Scritti da Ugo Foscolo nel 1806 e pubblicati nella primavera del 1807dalla tipografia di Niccolò Bettoni, a Brescia, i Sepolcri furono composti a seguito di una conversazione avuta con Ippolito Pindemonte nel salotto veneziano di Isabella Teotochi Albrizzi, intorno al problema, allora molto sentito, della sepoltura dei morti. Il Pindemonte, che stava componendo un poema su I cimiteri, aveva difeso da un punto di vista affettivo-religioso l’istituzione delle sepolture, sostenendo che la moderna filosofia, dalla quale traeva spunto la recente legislazione in materia, inducesse a ignorare il culto dei defunti. L’editto di Saint Cloud (1804) – che imponeva che le tumulazioni avvenissero fuori dal centro abitato e (soprattutto) che le lapidi dei “cittadini” fossero tutte identiche – era stato infatti esteso all’Italia, allora sotto il dominio napoleonico: un provvedimento che aveva dato avvio ad accesi dibattiti tra gli intellettuali del tempo. Foscolo aveva fatto valere, almeno inzialmente, una concezione materialistica dell’esistenza (la stessa che sembra dare forma alle riflessioni sulla morte del sonetto Alla sera), della quale – come dichiarato in una lettera all’Albrizzi – non mancò di pentirsi: “Io ho fatto quel giorno il filosofo indifferente; e me ne sono pentito”.
I Sepolcri si presentano pertanto come una ripresa puntuale di quella discussione (ravvisabile fin dall’incipit in medias res, e dalla dedica a Pindemonte). In realtà la ritrattazione è solo parziale, e concentra un complesso di idee che da tempo andavano maturando nell’animo del Foscolo. Parecchi spunti e motivi già visti nell’Ortis e nei sonetti (si pensi al tema del sepolcro nelle poesie A Zacinto e In morte del fratello Giovanni), ritonano qui, sviluppati, rifomulati e arricchiti. Alla base della teorizzazione del poeta, vi è l’idea che nel mondo in continuo divenire, soltanto il sentimento, la “corrispondenza d’amorosi sensi” (v. 30), sia in grado di garantire all’uomo l’immortalità, attraverso il ricordo dei suoi simili. Al nulla eterno, Foscolo contrappone un sistema di valori, illusioni, ideali, in grado di resistere all’azione corrosiva del tempo. Il sepolcro è non solo luogo di affetti, ma consente la trasmissione di un intero patrimonio umano, attraverso il culto dei più grandi eroi della Storia.
Si fondono allora, nell’argomentazione foscoliana (che spesso procede rapsodica, per analogie e per transizioni non sempre limpide ed immediate) il senso per le tradizioni, la venerazione per i “grandi” del passato letterario nazionale (in primis, il Parini e l’Alfieri), il culto della patria, il valore sublimante ed eternante della poesia(connesso al ruolo del poeta civile), i miti dell’antichità classica, che la poesia ha il compito di rendere sempre attuali. Fitta la tramatura di reminiscenze, classiche e coeve (tra queste, in particolare, l’Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray e, per i toni cupi e macabri del componimento, specie ai vv. 70-86, i Canti di Ossian di James Macpherson, conosciuti in Italia grazie alla traduzione realizzata da Melchiorre Cesarotti nel 1762).
Metro: carme in endecasillabi sciolti. Spesso, per l’ampiezza del discorso e per le necessità di arricchimento ritmico-stilistico, Foscolo ricorre sistematicamente all’enjambement, che dilata a dismisura la lunghezza del verso, e alla curatissima ricerca sulla disposizione degli accenti.
A Ippolito Pindemonte
Deorum Manium iura sancta sunto
La formula-epigrafe (“Siano sacri i diritti delle divinità dei Mani”) è tratta dalle Leggi delle Dodici Tavole (450 a.C.), che costituiscono il nucleo primigenio del diritto romano. Nella religione di Roma, i Mani sono le anime dei defunti, e rappresentano quindi gli spiriti degli antenati (o, più genericamente, le divinità oltretombali).
Testo
- All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
- confortate di pianto è forse il sonno
- della morte men duro? Ove più il Sole
- per me alla terra non fecondi questa
- bella d’erbe famiglia e d’animali,
- e quando vaghe di lusinghe innanzi
- a me non danzeran l’ore future,
- nè da te, dolce amico, udrò più il verso
- e la mesta armonia che lo governa,
- nè più nel cor mi parlerà lo spirto
- delle vergini Muse e dell’Amore,
- unico spirto a mia vita raminga,
- qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
- Che distingua le mie dalle infinite
- ossa che in terra e in mar semina morte?
- Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
- ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
- tutte cose l’obblio nella sua notte;
- e una forza operosa le affatica
- di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
- e l’estreme sembianze e le reliquie
- della terra e del ciel traveste il tempo.
- Ma perché pria del tempo a sè il mortale
- invidierà l’illusion che spento
- pur lo sofferma al limitar di Dite?
- Non vive ei forse anche sotterra, quando
- gli sarà muta l’armonia del giorno,
- se può destarla con soavi cure
- nella mente de’ suoi? Celeste è questa
- corrispondenza d’amorosi sensi,
- celeste dote è negli umani; e spesso
- per lei si vive con l’amico estinto
- e l’estinto con noi, se pia la terra
- che lo raccolse infante e lo nutriva,
- nel suo grembo materno ultimo asilo
- porgendo, sacre le reliquie renda
- dall’insultar de’ nembi e dal profano
- piede del vulgo e serbi un sasso il nome,
- e di fiori odorata arbore amica
- le ceneri di molli ombre consoli.
- Sol chi non lascia eredità d’affetti
- poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
- dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
- fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
- o ricovrarsi sotto le grandi ale
- del perdono d’lddio: ma la sua polve
- lascia alle ortiche di deserta gleba
- ove nè donna innamorata preghi,
- nè passeggier solingo oda il sospiro
- che dal tumulo a noi manda Natura.
- Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
- fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
- sacerdote o Talia, che a te cantando
- nel suo povero tetto educò un lauro
- con lungo amore, e t’appendea corone ;
- e tu gli ornavi del tuo riso i canti
- che il lombardo pungean Sardanapalo,
- cui solo è dolce il muggito de’ buoi
- che dagli antri abduani e dal Ticino
- lo fan d’ozi beato e di vivande.
- O bella Musa, ove sei tu? Non sento
- spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
- fra queste piante ov’io siedo e sospiro
- il mio tetto materno. E tu venivi
- e sorridevi a lui sotto quel tiglio
- ch’or con dimesse frondi va fremendo
- perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio,
- cui già di calma era cortese e d’ombre.
- Forse tu fra plebei tumuli guardi
- vagolando, ove dorma il sacro capo
- del tuo Parini ? A lui non ombre pose
- tra le sue mura la città, lasciva
- d’evirati cantori allettatrice,
- non pietra, non parola; e forse l’ossa
- col mozzo capo gl’insanguina il ladro
- che lasciò sul patibolo i delitti .
- Senti raspar fra le macerie e i bronchi
- la derelitta cagna ramingando
- su le fosse e famelica ululando;
- e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
- l’ùpupa, e svolazzar su per le croci
- sparse per la funerea campagna
- e l’immonda accusar col luttuoso
- singulto i rai di che son pie le stelle
- alle obblîate sepolture. Indarno
- sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
- dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
- non sorge fiore ove non sia d’umane
- lodi onorato e d’amoroso pianto.
- Dal dì che nozze e tribunali ed are
- dier alle umane belve esser pietose
- di sé stesse e d’altrui , toglieano i vivi
- all’etere maligno ed alle fere
- i miserandi avanzi che Natura
- con veci eterne a’ sensi altri destina.
- Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
- ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi
- de’ domestici Lari, e fu temuto
- su la polve degli avi il giuramento:
- religïon che con diversi riti
- le virtù patrie e la pietà congiunta
- tradussero per lungo ordine d’anni.
- Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
- fean pavimento; nè agl’incensi avvolto
- de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
- contaminò; nè le città fur meste
- d’effigïati scheletri : le madri
- balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
- nude le braccia su l’amato capo
- del lor caro lattante, onde nol desti
- il gemer lungo di persona morta
- chiedente la venal prece agli eredi
- dal santuario. Ma cipressi e cedri
- di puri effluvi i zefiri impregnando
- perenne verde protendean su l’urne
- per memoria perenne, e prezïosi
- vasi accogliean le lagrime votive.
- Rapìan gli amici una favilla al Sole
- a illuminar la sotterranea notte,
- perché gli occhi dell’uom cercan morendo
- Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
- mandano i petti alla fuggente luce.
- Le fontane versando acque lustrali
- amaranti educavano e viole
- su la funebre zolla; e chi sedea
- a libar latte o a raccontar sue pene
- ai cari estinti, una fragranza intorno
- sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
- Pietosa insania che fa cari gli orti
- de’ suburbani avelli alle britanne
- vergini, dove le conduce amore
- della perduta madre, ove clementi
- pregaro i Geni del ritorno al prode
- che tronca fe’ la trîonfata nave
- del maggior pino, e si scavò la bara.
- Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
- e sien ministri al vivere civile
- l’opulenza e il tremore, inutil pompa
- e inaugurate immagini dell’Orco
- sorgon cippi e marmorei monumenti.
- Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo ,
- decoro e mente al bello Italo regno,
- nelle adulate reggie ha sepoltura
- già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
- morte apparecchi riposato albergo,
- ove una volta la fortuna cessi
- dalle vendette, e l’amistà raccolga
- non di tesori eredità, ma caldi
- sensi e di liberal carme l’esempio.
- A egregie cose il forte animo accendono
- l’urne de’ forti , o Pindemonte; e bella
- e santa fanno al peregrin la terra
- che le ricetta. Io quando il monumento
- vidi ove posa il corpo di quel grande
- che, temprando lo scettro a’ regnatori,
- gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
- di che lagrime grondi e di che sangue;
- e l’arca di colui che nuovo Olimpo
- alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
- sotto l’etereo padiglion rotarsi
- più mondi, e il Sole irradiarli immoto,
- onde all’Anglo che tanta ala vi stese
- sgombrò primo le vie del firmamento:
- te beata
- Lieta dell’aer tuo veste la Luna
- di luce limpidissima i tuoi colli
- per vendemmia festanti, e le convalli
- popolate di case e d’oliveti
- mille di fiori al ciel mandano incensi:
- e tu prima, Firenze , udivi il carme
- che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco ,
- e tu i cari parenti e l’idïoma
- desti a quel dolce di Calliope labbro ,
- che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
- d’un velo candidissimo adornando,
- rendea nel grembo a Venere Celeste ;
- ma più beata che in un tempio accolte
- serbi l’Itale glorie, uniche forse
- da che le mal vietate Alpi e l’alterna
- onnipotenza delle umane sorti,
- armi e sostanze t’invadeano, ed are
- e patria, e, tranne la memoria, tutto.
- Che ove speme di gloria agli animosi
- intelletti rifulga ed all’Italia,
- quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
- venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
- irato a’ patrii Numi; errava muto
- ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
- desîoso mirando; e poi che nullo
- vivente aspetto gli molcea la cura,
- qui posava l’austero; e avea sul volto
- Il pallor della morte e la speranza.
- Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
- fremono amor di patria. Ah sì! da quella
- religïosa pace un Nume parla:
- e nutrìa contro a’ Persi in Maratona
- ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
- la virtù greca e l’ira. Il navigante
- che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
- vedea per l’ampia oscurità scintille
- balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
- fumar le pire igneo vapor, corrusche
- d’armi ferree vedea larve guerriere
- cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
- silenzi si spandea lungo ne’ campi
- di falangi un tumulto e un suon di tube
- e un incalzar di cavalli accorrenti
- scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
- e pianto, ed inni, e delle Parche il canto
- Felice te che il regno ampio de’ venti,
- Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
- E se il piloto ti drizzò l’antenna
- oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
- certo udisti suonar dell’Ellesponto
- i liti , e la marea mugghiar portand
- alle prode Retée l’armi d’Achille
- sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi
- giusta di glorie dispensiera è morte ;
- né senno astuto, né favor di regi
- all’Itaco le spoglie ardue serbava,
- ché alla poppa raminga le ritolse
- l’onda incitata dagl’inferni Dei.
- E me che i tempi ed il desio d’onore
- fan per diversa gente ir fuggitivo ,
- me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
- del mortale pensiero animatrici.
- siedon custodi de’ sepolcri, e quando
- il tempo con sue fredde ale vi spazza
- fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
- di lor canto i deserti, e l’armonia
- vince di mille secoli il silenzio .
- Ed oggi nella Tròade inseminata
- eterno splende a’ peregrini un loco
- eterno per la Ninfa a cui fu sposo
- Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
- onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
- talami e il regno della Giulia gente
- Però che quando Elettra udì la Parca
- che lei dalle vitali aure del giorno
- chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
- mandò il voto supremo: E se diceva,
- a te fur care le mie chiome e il viso
- e le dolci vigilie, e non mi assente
- premio miglior la volontà de’ fati,
- la morta amica almen guarda dal cielo
- onde d’Elettra tua resti la fama.
- Così orando moriva. E ne gemea
- l’Olimpio; e l’immortal capo accennando
- piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
- e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
- Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
- cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
- sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
- da’ lor mariti l’imminente fato;
- ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
- le fea parlar di Troia il dì mortale,
- venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
- e guidava i nepoti, e l’amoroso
- apprendeva lamento a’ giovinetti .
- E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
- ove al Tidide e di Laerte al figlio
- pascerete i cavalli, a voi permetta
- ritorno il cielo, invan la patria vostra
- cercherete! Le mura, opra di Febo,
- sotto le lor reliquie fumeranno.
- Ma i Penati di Troja avranno stanza
- in queste tombe; chè de’ Numi è dono
- servar nelle miserie altero nome.
- E voi palme e cipressi che le nuore
- piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
- di vedovili lagrime innaffiati.
- Proteggete i miei padri: e chi la scure
- asterrà pio dalle devote frondi
- men si dorrà di consanguinei lutti
- e santamente toccherà l’altare,
- proteggete i miei padri. Un dì vedrete
- mendico un cieco errar sotto le vostre
- antichissime ombre, e brancolando
- penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
- e interrogarle. Gemeranno gli antri
- secreti, e tutta narrerà la tomba
- Ilio raso due volte e due risorto
- splendidamente su le mute vie
- per far più bello l’ultimo trofeo
- ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
- placando quelle afflitte alme col canto,
- i prenci argivi eternerà per quante
- abbraccia terre il gran padre Oceàno .
- E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
- ove fia santo e lagrimato il sangue
- per la patria versato, e finché il Sole
- risplenderà su le sciagure umane.
Note
‘urne: è metonimia per le tombe dei defunti; i “cipressi” sono invece gli alberi sacri a Plutone, dio degli Inferi.
I versi iniziali (e l’interrogativa che apre I sepolcri) sembrano far iniziare la conversazione del Foscolo da dove era rimasta interrotta: i sepolcri, dice il poeta, sono inutili ai morti, perché la morte determinerebbe l’annullamento dell’essere umano, riassorbito nel ciclo perenne di nascita e distruzione. Il concetto, qui espresso attraverso domanda retorica (che implica una risposta negativa) è presente anche nella già citata elegia di Gray, ed è esplicitato nella Lettera a Monsieur Guillon, che aveva fortemente criticato il carme foscoliano: “I monumenti, inutili ai morti, giovano ai vivi, perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità alle persone dabbene”. Foscolo ha in mente le pratiche di sepoltura invalse presso Greci e Latini, come suggerisce il termine “urna”, vaso che raccoglieva le ceneri dei defunti cremati. Il riferimento alla classicità è esplicitato più avanti, ai vv. 114-129.
Ove: va letto in correlazione con il “quando” del v. 6. La frase significa semplicemente “quando sarò morto”, ma il poeta esprime l’idea indirettamente, attraverso una lunga perifrasi, artificio al quale spesso il Foscolo ricorre nel corso del carme per elevare il dettato stilistico del suo testo.
per me: il pronome è in posizione marcata, a ribadire con atteggiamento fiero dell’individualismo foscoliano, espresso spesso anche nei sonetti (basti pensare, ad esempio, all’Autoritratto).
non danzeran l’ore future: quando non ci sarà più futuro perché per il poeta sopraggiungerà il tempo della morte. Le Ore, figure della mitologia greca, sono personificate, come nell’ode All’amica risanata: sono rese attraenti (“vaghe”) per le promesse che portano con sé.
dolce amico: è Pindemonte, il cui nome, nella complessa architettura sintattica di apertura del carme, verrà fatto per la prima volta solo al v. 16.
mesta armonia: l’intonazione malinconica del Pindemonte alla quale Foscolo fa riferimento è con ogni probabilità quella delle Poesie campestri.
delle vergini Muse e dell’Amore: poesia e amore, qui personificati, sono per Foscolo gli ideali più importanti (e che, nel corso del carme, diventeranno le fondamenta dei valori civili dell’umanità), e gli unici in grado di dare qualche conforto (“ristoro”) alla sua vita di esule. “Spirto”, al v. 10, è ripetuto al v. 12, a ribadire l’importanza di questo concetto e la forte carica semantica della parola: unisce infatti in sé passione e ispirazione poetica.
in terra e in mar semina morte: si noti l’efficacia icastica dell’immagine prescelta: la morte, da intendersi qui come destino ineluttabile, semina morte su tutta la Terra, immaginata come un immenso e sconfinato cimitero.
la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: dibattuto dalla critica l’esatto significato di questa affermazione. L’immagine della speranza come ultima dea richiama un passo di Teognide (VI-V sec. a.C.) citato da Foscolo anche nel commento alla Chioma di Berenice: “Tutti i numi salendo all’Olimpo gli infelici mortali abbandonano: la Speranza sola rimane buona dea”. Come messo in evidenza da Petrocchi, la speranza non è da intendersi in senso religioso, ma come “fiducia quotidianamente sofferta di compiere in vita, anche nell’ultimo stremo d’essa, gesta degne di tutti gli ideali cantati da Foscolo”.
le affatica di moto in moto: il poeta fa riferimento alla concezione che vede l’universo eternamente sottoposto a un ciclo di aggregazione e disgregazione della materia.Rilevante (e diffusissima come vedremo in tutta la prima parte de I sepolcri) l’eco lucreziana dal De rerum natura.
L’azione inesorabile del tempo non lascia scampo, mutando inevitabilmente l’aspetto di cose e uomini. Alla lettera “estreme sembianze” significa appunto “ultimi aspetti”, e “reliquie” è “ciò che rimane”.
Alla conclusione negativa della Ragione, espressa nei versi precedenti, che riprendevano le tesi già espresse da “filosofo indifferente” nel salotto della Albrizzi, il Foscolo contrappone un moto del sentimento, introdotto dalla forte avversativa iniziale “Ma”, che chiude la sorta di introduzione precedente. Il sepolcro – dice il poeta – non è del tutto inutile, se è in grado di ristabilire la “corrispondenza d’amorosi sensi” (o meglio, la sua illusione) tra morti e vivi.
limitar di Dite: a fermare l’uomo sulla soglia dell’”oblio” che avvolge tutte le cose, è l’illusione, inverata nei cuori umani e resa possibile proprio dalla tomba. L’immagine dell’indugio sulla soglia di Dite è mutuata dal De Rerum Natura di Lucrezio e risulta particolarmente efficace per la sua forza espressiva.
nella mente de’ suoi: il defunto continua a vivere idealmente grazie al moto di pietà coltivato dai vivi. Si noti come, specularmente al ragionamento precedente sull’inutilità del sepolcro, anche qui il discorso si sviluppa a partire da articolate interrogative retoriche.
Spesso nel carme la natura è personificata: qui la terra è rappresentata come una madre pietosa che, dopo aver dato la vita al figlio e averlo nutrito, non esita ad accoglierlo porgendogli asilo dopo la morte. Si notino i termini appartenenti alla sfera semantica religiosa (“pie”, “celeste”, “sacre”, “profano”), a ribadire la nobiltà della “corrispondenza d’amorosi sensi”, per quanto il Foscolo non abbandoni mai una concezione immanentistica e laica: il nulla eterno può infatti essere superato grazie alle illusioni e ai più alti valori umani.
profano piede del vulgo: Il sepolcro ostacola l’azione corrosiva degli agenti atmosferici e consente di evitare che le reliquie del defunto vengano profanate dal piede del volgo, svolgendo insomma una basilare funzione per conservare un simbolo della memoria.
sasso: in questo caso non vale genericamente per tomba (per metonimia, dunque) ma, più propriamente, per “lapide”: portando inciso il nome del defunto, questa consentirà infatti di distinguere il sepolcro di ciascuna, rispetto alla massa indistinta di ossa di una fossa anonima.
arbore: è latinismo, e dal latino mutua anche il genere femminile, coe si vede dall’aggetivazione.
La consolazione del sepolcro è poca cosa solo per chi non abbia saputo meritarsi affetti durante la vita: non ci sarà infatti nessuno a compiangerlo e riattivare, con il moto di pietà già visto, la “corrispondenza d’amorosi sensi” così fortemente idealizzata dal poeta. Si veda come nei Sepolcril’andamento ragionativo di Foscolo spesso si concretizzi in “massime” brevi ed icastiche come questa, che sintetizzano o sviluppano il discorso dell’autore.
Chi confida in un’altra vita, immagina la propria anima fra “l’compianto dei templi Acherontei” (dove “compianto” è da intendersi semplicemente come “pianto comune” delle anime, mentre l’espressione “templi acherontei” fa riferimento ai luoghi infernali, attraversati dal fiume Acheronte), oppure “sotto le ali del perdono di Iddio”, con personificazione. Convincente l’interpretazione secondo cui con questa seconda immagine il poeta non avrebbe tanto voluto riferirsi al Purgatorio, quanto piuttosto a una generica visione cristiana dell’oltretomba, in contrapposizione a una visione pagana (già suggerita, appunto, attraverso l’espressione “templi Acherontei”).
gleba: letteralmente, “zolla”, che, per sineddoche, sta più genericamente ad indicare la terra.
donna innamorata prieghi: l’immagine della donna innamorata che sospira e prega sulla tomba dell’amato è cara alla poesia del Foscolo: la ritroviamo anche nell’Ortis (nella lettera del 25 maggio 1798: “La mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lacrime, e dalle lacrime di quella fanciulla celeste”) e concorre a determinare un sentimento di forte compassione, così come l’immagine immediatamente successiva.
L’editto di Saint Cloud, emanato in Francia nel giugno del 1804 (rinnovando, di fatto, precedenti legislazioni austriache) fu esteso in Italia nel settembre del 1805. La legge imponeva che i cimiteri fossero posti lontano del centro abitato: un provvedimento non condivisibile nella nuova concezione del Foscolo, in quanto tesa ad allontanare vivi ed estinti, non favorendo il commemorazione di questi ultimi.
il nome a’ morti: le leggi austriache prevedevano che le iscrizioni fossero poste non sulla singola lapide, ma all’esterno del cimitero, rendendo così impossibile distinguere una tomba dall’altra.
il tuo sacerdote: poichè non sono concesse distinzioni, il poeta immagina che le reliquie del Parini giacciano accanto a quelle di un delinquente morto sul patibolo. Il passo presenta una tonalità macabra, ben distante dal patetismo che contraddistingueva la prima parte del componimento, e in linea con le suggestioni preromantiche coeve, quali si ritrovano nei già citati Canti di Ossian. Talia è la musa della poesia comica, e quindi, per estensione, satirica. Il Parini, qui definito – con ricorso al linguaggio della religione pagana – “sacerdote” (a ribadire il valore eternanate della poesia, tema principale dell’ultima parte del carme), vi si cimentò con la stesura del Giorno (l’autore dei Sepolcri vi allude implicitamente nei versi successivi, dedicati al “lombardo Sardanapalo”).
tetto: metonimia per casa.
t’appendea corone: la poesia ha sempre per Foscolo carattere sacro: il sacerdote di Talia, Parini, onora il suo compito coltivando (“educò” viene quindi etimologicamente dal latino educare, che significa letteralmente “coltivare”) un alloro (simbolo della poesia, in quanto pianta consacrata ad Apollo, il dio che presiede quest’arte) e appendendovi corone per omaggiare la sua musa.
Nel Giorno, Giuseppe Parini satireggiò vita e costumi di un “Giovin signore” lombardo, sfaticato e corrotto come il re assiro Sardanapalo, il quale, gradendo soltanto il muggito dei suoi buoi, visse dalle rive dell’Adda a quelle del Ticino tra agi e in assenza di qualsivoglia ideale.
abduani: Abdua è l’antico nome dell’Adda, ma anche la vecchia denominazione della città di Lodi: di qui la duplice interpretazione dei commentatori di Foscolo.
ambrosia: è propriamente il nettare degli dei, ma qui – secondo una sfumatura di significato già assunta dell’ode All’amica risanata – fa riferimento al profumo esalato dalla divinità.
non copre, o Dea, l’urna del vecchio: l’immagine della pianta che freme con fronde dimesse (letteralmente: “addolorate”), perché non arriva a coprire il sepolcro del Parini, va ad aggiungersi al già ricco elenco di esempi di natura umanizzata visti nel componimento.
Il poeta immagina la musa Talia vagare alla disperata ricerca del suo sacerdote tra i cimiteri suburbani di Milano, nei quali è seppellita la plebe indistinta. Il capo del Parini è “sacro” perché tale è la poesia, come il Foscolo avrà ampiamente modo di argomentare nell’ultima parte del carme.
d’evirati cantori: Parini si era scagliato con violenta invettiva contro la pratica invalsa di evirare cantori ancor giovinetti nell’ode Alla musica. Il riferimento è qui ripreso come immagine del degrado nel quale riversava la città di Milano, priva di qualsiasi valore morale.
La descrizione del cimitero dove giace il Parini si carica di ulteriori particolari orrorosi, volutamente caricati. È certamente uno dei passi più influenzati dal gusto tetro di tanta produzione romantica del tempo (e un primo influsso è già ravvisabile nella Notte dello stesso Parini).
Un’altra suggestione mutuata da un autore contemporaneo al Foscolo, Vincenzo Monti. L’immagine della cagna famelica sembra infatti riecheggiare un passo del Bardo della selva nera (“Poi si diè ratto con umano ingegno | a raspar le macerie e lamentoso | ululando”, canto VI, vv. 429-431.). “Ululando” è qui un gerundio con valore participiale e ha un suono fortemente onomatopeico, come il successivo “upupa”.
upupa: è considerata dal Foscolo, e prima ancora, dal Parini, un uccello notturno terribile. Un errore probabilmente imputabile alle letture bibliche, nelle quali l’animale più volte veniva definito “uccello immondo” oppure alla reminiscenza classica del mito di Tereo, che addolorandosi di aver mangiato le membra del figlio, in seguito alla vendetta inflittagli da Procne e Filomela, fu trasformato in upupa, come raccontato nelle Metamorfosi (VI, vv. 671-674) di Ovidio.
Con il suo canto, l’upupa sembra rimproverare le stelle per la luce della quale sono prodighe.
non sorge fiore: Al fiore va associato un significato proprio e uno figurato, come simbolo del ricordo del defunto. Il tono si innalza e si carica di un patetismo insistito.
nozze e tribunali ed are: Foscolo si riallaccia e sintetizza il pensiero di Giambattista Vico (1668-1744) e della sua Scienza nuova (Libro primo, Sezione terza; con la relativa distinzione delle diverse età della storia umana): “Osserviamo tutte le nazioni […] custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti”. Dal pensiero dell’oblio nel quale giace la tomba del Parini, è breve il passaggio, per contrasto, all’importante ruolo sociale che le tombe hanno avuto nella storia del genere umano, fin dalle origini della civiltà. “La vostra tomba è un’ara”, scriverà Leopardi nella canzone All’Italia riecheggiando questo passo di Foscolo.
esser pietose di sé stesse e d’altrui: dal giorno in cui abbandonarono il loro stato ferino, gli uomini si curarono delle reliquie dei vivi, con moto di compassione, identificabile con la “corrispondenza d’amorosi sensi”. Soggetto della proposizione sono le “umane belve”, divenute pietose, e non i “vivi”.
La natura assume sempre nuove forme, soggetta a un processo di perenne trasformazione: anche qui il ragionamento foscoliano si modella su quello di Vico.
Le tombe erano testimonianza di glorie passate (i “fasti”) e altari per la venerazione degli antenati, che ricambiavano la dedizione mostrata loro con responsi e vaticini. Sono definiti “Lari”, cioè i numi tutelari del focolare domestico nella relgione romana.
Non sempre: l’avverbio, preceduto dalla negazione, introduce il primo termine della contrapposizione e va letto in correlazione all’avversativo “ma”, al v. 114. In particolare, Foscolo contrappone polemicamente l’uso medievale di seppellire i morti nelle chiese alla rievocazione degli usi funebri praticati nella classicità, concedendosi un breve excursus nel quale si evince, in riferimemento alla contemporaneità, una nota di ammirazione per i cimiteri inglesi, la cui armonia è tale da evocare il dialogo tra vivi ed estinti più volte auspicato dal poeta.
d’effigïati scheletri: I defunti in epoca medievale venivano sepolti nelle chiese, cosicché le stesse risultavano pavimentate da lastre sepolcrali; a questa immagine, se ne aggiungono altre due, più cruente, quasi a ottenere un effetto di climax: il “lezzo dei cadaveri” offende i fedeli (i “supplicanti”), mescolandosi all’odore degli incensi; immagini di morte, inoltre, affollano la città, fissate in raffigurazioni e sculture molto diffuse all’epoca, e poi tornate di moda nel barocco, a ricordare la precarietà della vita.
La climax raggiunge l’apice: le madri, risvegliate dal gemito dei morti che chiedono insistentemente suffragi per “venal prece” (cioè, dietro corresponsione in denaro), così da abbreviare la loro permanenza in Purgatorio, si svegliano di notte, tendendo le braccia sul capo del figlio, perché non venga svegliato da quel lamento inquietante. Si noti l’inusuale aggettivo “esterrefatte”, a ribadire il carattere sostanzialmente impoetico di questo passaggio (non a caso, la suggestione e l’uso del termine viene con ogni probabilità mutuato da un’opera coeva fortemente caratterizzata da tinte fosche, Il bardo della selva nera di Vincenzo Monti).
Qui si esplicita la contrapposizione rispetto al passo precedente: non solo per l’avversativo, che cade esattamente a metà verso, ma anche per le immagini in stridente antitesi, rispetto a quelle lugubri appena abbandonate: le essenze profumate dei cedri e dei cipressi (“puri effluvi”), da correlarsi, per contrasto, al lezzo dei cadaveri, gli alberi che offrono “perenne verde” per una “memoria perenne” (si noti l’anastrofe, a ribadire l’importanza della continuità della vita resa possibile tramite il sepolcro).
Ai tempi del Foscolo si riteneva che i lacrimatoi fossero vasi destinati al raccoglimento delle lacrime votive di quanti si appressavano al tumulo del defunto per commemorarlo. In realtà erano contenitori per essenze profumate. Si noti, dal v. 115, l’insistita allitterazione della “p”, che concorre a creare una tramatura fonica armonica e coesa, a ribadire l’armonia e la pace suggerita dal nuovo quadro descrittivo.
gli occhi dell’uom cercan morendo il Sole: le lampade sepolcrali omaggiavano i defunti donando loro una parvenza di quella luce che videro in vita, e rievocando, nello specifico, gli ultimi istanti dell’esistenza, durante i quali il moribondo è solito cercare un’ultima “favilla”.
Su la funebre zolla: altro efficace quadro descrittivo, con il quale Foscolo insiste sul potere rasserenante della natura, che agisce tanto apportando la pace ai defunti, quanto consentendo la conciliazione tra vivi e morti (impossibile in uno scenario affine a quello descritto dal poeta ai vv. 104-114).
de’ beati Elisi: i campi Elisi erano, secondo la religione pagana, i luoghi dove vivevano, in quiete e serennità perenne, coloro che si erano guadagnati l‘amore divino.
Pietosa insania: ecco comparire nel testo una prima ossimorica definizione delle illusioni, così importanti nella visione del mondo (e del sepolcro) di Foscolo. Entrambi i vocaboli sono da relazionare al loro significato etimologico e alla loro origine latina: “pietoso” viene infatti da pietas, un termine dal significato complesso, atto a indicare l’atteggiamento di chi si mostra profondamente rispettoso e misericordioso nei confronti degli altri uomini. “Insania” viene dall’aggettivo insanus, “folle”, a ribadire la consapevolezza della soddisfazione mai pienamente raggiungibile attraverso le illusioni, tuttavia così necessarie all’uomo per superare le aride considerazioni materialistiche e la constatazione del nulla eterno.
suburbani avelli: oltre all’antichità classica, un modello di commemorazione dei defunti positivo e coevo è offerto dai “suburbani” avelli inglesi, giardini aperti, ben curati e nelle immediate periferie delle città, ancora in contrapposizione alle immagini orrorose che contraddistinguevano le sepolture cattoliche.
A indurre le “britanne Vergini” a far visita al cimitero non sono soltanto gli affetti familiari (“l’amore della perduta madre”), ma anche la preghiera ai geni, numi tutelari della patria, affinché concedano il ritorno dell’ammiraglio Horatio Nelson (1758-1805), eroe nazioanle inglese che fece allestire la propria bara ricavandola dal legno dell’albero maestro della “trionfata nave” francese (la francese Orient) al tempo delle guerre napoleoniche.
Orco: è uno dei nomi con il quale viene designato il dio degli inferi, Plutone.
Foscolo fa riferimento ai tre collegi elettorali, il dotto, il ricco e il patrizio, che designavano i ceti politicamente influenti, dapprima nella Repubblica Cisalpina, e poi nel Regno d’Italia: il giudizio del poeta è affidato allo sprezzante termine “vulgo” (analogo uso del termine il poeta ne faceva nell’Ortis), e all’ironica espressione “decoro e mente al bello Italo regno”.
unica laude: per Foscolo, i nobili che vivono tra le adulazioni e l’onore puramente formale degli stemmi nobiliari sono come dei morti in vita (“ha sepoltura già vivo”).
A noi: con questo plurale maiestatis il Foscolo si contrappone fieramente al “vulgo” ed esplicita la consapevolezza dell’importanza del proprio compito di poeta-civile al servizio dei valori assoluti della poesia.
Con posa romantica, Foscolo parla del destino come di una forza che infierisce contro il poeta, avversandolo: per questo l’auspicio è che la morte possa offrire un “riposato albergo” (con espressione che ricalca quella del sonetto Alla sera), ponendo fine alle vendette della sorte.
di liberal carme l’esempio: l’eredità del Foscolo non sarà contraddistinta dai beni materiali dai quali è attratto il “vulgo”, bensì dall’esempio “caldi affetti” e di un nobile carme in grado di ispirare ed eternare i più grandi valori (ovvero, I sepolcri stessi).
l’urne de’ forti: ecco che viene esplicitato un concetto finora rimasto sotteso, quello degli ideali suggeriti dal sepolcro, primo stimolo per ravvivare il desiderio di gloria di un popolo: dal culto dei defunti la nazione può, per il Foscolo, trovare nuovo slancio. Il concetto viene poi ulteriormente approfondito e ampliato, salvo andare incontro a una ritrattazione parziale, tipica del procedere argomentativo del poeta: anche la tomba è sottoposta all’azione distruttiva del tempo, diversamente dalla poesia, grazie alla quale i valori vengono immortalati ed eternalizzati.
quel grande: è Machiavelli il primo grande al quale Foscolo fa riferimento dopo il Parini; lo capiamo grazie alla lunga perifrasi alla quale il poeta ricorre nel designare gli argomenti trattati nella sua opera più significativa, Il Principe, nel quale impartì ai regnanti l’arte del buon governo, disvelando l’illusorietà di quegli onori (gli allor ne sfronda) e come il loro potere si fondi non tanto sul consenso (che il bravo principe, per il Machiavelli, deve sempre ricercare), quanto sull’oppressione dei popoli.
arca: nel Medioevo, una cassa destinata a contenere le reliquie del defunto. Qui, più genericamente, sta ad indicare la tomba.
colui: Michelangelo Buonarroti (1475-1564), che ultimò a Roma la Cappella Sistina, un “Olimpo cristiano”.
Il pensiero di Foscolo va ora ad un uomo di scienza, Galileo Galilei, che aprì la strada alle scoperte di Newton: con il suo telescopio per primo osservò nella volta celeste (“etereo padiglion”) il moto dei pianeti, illuminati dal Sole, “immoto”, verificando sperimentalmente le tesi di Copernico. Nella designazione dei grandi del passato anche recente, il dettato si fa più sostenuto, aulico: si noti la sovrabbondanza di perifrasi e di inversioni.
Anglo: è Isaac Newton (1642-1727), che formulò la legge di gravitazione universale. La metafora dell’ala dell’ingegno colpisce per la sua evidenza icastica.
te beata: l’apostrofe è rivolta a Firenze, e viene reiterata nei versi successivi, quasi a raggiungere un effetto di climax. La sua prima fortuna consiste nella pace della quale può godere, ristorata dalle piacevoli acque dell’Arno. La città è idealizzata anche nei sonetti (si veda, a titolo esemplificativo, E tu ne’ carmi avrai perenne vita), nell’Ortis e nelle Grazie.
Lieta dell’aer:l’espressione è utilizzata dal Foscolo anche nelle Grazie, e deriva da un sonetto che il poeta ebbe modo di commentare nell’antologia Vestigi della storia del sonetto italiano, da lui curata: si tratta del componimento di Galeazzo di Tarsia Già corsi l’alpi gelide e canute. La luna, traendo giovamento dall’area vivificatrice di Firenze, la ripaga illuminandone i colli festosi per la vendemmia.
Firenze: è introdotto il secondo motivo della beatitudine di Firenze, il fatto di essere stata la città natale di Dante e di Petrarca, i poeti che hanno fondato l’illustre tradizione italiana e che, insieme a Boccaccio, costituivano le “tre corone” della lingua italiana.
allegrò l’ira: il carme che confortò lo sdegno di Dante nei confronti della sua epoca è, ovviamente, la Commedia.
Ghibellin fuggiasco: Dante, in realtà, era guelfo. L’aggettivo “fuggiasco” consente di chiarire il riferimento foscoliano: durante l’esilio, infatti, l’autore della Commedia cominciò a simpatizzare per il partito imperiale.
Petrarca è ricordato soprattutto per l’influsso che esercitò sulla lingua poetica ed è ricordato per la dolcezza dei suoi versi: non a caso, viene perifrasticamente definito come “dolce labbro” di Calliope(propriamente, la musa della poesia epica); il Foscolo tuttavia, che anche per via delle sue origini conosceva benissimo il greco, intendeva fare riferimento al significato insito nel nome della musa: Calliope significa infatti, letteralmente, “bella voce”.
Secondo il Foscolo, altro merito del Petrarca consiste nell’aver ricoperto del candido velo del pudore il sentimento amoroso e, quindi, nell’aver restituito metaforicamente Amore a Venere Celeste, una divinità tutta spirituale, radicalmente contrapposta alla Venere Terrestre, sensuale, della poesia classica (la contrapposizione tra le due figure della religione pagana è già presente in Platone).
più beata: il motivo più grande di orgoglio per Firenze consiste però nel fatto di custodire, in Santa Croce, le reliquie dei più grandi uomini del passato.
Le tombe dei magnanimi sono l’unica testimonianza della gloria passata: il concetto di un’Italia mal difesa, nonostante la barriera naturale offerta dalle Alpi, è sviluppata dal Foscolo già nell’Ortis: “I tuoi confini, o Italia, son questi; ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia”. L’Italia è privata di tutto (forza, ricchezze, luoghi di culto, tesori artistici), fuorché della memoria. Proprio dal ricordo della grandezza passata occorre, per Foscolo, ripartire, così da trovare nuovo slancio e far risorgere l’antica gloria di un tempo, come dirà nei versi immediatamente successivi.
A lasciarsi ispirare da quelle tombe è il grande per eccellenza, il poeta Vittorio Alfieri, che aveva a sua volta auspicato una rinascita di popolo nel Misogallo e nel Bruto secondo.
“Errava muto”, “desioso mirando” e “nullo vivente aspetto gli molcea la cura” sono tutte espressioni tese a dar conto del dissidio interiore dell’Alfieri, del quale Foscolo darà efficacemente conto anche ricorrendo alla sintomatologia fisica: lo contraddistinguono infatti il “pallor di morte” e “la speranza”, a ribadirne l’animo contrastato tra il desiderio di morte, derivante dalla percezione della realtà che lo circonda, e la pulsione al riscatto, sempre frustrata.
abita eterno: perché ancora vivo nella memoria di chi, come il Foscolo, non ha dimenticato la sua grandezza.
un Nume parla: dai sepolcri di Santa Croce sembra parlare un nume, personificazione dell’amor di patria, ispiratore di nobili valori: di qui, il pensiero del poeta si rivolge ad altre tombe famose, quelle dei Greci a Maratona del 490 a.C.
Foscolo cita il Viaggio nell’Attica di Pausania, che riporta di straordinarie apparizioni notturneavvistate dai naviganti che costeggiavano (“veleggiò”) l’isola di Eubea: quei fantasmi (“larve”) rievocavano la grande battaglia del 490 a.C.
Le immagini della battaglia si susseguono quasi fossero rievocazioni oniriche, in versi di notevole suggestione per immagini e scenari evocati: cozzare di spade, tumulto di falangi, corse di cavalli sfrenati, pianti e, infine, il canto delle Parche (Cloto, Lachesi ed Atropo). La rapidità e la drammaticitàcon la quale il poeta presenta queste “visioni” è sorretta da artifici stilistici che concorrono a creare un effetto di accelerazione, quali la giustapposizione di sintagmi nominali, la frequente ellissi dei predicati, la ripetizione insistita della congiunzione coordinante.
Felice te: Foscolo torna, con vocativo, a rivolgersi al Pindemonte (“Ippolito”, con anastrofe, al verso successivo), che in gioventù navigò il mar Mediterraneo.
il regno ampio de’ venti: stessa espressione è utilizzata da Gabriello Chiabrera, nella poesia Cetra de’ canti amica (ai vv. 12-13).
correvi: il verbo è usato transitivamente, come nel libro III dell’Eneide: “currimus aequor” (v. 191).
antenna: per sineddoche, “vela” e, per estensione, genericamente “nave”.
I luoghi visti dal Pindemonte in gioventù sono ancora in grado di rievocare la grandezza delle imprese che lì si svolsero.
i liti: le spiagge dello stretto dei Dardanelli, sulle quali, come spiega il Foscolo in nota, furono sepolti gli eroi greci.
La marea, con il suo violento muggito, porta con sé le armi che Ulisse sottrasse ad Aiace con l’inganno. Aiace, leggendario eroe dell’Iliade omerica, figlio di Telamone, re di Salamina, e marito della concubina Tecmessa, fu uno dei più importanti protagonisti dell’assedio troiano, e a lui avrebbero dovuto essere destinate le armi del defunto Achille. Tuttavia nella contesa per ottenere delle armi – implicito riconoscimento del valore guerriero – fu l’astuto Ulisse ad avere la meglio, provocandone l’ira e poi, complice la maledizione di Atena, la pazzia, che gli costò la perdita dell’onore e, conseguentemente, la scelta del suicidio. Foscolo si lasciò suggestionare dalla trattazione che di quel mito fece Sofocle, nella tragedia che dall’eroe greco protagonista prende il nome. Aiace è autentico modello di eroismo nella concezione romantica di Foscolo: la sua grandezza si esplicita proprio nella sventura.
prode Retée: sul promontorio reteo, nel Bosforo, dove venne sepolto Aiace.
La vicenda è narrata da Pausania: pare infatti che la marea avesse privato Ulisse delle armi di Achille, per restituirle ad Aiace, che avrebbe dovuto ottenerle per merito, trasportandole sul suo tumulo.
Giusta di glorie dispensiera è morte: è il senso profondo del messaggio che Foscolo vuole lasciare al lettore: la giustizia, non ottenuta in vita, è ottenuta con la morte.
regi: sono Agamennone e Menelao.
E me: da leggersi in correlazione a “Felice te” del verso 213, a ribadire la diversità di sorte toccata a Foscolo rispetto a quella dell’amico.
tempi e desio d’onore: i due termini costituiscono un binomio che descrive alla perfezione lo spirito indomito del poeta, che nella sua opera (si pensi, in particolare, all’Ortis) si compiace dell’accanimento della sorte (i “tempi”), e del desiderio di gloria che da questa strenua lotta può derivargli.
L’intero verso riecheggia l’incipit di In morte del fratello Giovanni (“Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente”, v. 1).
Il poeta enuncia espressamente l’altezza del proprio compito: è chiamato dalle muse a rievocare le gesta degli eroi greci, rendendole imperiture attraverso il canto poetico. Le muse sono dette “animatrici” perché rievocano la memoria del passato, consentendone vita eterna.
Il soggetto dell’intero periodo sono le muse “Pimplee” (dal monte Pimpla, in Macedonia, a loro consacrato), elette a simbolo del valore eternante della poesia. La loro azione si contrappone all’effetto distruttivo del tempo, personificato e descritto come un uccello che con le sue “fredde ale” (sinestesia) spazza via i sepolcri: per quanto esaltati come luogo della memoria, sono anch’essi sottoposti all’azione corrutrice del tempo (che rende questi luoghi “deserti”), diversamente dalla poesia, per il Foscolo, estrema illusione. L’armonia, ristabilita dal canto poetico, vince pertanto il silenzio “di mille secoli”. L’invocazione delle muse, connessa al ruolo civile del poeta, è un motivo tradizionale in poesia.
Foscolo vede nella vicenda di Troia l’esempio più significativo di quanto appena dichiarato: la città, più volte distrutta e risorta, fino all’annientamento per mano dei Greci, lungi dal conoscere la morte definitiva, continua a vivere nel corso dei secoli grazie al canto di Omero. La “Troade” è, propriamente, provincia dell’Asia minore, dove sorse Troia. È “inseminata”, cioè deserta, in quanto priva di qualsiasi forma di vita umana.
a’ peregrini: anche per i “peregrini”, gli stranieri che casualmente transitano in quei luoghi, Troia conserva la sua fama eterna (si noti la ripetizione dell’aggettivo, ad insistere sul concetto di immortalità, qui ulteriormente rafforzato dall’anafora). La notorietà eterna di Troia è ricondotta, con gusto neoclassico, al motivo mitologico: la ninfa Elettra, amata da Giove, gli chiese, prima di morire, che la sua fama potesse perdurare nella memoria, resa possibile per tramite di quei luoghi.
Con gusto erudito, Foscolo si concede una digressione genealogica: Elettra, ninfa figlia di Atlante, unendosi a Giove, generò Dardano, dal quale ebbero origine Troia, Assaraco (nonno di Anchise, il padre di Enea) e Priamo con i suoi cinquanta figli, congiunti ad altrettante mogli (“talami”). Figlio di Enea fu Iulo, dal quale ebbe origine l’omonima gens romana. Le fonti classiche alle quali attinge Foscolo sono Omero (canto XX dell’Iliade) e Virgilio (nel celebre passo dell’ekphrasis dello scudo di Enea, al canto VIII dell’Eneide).
la Parca: è Atropo, la parca che recide il filo della vita.
cori: dal latino chorus, “danza”.
il voto supremo: in punto di morte, Elettra rivolge allo sposo un’ultima preghiera: non essendole concesso “premio migliore” (cioè, il godere dell’immortalità che spetta agli dei), la richiesta è che almeno la sua fama possa perdurare in eterno. Si noti il patetismo insistito dell’orazione, che fa leva sugli affetti del consorte (e non è esente da una componente di sensualità). La morte, nell’ultima parte del carme, si carica di attributi positivi: qui è definita “amica”, mentre nel passo dedicato alla morte di Aiace veniva designata come “dispensiera”.
l’Olimpio: È Giove, appunto, re dell’Olimpo.
Con il suo silenzioso cenno, Giove acconsente a donare l’immortalità ad Elettra e fa piovere (“piovea”, usato transitivamente), dal suo capo, ambrosia, con la quale consacra il suo corpo e la sua tomba.
Nella stessa tomba vennero sepolti anche Erittonio, figlio di Dardano, ed Ilo, dal quale discesero Priamo e Anchise. Con la ripetizione dell’avverbio di luogo (“ivi”, ai vv. 254, 255, 258), Foscolo insiste ancora una volta sull’importanza del sepolcro come luogo grazie al quale non soltanto si ristabilisce la continuità di affetti, ma vengono ispirati l’amor patrio e i più alti valori (lì si recano le donne troiane con le chiome sciolte, in gesto di supplica, per scongiurare il destino di morte già segnato dei loro mariti e della stessa Troia).
Sulle tombe si reca anche Cassandra, la profetessa di Apollo, inutilmente amata dal dio: il sentimento non corrisposto le costò infatti la pena di vaticinare il futuro, senza tuttavia essere mai creduta. La drammaticità del passo è sostenuta da artifici stilistici finalizzati ad innalzare il dettato: il verbo “venne” (nella costruzione della frase da anticipare rispetto al soggetto, Cassandra) con forte anastrofe è posticipato al v. 260.
nume: è quello del dio Apollo, che le fece conoscere anzitempo il destino di Troia.
a’ giovinetti: ai sepolcri Cassandra conduce anche i giovani, affinché vengano ispirati da un sentimento di appartenenza alla civiltà troiana, così da mantenere consapevolezza della loro dignità anche quando toccati dalla sventura della schiavitù, che sarebbe capitata loro subito dopo la sconfitta da parte dei Greci.
Il Titide, cioè il figlio di Tideo, è Diomede, mentre il figlio di Laerte è Ulisse (Omero li rappresenta sempre in coppia; la loro amicizia sarà ricordata da Dante, che nella Commedia (Inferno, canto XXVI) li colloca nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio infernale, dove erano puniti i consiglieri di frode.
Anche qualora venissero liberati dalla loro condizione di schiavi, i giovani troiani non potranno sperare nel ritorno in patria, giacché Troia sarà distrutta (le mura sono definite “opra di Apollo” in quanto la loro costruzione veniva tradizionalmente ricondotta al dio): il lamento luttuoso di Cassandra, rafforzato dalla forte enjambement (“la patria vostra | cercherete”), assume un’intonazione diversa al v. 269, a partire dal forte avversativo “ma”, in posizione iniziale.
Troia, pur nel destino di sventura, vivrà in eterno, in quanto i suoi eroi gloriosi, antenati della stirpe, assurti a divinità, dimoreranno in eterno in quei luoghi.
palme e cipressi: le due piante sono, rispettivamente, simbolo di gloria e di morte. Sono piantate dalle “nuore di Priamo”, cioè le donne troiane che ne accelereranno il processo di crescita bagnandole delle loro lacrime pietose.
Solo chi pietosamente tiene lontana la scure dalle fronde delle piante consacrate ai defunti e tocca con mano pura gli altari, rispettando con devozione i culti funebri, ottiene il favore divino.
un cieco: è Omero, assurto a simbolo del valore eternante della poesia; il suo canto ha immortalato quelle gesta gloriose, al di là dello scorrere del tempo e dell’esito della guerra di Troia, al quale fece seguito il decennale assedio. La distinzione tra vincitori e vinti è superata, in virtù dell’amor patrio rappresentato dal sacrificio del quale si rese protagonista Ettore. La descrizione del poeta che brancola tra le tombe cercando responsi tra i defunti è probabilmente ispirata ai Canti di Ossian, come già detto, uno dei modelli più influenti in questo componimento. Nella sua descrizione di infelice ed errante, per Foscolo Omero rappresenta il poeta per eccellenza, e quasi un suo alter ego.
Gemeranno: Il gemito degli “antri segreti” è un grido lamentoso che si leva dalle tombe, placato però dal canto del poeta, che dona ai defunti l’agognata pace, promettendo loro una fama imperitura.
raso due volte e due risorto: distrutta da Ercole e poi dalle Amazzoni, la città si risolleva, più gloriosa, per rendere eroica e leggendaria la sconfitta infernale dai Greci.
fatati: come spiegò il Foscolo in nota, “fatati” sta per fatali, cioè destinati dal fato a sconfiggere Troia.
Ecco l’immagine rasserenante con la quale Foscolo chiude i Sepolcri: a porre fine al tormento delle anime dei morti, sarà la sublimazione del canto poetico, che consentirà ai defunti di godere di fama eterna, a risarcirli della precarietà della vita. La fama si diffonderà tra tutti i territori abbracciati dal “padre Oceano”, descritto in Omero come un fiume che circonda le terre emerse.
Il sacrificio di Ettore, per quanto non in grado di risollevare le sorti di Troia, acquista grazie alla poesia di Omero nuova gloria. L’espressione “ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato” ricorda un passo de Il bardo della selva nera di Vincenzo Monti: “il petto ancor del sangue brutto per la patria versato” (VI, vv. 90-91).