 1831. La sua struttura metrica è quella della canzone libera in endecasillabi e settenari alternati, tipica dei canti successivi al silenzio poetico dell’autore (1822-1828). In questo componimento il poeta opera un parallelo tra la sua solitudine ed esclusione esistenziale e quella di un passero, che in primavera canta solitario. Centrale è anche un motivo tipico della produzione leopardiana, ovvero il rimpianto di non godere della gioventù che fugge.

Canzone composta tra il 17 e il 20 settembre 1829, praticamente in parallelo al Sabato del villaggio (con cui condivide non pochi elementi di poetica), e quindi pubblicata nei Canti a partire dall’edizione fiorentina del 1831. La Quiete presenta inizialmente un quadro di vita agreste, subito dopo la pace che segue lo scatenarsi e poi l’attenuarsi di un temporale; il ritorno alla normalità coincide con la riflessione filosofica di Leopardi, che, rifacendosi anche alle tesi delo Zibaldone, ragiona sull’illusione dei piaceri e sulla condanna umana al dolore.

Metro: Canzone di strofe libere di endecasillabi e settenari, con frequenti assonanze interne.

Parafrasi

  1. È finita la tempesta:
  2. sento gli uccellini cinguettare, e la gallina,
  3. ritornata sulla strada [dopo il diluvio]
  4. che ripete continuamente il suo verso. Ecco
  5. all’improvviso laggiù si apre da occidente il sereno,
  6. in direzione delle montagne: si sgombra
  7. la campagna [dalle ombre], e nella valle il fiume
  8. risplende limpido. Ogni essere umano
  9. si conforta, in ogni angolo si sente di nuovo
  10. un rumore di vita, e torna il lavoro quotidiano.
  11. L’artigiano, osservando il cielo dopo il diluvio,
  12. con gli attrezzi di lavoro in mano, cantando,
  13. si affaccia sull’ingresso; la fanciulletta esce
  14. di casa in un tentativo di raccogliere
  15. l’acqua appena caduta;
  16. l’erbivendolo ripete, da un sentiero
  17. all’altro, il suo grido,
  18. che ripete sempre ogni giorno.
  19. Ecco ritorna a splendere il sole, eccolo sorridere
  20. per colline e case di campagna. La servitù
  21. spalanca balconi, finestre e logge: e,
  22. dalla strada maestra, si sente un tintinnio
  23. lontano di sonagli; il carro del visitatore
  24. stride, mentre riprende il suo viaggio.
  25. Ogni cuore torna a sprizzar felicità.
  26. Quando la vita è dolce e lieta
  27. come in questi momenti?
  28. Quando un uomo segue il suo lavoro
  29. con tanta amorevole dedizione? O quando
  30. torna alle sue fatiche, o quando ne inizia
  31. di nuove? Quando egli si ricorda meno delle sue afflizioni?
  32. Il piacere è figlio della sofferenza;
  33. [è] una gioia effimera ed illusoria, che è frutto
  34. della paura che si è provata, per la quale
  35. ebbe un sussulto e temette di morire
  36. anche chi disprezza la vita;
  37. per cui le genti umane, agghiacciate,
  38. ammutolite e pallide di morte 
  39. sudarono e palpitarono
  40. osservando fulmini, nuvole e vento mossi
  41. per colpirci tutti.
  42. O natura gentile,
  43. questi sono i tuoi doni,
  44. questi sono i piaceri
  45. che offri agli uomini. Per noi, è un diletto
  46. l’uscita dalla pena.
  47. Tu spargi dolore in abbondanza; il dolore
  48. è uno stato naturale ed è invece gran guadagno
  49. di piacere ciò che talora nasce, per prodigio
  50. o per miracolo, tra le nostre sofferenze.
  51. O stirpe umana cara agli dei immortali! Assai
  52. felice [sei] se ti è lecito aver sollievo
  53. da ogni sofferenza; beata [sei] se la morte
  54. ti purifica da ogni dolore.

Analisi

Nella prima strofa della lirica (vv. 1-16) Leopardi descrive un paesaggio primaverile vago e armonioso. Da questo quadro felice, in cui tutti gli esseri viventi condividono la gioia per il ritorno della primavera, emerge il contrasto con il passero solitario, che “pensoso in disparte il tutto mira” (v. 12; da notare la scelta dell’aggettivo “pensoso”, più adatto a un essere umano, quale il poeta, che non a un volatile)  che e non partecipa a questa atmosfera di felicità e rinnovamento, ma canta “finché non more il giorno” (v.3). Leopardi nella descrizione usa termini e immagini tipici della poetica dell’indefinito, come al v. 1 (“torre antica”), dove l’aggettivo crea un effetto di lontananza temporale e spaziale e al vv. 2-3 (“alla campagna… vai”), che crea un senso di indeterminatezza e vastità del paesaggio; la determinazione di luogo verrà ripresa al v. 37, “alla campagna uscendo”, dando vita al confronto tra il passero e Leopardi stesso.

Dai vv. 17-44 si realizza il parallelo tra la vita solitaria del passero, voluta e cercata per disposizione naturale, e quella del poeta, che, come l’uccello, osserva in disparte la vita, che si rinnova gioiosa in primavera, metafora abbastanza esplicita della giovinezza. Questo innaturale senso di isolamento e il rifiuto di godere delle gioie dell’età giovanile non sono del tutto comprensibili a Leopardi (v. 22: “io non so come”) e diventano il suo personale destino, proprio nel momento in cui il poeta si mette a confronto con gli altri giovani che si preparano a festeggiare l’arrivo della primavera (vv. 32-33: “La gioventù del loco | Lascia le case, e per le vie si spande; | E mira ed è mirata, e in cor s’allegra”). Un elemento visivo esterno, il sole che tramonta e “par che dica | che la beata gioventù vien meno” (vv. 43-44) porta Leopardi ad affrontare la realtà: in futuro rimpiangerà il mancato godimento della giovinezza, perché “Ogni diletto e gioco | indugio in altro tempo” (vv. 38-39).

L’ultima strofa (vv.45-59) è incentrata ancora sul confronto tra il passero e l’autore: l’uccello, per sua natura, poiché vive secondo l’istinto, non rimpiangerà il suo modo di vivere (vv. 46-49: “Del viver che daranno a te le stelle, | certo del tuo costume | non ti dorrai, che di natura è frutto | ogni vostra vaghezza”), mentre il poeta, se giungerà alla dura età matura, sconsolato si volgerà indietro e si pentirà del passato. La vecchiaia è vista in maniera negativa, rende “il dì presente più noioso e tetro”, soffocando ogni passione.

Le fonti letterarie

Diverse sono le fonti letterarie che hanno ispirato Leopardi nella composizione del Passero solitario, alcune classiche ed altre più recenti. Maria Corti (nel saggio Passero solitario in Arcadia contenuto nella raccolta di saggi Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969) sostiene che una delle possibili fonti tematiche e strutturali di questo componimento sia L’Arcadia di Jacopo Sannazaro, pubblicata nel 1504, e in particolare l’egloga VIII. Porta a sostegno di questa ipotesi i versi 37-42 del poema quattrocentesco:

Questa vita mortale al dì somigliasi,
il qual, poi che si vede giunto al termine,
pien di scorno all’occaso rinvermigliasi.
Così, quando vecchiezza avvien che termine
i mal spesi anni che sì ratti volano,
vergogna e duol convien c’al cor si germine.

Corti si sofferma innanzitutto su “l’occaso” che “provoca la similitudine tra il giorno e la vita mortale”, e sui versi 41-44 del Passero solitario, in cui si riscontra la stessa similitudine: “il Sol…cadendo si dilegua, e par che dica che la beata gioventù vien meno”. Poi, mette in luce una seconda corrispondenza tra il verso 40 (“quando vecchiezza avvien che termine” e il versi 50-51 di Leopardi (“se di vecchiezza | la detestata soglia”), e ancora tra v. 41 (“i mal spesi anni che sì ratti volano”) e v. 57 (“Che di quest’anni miei?”) e infine tra la “vergogna e duol” sugli anni della giovinezza spesi male del verso 42 del componimento sannazzariano e gli ultimi due versi di Leopardi (vv. 58-59): “Ahi, pentirommi, e spesso, | Ma sconsolato, volgerommi indietro”.

L’autrice considera anche un passo dello Zibaldone (I, 88) in cui viene citato il verso 126 dell’egloga VIII:

E tanto è miser l’uomo quant’ei si reputa disse eccellentemente il Sannazzaro. Ora in quello stato ch’io diceva in un pensiero poco sopra, egli non reputandosi misero neanche sarebbe stato, come ora tanti in condizione simile a quella ch’i’ ho detto, poco reputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici;

Corti, commentando, scrive: “Con tale argomento nel Passero il poeta può contrapporre la sua infelicità alla naturalezza dell’animale e dei paesani”.

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