Nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni Sessanta (1945-62) è possibile evidenziare in ambito letterario una forte propensione, diffusa a livello internazionale, a rappresentare la realtà in modi innovativi, ma non specificamente di avanguardia.
Si tratta di forme di realismo che di solito non costituiscono un ritorno ai modelli ottocenteschi: specialmente nella narrativa, i nuovi realismi, che spesso prendono spunto da opere degli anni Venti e Trenta (per esempio quelle di romanzieri statunitensi come Faulkner o Hemingway), mirano a una scrittura semplificata e vicina al parlato, e a una trama nella quale il ruolo del narratore onnisciente risulti drasticamente ridotto e la vicenda si sviluppi attraverso il ‘montaggio’ di episodi. Si è usato non a caso un termine cinematografico, perché l’influenza del cinema si fa sentire a più livelli in ambito letterario: d’altronde, nel secondo dopoguerra il film, spesso considerato esempio principe di realismo, acquista un’importanza sempre maggiore nell’immaginario collettivo, tanto da decretare o ampliare il successo di romanzi e racconti, a volte trasposti in sceneggiature dagli stessi autori.
Il motivo fondamentale della nuova propensione al realismo è l’urgenza di rappresentare le condizioni estreme raggiunte con la guerra: sebbene il critico e filosofo Theodor W. Adorno abbia affermato che, dopo Auschwitz, ogni forma d’arte pura e classica (in particolare la poesia) risulta inadeguata, sono invece tanti i tentativi di «esprimere l’inesprimibile», dagli orrori dei Lager a quelli della bomba atomica. Nel dopoguerra, l’impegno degli scrittori per evitare che si ripetano eventi simili diventa ben presto un imperativo comune, declinato diversamente a seconda che l’intellettuale accetti una particolare ideologia (con una netta prevalenza, anche nel mondo occidentale, di quelle marxiste o di sinistra), oppure che voglia mantenere un’autonomia di giudizio e di azione. In un periodo di forti contrapposizioni politiche e culturali, il valore dell’opera letteraria poteva anche essere commisurato alla sua efficacia propositiva, e ciò comportò nei casi migliori una forte valenza etica, nei peggiori un adeguamento a tesi precostituite, specie sul versante del ‘realismo socialista’ sovietico.
Il filone realistico non è peraltro l’unico. Soprattutto sul versante della poesia, la tradizione simbolista ottocentesca e quella delle avanguardie primonovecentesche vengono riprese e portate a esiti notevoli da autori come Paul Celan, poeta di origine ebraica, nel quale si coglie una profonda riflessione filosofico-metafisica, almeno in parte generata dalla sua esperienza del Lager[…]
“Su un altro versante, la consapevolezza del vuoto che si nasconde dietro la realtà, tema tipico dell’esistenzialismo, sfocia in una rappresentazione del nulla e dell’assurdo, che trova una geniale realizzazione nella drammaturgia dell’irlandese Samuel Beckett. Si affacciano poi sulla scena letteraria internazionale autori come l’argentino Jorge Luis Borges, destinato a un notevole successo soprattutto negli anni Sessanta e Settanta per la sua scrittura fantastico-erudita, ricca di raffinate allusioni e di inquietanti questioni gnoseologiche.
In Italia, il filone del Neorealismo, pur di difficile delimitazione, risulta fondamentale, prima in ambito cinematografico e poi in quello letterario, dalla fine della guerra all’incirca sino alla metà degli anni Cinquanta.
I risultati più importanti vengono però raggiunti da scrittori che si collocano in maniera autonoma rispetto a questo movimento, come Beppe Fenoglio o Italo Calvino, destinato poi a una grande fortuna anche negli anni successivi, con le sue opere catalogabili come postmoderne.
A partire soprattutto dal 1955 si registrano nuove forme di sperimentazione come, da un lato, quelle di Pier Paolo Pasolini, ancora a base realistica; e dall’altro quelle di giovani autori che poi daranno vita alla Neoavanguardia, del tutto lontani dalle modalità poetiche e narrative tradizionali. La fase delle speranze postbelliche e dell’impegno diretto degli intellettuali nella ricostruzione etico-civile del paese volge al termine, e lascia spazio a inquietudini politiche e a prospettive culturali inedite, che emergono in concomitanza con l’avvio della fase del cosiddetto boom economico. In ogni caso, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta i testi in assoluto più importanti sono ancora pubblicati da autori maturi come Eugenio Montale (La bufera e altro, 1956) e Carlo Emilio Gadda (con l’edizione in volume del Pasticciaccio, 1957 e della Cognizione del dolore, 1963).
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, mentre si rafforzano le tendenze sperimentali, specie in ambito pittorico e musicale, e insieme si fanno sempre più evidenti i segni dell’incidenza dell’industria culturale sui gusti del pubblico (per esempio con il largo successo del modello cinematografico hollywoodiano, o con la diffusione delle nuove forme di musica leggera, come il rock), cominciano a essere pubblicate opere letterarie che toccano temi e argomenti innovativi: in particolare, nasce in questi anni negli Stati Uniti la letteratura beat, sintomo di quella ribellione giovanile che si realizzerà definitivamente nel 1968. Anche i nuovi metodi scientifico-culturali, come lo strutturalismo, propongono originali strumenti interpretativi.
Durante la conferenza di Yalta (febbraio 1945) i governanti di Gran Bretagna (Winston Churchill), Stati Uniti (Franklin Delano Roosevelt) e Unione Sovietica (Josif Stalin) avevano sancito, ancora prima della fine della seconda guerra mondiale, gli assetti del dopoguerra, definendo le rispettive aree di influenza e la divisione della Germania per evitare una possibile recrudescenza del nazismo. Ma in breve tempo l’alleanza militare fra le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, portatrici di due modelli politici opposti, quello statunitense fondato sulla democrazia liberale, il liberismo economico e il pluralismo politico, quello sovietico sulla collettivizzazione delle risorse produttive e sul partito unico, lasciò il posto all’inevitabile contrapposizione ideologica, che di fatto produsse una divisione dell’Europa in due grandi blocchi, quello occidentale, in cui era forte l’influenza statunitense, e quello orientale, con i paesi dell’Europa dell’Est, oltre alla Repubblica democratica tedesca, assorbiti sotto il controllo sovietico.
Svanita dunque l’euforia per la fine della guerra, tra la zona di influenza anglo-americana e quella di influenza sovietica si alzò una «cortina di ferro» (l’espressione fu coniata da Churchill nel 1946) che, per le nazioni dell’Occidente, doveva impedire la diffusione del comunismo; dal canto suo, Stalin procedette a forti epurazioni interne e attuò una rigida chiusura degli scambi con l’estero. Nel 1947 il presidente statunitense Harry Truman, succeduto nel 1945 a Roosevelt e responsabile della decisione di lanciare la prima bomba atomica contro il Giappone, parlò esplicitamente di «guerra fredda» (uno scontro duro ma che non sfocia in un conflitto armato), fra «popoli liberi» occidentali e popoli sotto il regime comunista. I primi andavano aiutati con tutti i mezzi, economici e militari: gli Stati Uniti dettero così avvio al Piano Marshall, che prevedeva aiuti in denaro, macchinari, derrate alimentari per la ricostruzione nei paesi europei, mentre nel 1949 venne firmato il Patto atlantico, alleanza militare che coinvolgeva anche l’Italia, e che portò alla creazione della Nato, un’organizzazione militare permanente composta da contingenti militari di ogni paese membro.
Alla fine della guerra, l’Italia si trovò a dover ricostruire non solo le strutture industriali e civili, ma anche le fondamenta stesse della convivenza democratica, distrutte da vent’anni di regime fascista e dalla guerra civile del 1943-45. Per oltre un anno, continuarono le violenze private e collettive, con l’eliminazione anche fisica di singoli esponenti del fascismo o con l’epurazione di gruppi di fiancheggiatori, specie degli aderenti alla Repubblica di Salò; tuttavia, soprattutto i quadri burocratico-ministeriali e polizieschi vennero intaccati solo in parte, e garantirono una continuità con il passato, favorita, come si vedrà in seguito, dalle contrapposizioni fra centro-destra e sinistra.
Gli esponenti dei partiti politici antifascisti entrarono nel 1945 in un governo di «unità nazionale», cioè un governo composto da tutte le forze parlamentari, presieduto da Ferruccio Parri (1890-1981), esponente del Partito d’Azione e dei gruppi partigiani di «Giustizia e libertà». Ben presto, però, al suo posto fu nominato Alcide De Gasperi (1881-1954), segretario della Democrazia cristiana (fondata nel 1942), erede del Partito popolare, che rappresentava una larga parte dell’elettorato italiano cattolico e moderato e che teneva rapporti tanto con la monarchia e la Chiesa quanto con i partiti di sinistra. Nel 1946, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, fu indetto un referendum (2-3 giugno) per la scelta fra regime monarchico e repubblicano: dopo contrasti e contestazioni per brogli, il 18 giugno venne proclamata la Repubblica, e re Umberto II dovette recarsi in esilio in Portogallo. Fu creata un’Assemblea con esponenti di tutti i partiti per redigere la nuova Costituzione: i suoi lavori terminarono il 22 dicembre 1947; la Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
Nel 1947 si era esaurita la politica di unità nazionale, e le sinistre furono estromesse dal governo, mentre De Gasperi, grazie anche alle direttive dell’allora ministro del Bilancio Luigi Einaudi (1874-1961) e agli aiuti statunitensi del Piano Marshall, riuscì a rilanciare l’economia italiana. Il 18 aprile 1948, alle prime elezioni politiche per il nuovo Parlamento, la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza assoluta, e l’11 maggio Einaudi venne eletto presidente della Repubblica. Ma il clima politico era tutt’altro che tranquillo: il 14 luglio il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti (1893-1964) subì un grave attentato, che avrebbe potuto scatenare una violenta reazione da parte delle forze della sinistra e dei sindacati, fortunatamente tenuta sotto controllo dai dirigenti comunisti.
Negli anni successivi, De Gasperi procedette a ricostituire gli apparati fondamentali della burocrazia, in molti casi accettando o reintegrando funzionari compromessi con il regime fascista, da lui considerati comunque più affidabili degli aderenti alle sinistre. Dal censimento del 1951 emerge un’Italia in espansione ma ancora fortemente legata all’economia agricola, che assorbe il 42,2% della forza-lavoro (contro il 32,1 dell’industria e il 25,7 del terziario); notevole il tasso di analfabetismo (12,9% della popolazione), e forte lo squilibrio fra Nord e Sud (dove si trova oltre il 50% delle famiglie povere). Di queste contraddizioni parlano intellettuali e letterati, per la maggior parte schieratisi, nel dopoguerra, nei partiti di sinistra, e impegnati a volte anche politicamente, ma soprattutto nella redazione di giornali o riviste fortemente polemiche nei confronti delle tendenze moderate e conservatrici del governo democristiano.
Dopo la morte di Stalin (1953) e dopo un tentativo di ottenere una maggiore indipendenza da parte dell’Ungheria, represso aspramente dall’Unione Sovietica nel 1956, una speranza di cambiamento sembra aprirsi nel 1961, quando diventa presidente degli Stati Uniti il democratico John Fitzgerald Kennedy (1917-1963), di idee progressiste, il quale propone slogan come quello della «nuova frontiera»: la società americana doveva evolversi per combattere le discriminazioni, e per rilanciare non solo l’economia ma anche il ruolo degli Stati Uniti come campioni della democrazia, la loro carica ideale e lo slancio verso le popolazioni più povere. Kennedy promuove subito un’«Alleanza per il progresso» dei paesi latinoamericani, e riprende le trattative per la distensione internazionale con il leader sovietico Nikita Kruscev, anche se non può impedire che la Germania dell’Est eriga il famigerato Muro che separa la parte est e la parte ovest di Berlino (1961). Nonostante gli sforzi, la pace mondiale appare spesso appesa a un filo, e nuove gravi difficoltà arriveranno nel 1963, quando Kennedy verrà assassinato a Dallas, probabilmente a seguito di un complotto.
In Italia i governi democristiani propongono una politica moderata, attenta alle esigenze delle classi medie. L’espansione economica è comunque costante (con un aumento del prodotto interno lordo pari al 7,5% annuo), e anche le industrie si rafforzano: la Fiat lancia sul mercato le prime automobili utilitarie (la «600» viene prodotta a partire dal 1955), mentre l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), fondato nel 1953, sotto la presidenza di Enrico Mattei ottiene notevoli successi internazionali (compreso un accordo con l’Iran). Anche il costume lentamente si evolve, grazie all’apporto di un nuovo potente mezzo di comunicazione di massa, la televisione, che inizia le sue trasmissioni nel 1954. Sul piano internazionale l’immagine italiana guadagna consensi, tanto che l’importante trattato che segna la costituzione della nuova Comunità economica europea (Cee), allora composta da sei paesi (Belgio, Francia, Germania Federale, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) e istituita con l’intento di creare un mercato unico europeo, viene firmato a Roma il 25 marzo del 1957.
Mentre i fatti di Ungheria del 1956 producono scissioni e contestazioni tra socialisti e comunisti, in ambito democristiano si affrontano la corrente di sinistra, favorevole a un’apertura in senso progressista, e quella di destra, portata all’isolamento o addirittura all’alleanza con ex fascisti.
Nel 1962 Amintore Fanfani dà vita al primo governo di centro-sinistra, con l’appoggio esterno dei socialisti. Nello stesso anno muore per un incidente aereo Enrico Mattei: solo trentacinque anni dopo si dimostrerà che si era trattato di un attentato, probabilmente organizzato per eliminare uno scomodo concorrente delle grandi compagnie petrolifere anglo-americane. È uno dei primi ‘misteri’ che contraddistingueranno gli intrecci politico-economici nell’Italia del dopoguerra, dei quali parleranno numerose opere letterarie.
Infine, un evento significativo anche per la politica e la cultura italiane fu l’elezione al soglio pontificio, dopo la morte di Pio XII, di Angelo Giuseppe Roncalli, che prese il nome di Giovanni XXIII (1958). Dando seguito alla sua attività ecclesiastica molto attenta ai bisogni degli umili e degli ultimi, Giovanni XXIII promosse il Concilio vaticano II, che si aprì alla fine del 1962 e che vide riuniti a Roma rappresentanti delle comunità cattoliche di tutto il mondo, per rinnovare l’immagine della Chiesa e per dettare le linee per la nuova opera di evangelizzazione nel mondo contemporaneo.