Il decadentismo è una teoria estetico-morale sorta in Francia intorno al 1885-1886. Decadenti, furono chiamati alcuni poeti dai loro avversarî ed essi dell’accusa si fecero un vanto e un programma. Poeta o artista decadente è quello che di certe sensazioni morbide ed estenuanti, di certe rinunce e abdicazioni morali, che prolungandosi sfibrano lo spirito, si compiace come di una superiorità, le rinnova e le eccita artificiosamente.
Questo appunto era uno dei caratteri più appariscenti dell’arte celebrata da quel gruppo di poeti e di critici che a Parigi, tra il 1885 e il 1888, presero a difendere in alcune modeste e semiclandestine riviste, come La Nouvelle Rive gauche, La Revue indépendante, La Revue wagnérienne, Le Décadent, Le Symboliste, La Vogue, ecc., il principio mistico e le aspirazioni metafisiche del sentimento poetico contro la volgarità del naturalismo dominante. La spiritualità pareva ad essi rivelarsi principalmente in certi brividi, in certe voluttuose reazioni del senso di fronte al mistero, all’ignoto, a quanto l’uomo trova di enigmatico e di strano nella realtà in quei momenti d’abbandono nei quali non pensa né vuole, ma si lascia passivamente invadere dalle suggestioni della vita subcosciente. A modo delle altre scuole letterarie anche i decadenti si cercarono e trovarono famosi antenati nella storia letteraria: lo Chateaubriand, il Lamartine, il De Vigny, il Balzac, V. Hugo, il Sainte-Beuve, Gérard de Nerval, Ch. Baudelaire, Villiers de l’Isle-Adam. Ma il loro vero padre spirituale è Charles Baudelaire, che per il primo teorizzò lucidamente la decadenza, cioè la contraddizione e in certa misura anche la perversione morale come principio nuovo e fecondo di ispirazione, e nelle poesie dei Fiori del male, come nei Poemetti in prosa e nei Paradisi artificiali, segnò i temi fondamentali della nuova poesia, rilevò gli stretti legami che uniscono la lussuria e la crudeltà a certe forme di esperienza mistica; le segrete rispondenze ed equivalenze che corrono tra le sensazioni e rendono facile il trapasso da un ordine di sensazioni all’altro; la potenza del suono e del ritmo, sovrana generatrice dell’emozione lirica.
“Les parfums, les couleurs et les sons se répondent”, aveva detto il Baudelaire, e T. Gautier scriveva, in una prefazione composta per i Fiori del male, quell’apologia della parola per sé stante e operante, della parola come colore e come suono, che fu parte essenziale dell’estetica del simbolismo (v.), col quale il decadentismo ha stretti rapporti.
Del più antico gruppo di quei poeti che per ironia polemica si gloriarono del nome di decadenti, fecero parte Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, René Ghil, Jules Laforgue, Anatole Baju, Noël Louma, e, per qualche tempo, anche Jean Moréas. Era con loro, idealmente, poiché lo riconoscevano ispiratore e maestro, anche Arthur Rimbaud, che allora (1885-87), abbandonata la poesia, trafficava nell’Harrar e sulla costa di Aden. Ma poi nuove reclute vennero ad accrescere la piccola schiera, la quale assunse anche nuovi nomi di battaglia (Les Hydropathes, Les Hirsutes, Les Jeunes, Les Zutistes, ecc.). La critica francese suole distinguerli in due gruppi: quelli che tengono più del Verlaine e della sua musicalità triste, rassegnata, pregante, e quelli che seguono la maniera ermetica, “conclusa” ed enigmatica del Mallarmé. Sarebbero tra i verlainiani il Rimbaud, il Maeterlinck, il Samain, il Rodenbach, il Le Cardonnel, il Mikhael, il Huysmans, il Jammes, il Corbières; tra gli “armonisti” alla Mallarmé, invece, il Ghil, Stuart Merril, Vielé-Griffin, Camille Mauclair, Albert Mockel, Émil Verhaeren, J. Laforgue, Gustave Kahn, Henri de Régnier, A. Retté, ecc.
Nel campo della critica e dell’estetica, la loro opera ha conseguito effetti duraturi. Essa ha discreditato irreparabilmente il naturalismo e il suo morboso amore per le cose vili o mediocri; ha rivendicato alla lirica il diritto di percorrere il vasto dominio dei ricordi, dei sogni e delle speranze; al realismo utilitario dei moderni ha ricordato che la poesia serba delle sue antiche origini religiose la fede in valori che trascendono la materia e aspira, come la musica, a liberare lo spirito dalle miserie della vita pratica.
In Inghilterra il rappresentante classico del decadentismo fu, sul finire del secolo, Oscar Wilde, ma, prima che dalla Francia se ne importasse il nome, già esso aveva, nella poesia inglese, una tradizione particolarmente lunga. A muovere da certe inflessioni sensualmente morbide che l’impressionismo coloristico del Coleridge e il misticismo estatico del Blake talvolta assumono, giù per tutto il periodo romantico – attraverso il fastoso “satanismo nero e oro, rosso e oro” del Byron, attraverso le sottili estasi di voluttà e di morte a cui il godimento della bellezza tende nella poesia di Keats (The Eve of St. Agnes, La belle dame sans merci, Isabella, ecc.) e di Shelley (The Sensitive Plant, Epipsychidion, Cenei, ecc.) -; giù, e più tipicamente ancora, per il periodo che seguì – attraverso il morboso e visionario esotismo di De Quincey -, si scende per il corso del secolo senza che la tradizione s’interrompa mai. Anzi, in tutta Europa, lo stesso decadentismo della fine del secolo, troverà in tre poeti di lingua inglese i proprî maestri: Poe, la cui poesia allucinata e musicale, sensuale e mistica, realistica e simbolica fu tra le massime esperienze formatrici dello stesso Baudelaire; Swinburne, dalla cui esaltazione in fantasie fastose e voluttuosamente dolorose molto derivò il D’Annunzio; Rossetti, nella cui arte le immagini della bellezza sembrano sempre sorgere accompagnate da uno spasimo. Misticismo e sensualità, morbosità e raffinatezza, fusi in un estetismo che tende a disciogliere in estenuanti passività di godimento l’attività dello spirito, tutto ciò che costituisce il sostrato di “estetiche ebbrezze”, di cui il decadentismo si alimentò, aveva già trovato una sostanziale attuazione, quando Wilde comparve. Con Wilde, e con il determinarsi esplicito del decadentismo in scuola, il fenomeno si rinnovò soltanto in una tonalità nuova: con una più equivoca complicatezza di sensazioni, e al medesimo tempo con una più cosciente realistica brutalità di espressione; con una più cerebrale ricercatezza, per una parte, e per l’altra con un accento tutto proprio, di vita vissuta crudamente nella realtà. Accanto allo sviluppo di elementi derivati dalla precedente poesia inglese, è facile riconoscervi il preponderante riflesso della poesia decadente francese: sebbene più dei romanzi e dei drammi che delle liriche: più di Huysmans, di Péladan, di Lorrain, di Maeterlinck che di Verlaine o di Rimbaud. Tuttavia il movimento, che rapidamente si propagò, fu vasto, ebbe anche una sua rivista, The yellow book, illustrata, fra altri, dal Beardsley, e rappresentò, anche in Inghilterra, una delle manifestazioni più tipiche dello spirito e del gusto del tempo. Oltre a Wilde, numerosi poeti di varia origine e tendenza, come A. Machen, A. Douglas, R. Middleton, A. Symons, L. Johnson, J. E. Fletcher, E. Dowson, lo stesso G. Moore, in talune poesie lo stesso Yeats, andato poi per altre e assai diverse vie, crebbero e si formarono entro quest’atmosfera. Residui di questo mondo poetico si riscontrano nella poesia posteriore, come in quella di un Lawrence o di un Joyce, al decadentismo non più riducibili, ma che hanno nell’esperienza del decadentismo uno dei lolo precedenti immediati e necessarî.
Anche in Germania la tendenza rappresentata dal decadentismo aveva già una ricca e varia tradizione propria: a cominciare dalla tumultuosa e confusa ebbrezza di distruzione e di dissolvimento che si scatena nelle opere degli Stürmer und Dränger, particolarmente di Lenz; e continuando, nel periodo che subito vi susseguì, con l’estasi orante, in cui ogni senso d’individuale realtà si discioglie, di Wackenroder, o, e più chiaramente ancora, con quelle “nuziali ebbrezze d’amore e di morte, di voluttà e di martirio” che in toni più spirituali s’incontrano in Novalis, e con più acerba ossessionante sessualità in Kleist, e con più torbide esaltazioni mistico-sensuali in Brentano, in Werner e in altri romantici. Nel colorito patnos elegiaco che s’accompagna al pessimismo di Schopenhauer; nell’allucinata visionarietà di Hoffmann; nel dolce scoramento stanco di Grillparzer; nella “süsse Todesmüdigkeit” di Lenau; nella malata truculenza di Grabbe; nel fatalismo oscuro, ora stanco e stagnante, ora vulcanicamente erompente di Büchner; nell’impressionistica, sensualmente voluttuosa e morbida, ironicamente amara poesia di Heine, tale corrente romantico-decadente s’era poi bensì rinnovata in un più immediato contatto con la realtà; ma per tutto il secondo ventennio del secolo s’era ancora maggiormente accresciuta ed estesa, creando l’atmosfera, da cui doveva sorgere, poco dopo, l’arte di Wagner. Dopo di avere esaltato in Wagner il rigeneratore dell’umanità nello spirito eroico della tragedia antica, fu Nietzsche che – giunto a chiarezza di sé attraverso la propria crisi spirituale – per primo riconobbe nell’autore del Tristano e del Parsifal “il mago di tutte l’ebbrezze sensuali nelle quali è dolce sentirsi morire”, il “grande nevrotico della musica”, il “decadente per eccellenza e maestro di tutti i decadenti”. Nietzsche fu, del resto, in Germania, colui che del problema del decadentismo fissò nettamente i termini. Come dal suo iniziale estetismo romantico egli aveva preso soltanto le mosse per giungere a una critica dei valori etici della vita – con la formulazione d’un principio nuovo che, per il suo postularsi “al di là del bene e del male”, non perciò cessa di essere un nuovo concetto etico che intende sostituirsi all’antico – così Wagner gli apparve come impressionante segno di un “mal du siècle” generale, che nella musica aveva trovato bensì la sua culminante espressione, ma investiva in realtà tutta quanta la vita, individuale, sociale, politica. Mentre in Francia – e di riflesso in Italia – si proclamava “la décadence latine”, Nietzsche in Germania iniziava invece, con la sua spietata analisi della “decadenza di tutta la civiltà europea”, quel movimento di pensiero che, attraverso il “giornalismo a grande effetto” di Nordau e la tragica “impossibilità di vivere” di Weininger doveva conchiudersi infine nella clamorosa proclamazione del “tramonto dell’Occidente” di Spengler.
Ma anche per un altro riguardo, l’influsso di Nietzsche fu in Germania decisivo. Decadente egli stesso, nella sua più intima sostanza, esperto conoscitore di tutte le “mezze luci crepuscolari” dell’anima umana, di tutte “le occulte dolci e tristi cose che nella profondità delle sue pieghe la vita nasconde”, Nietzsche, pur cantando un suo sogno “di ebbrezza solare”, di salute, di giovinezza, di forza, compose un’opera in cui ogni decadente si riconobbe, e in cui trovò, con un nuovo linguaggio, il nuovo stile. Altri influssi vi si associarono. Già fra l’80 e il ’90, un’ondata di poesia decadente moderna era scesa sopra la Germania dalla Danimarca con il delicato impressionismo di Jacobsen e con le malate raffinatezze di Hermann Bang; e naturalmente più ancora, e soprattutto, influirono i Francesi – tradotti e ritradotti, da Verlaine a Verhaeren – e gl’Inglesi, da Swinburne a Wilde. Tutti i poeti più rappresentativi della tendenza postnaturalistica sul volger del secolo da George a Rilke, a Hofmannsthal, da Dehmel a Bahr, a Schnitzler, a Dauthendey, a Schaukal, ecc. – e anche nei paesi scandinavi da Jørgensen a Kinck, Fröding – ne trassero la loro prima ispirazione. Tuttavia nel mutare del loro atteggiamento verso un più pieno raggiungimento di sé medesimi, la vera guida spirituale fu, per tutti, sempre nuovamente Nietzsche, il cui spirito è riconoscibile tanto nella “voluttà di sentirsi puro” che contrassegna la religiosità estatica di Rilke, quanto, e in modo ancor più manifesto, nella “rinascita eroica” proclamata in nome del culto della bellezza dal George, o nell’amor fati che conduce Thomas Mann alla lucida serenità delle sue diagnosi delle malattie della spiritualità moderna.
In Italia invece la situazione era diversa e il decadentismo vi fu fenomeno d’importazione. Tutta la storia spirituale del secolo era stata dominata dallo sforzo verso il raggiungimento dell’unità e dell’indipendenza della nazione: e il suo naturale sbocco fu la poesia di Carducci; pieno e cosciente ritorno della letteratura alla classicità gloriosa delle sue più antiche tradizioni. Il decadentismo romantico della bohème milanese si esauri in sé stesso rapidamente.
Solo con D’Annunzio si stabilì un pieno e diretto contatto con le contemporanee correnti della poesia europea. Altri poeti si radunarono intorno a lui; e un’inflessione decadente si ritrova non di rado in De Bosis e negli altri collaboratori del Convito; come si ritroverà più tardi nei Crepuscolari, da Gozzano, a Corazzini, a Morselli, a Fausto Maria Martini.
Ma dall’Isotteo e la Chimera alla Contemplazione della Morte, fino a talune pagine dello stesso Notturno, il solo e grande maestro del decadentismo italiano resta il D’Annunzio: benché anche in lui, i motivi della poesia decadente trovino spesso impreveduti, personali sviluppi verso una “tropicale plenitudine di vita”, nella cui ardente sensualità, “come in un bagno di sole”, sembra talora – come in Alcione – rigenerarsi il mondo.
Nei paesi iberici e ibero-americani fu soprattutto per opera di Rubén Darío (v.), che, alla fine del secolo, sorse quel movimento letterario e paeudofilosofico ch’egli e i suoi seguaci chiamarono “modernismo“: insieme con i parnassiani e i simbolisti, i decadenti di lingua spagnola si dissero “modernisti”. Il rinnovamento lirico si opera più intensamente nel decennio che corre tra Azul (1888) e Prosas profanas (1896) del Darío, che traduce la nuova sensibilità in un ritmo poetico e in una prosa numerosa più raffinati, più delicati e antiaccademici. Quelle che erano state incerte aspirazioni a una poesia di stile europeo, che rompesse la tiaccia angusta della tradizione locale e fosse strumento più consono alle nuove esigenze spirituali, quali si erano delineate nel cubano Julián del Casal (v.), nei messicani Manuel Gutiérrez Nájera (v.) e Salvador Díaz Mirón (v.), e nel colombiano José Asunción Silva (v.), acquistarono nei “modernisti” piena consapevolezza; determinando, attraverso un rinnovamento di schemi ritmici e di forme stilistiche, un’abbondante fioritura lirica, in cui eccelsero, fra altri, gli argentini Leopoldo Díaz e Leopoldo Lugones (v.), il boliviano Ricardo Jaimes , Freyre (v.), l’uruguaiano Julio Herrera y Reissig (v.), il messicano Amado Nervo (v.), il peruano José Santos Chocano (v.), il colombiano Guillermo Valencia, ecc.
Il “modernismo” strettamente castigliano s’è mantenuto in un equilibrio di pensiero e di forme, rifacendosi sempre alla migliore tradizione nazionale, pur non mancando di attingere alle nuove correnti, e di assimilarle, come è avvenuto nei migliori: Salvador Rueda (v.), Antonio Machado (v.) e il fratello Manuel, e, Juan Ramón Jiménez (v.). Nel Portogallo il decadentismo e il simbolismo ebbero il loro propagatore in Eugenio de Castro e nella scuola che s’ispira alla sua ricca e sottile fantasia lirica.
Nei paesi slavi predomina un po’ dappertutto, tra il 1870 e il 1890, la letteratura tendenziosa e moraleggiante, con idealità sociali o patriottiche. Fu appunto per reagire contro questa schiavitù dell’arte, a fini nobili ma estranei, che sorsero nell’ultimo decennio del secolo in tutti i paesi slavi correnti nuove che, pure apparendo sotto denominazioni diverse (simbolismo, impressionismo, neoromanticismo, ecc.) rivelano strette affinnità col decadentismo occidentale. Infatti, se anche la reazione contro l’utilitarismo dell’arte era dovuta a condizioni indigene, i programmi e i modelli erano quasi esclusivamente di provenienza straniera: Baudelaire, Verlaine, Maeterlinck, Nietzsche, D’Annunzio, O. Wilde, ecc. Grande vantaggio ne trassero tutte le letterature slave sia per l’arricchimento del linguaggio letterario sia per le vere e proprie rivelazioni del mondo psichico a cui il movimento condusse. L’elemento distruttivo fu perciò nelle regioni slave superato più presto ancora che altrove, lasciando dietro di sé soltanto degli epigoni presso i quali (p. es. nel russo Arcybašev) il decadentismo, più che una corrente letteraria, è un atteggiamento psicologico.
I promotori e nello stesso tempo rappresentanti principali del decadentismo in Russia sono Minskij, Merežkovskij, Zenaide Hippius e Brjusov, i quali costituirono intorno al 1895 una chiesuola letteraria per reagire contro ogni borghesismo nella letteratura. Malgrado la loro posizione di aperto antagonismo alle tradizioni russe, in realtà, per il sentimento mistico della vita, per la sensazione del dissolversi nel caos della realtà terrestre, per il loro interesse per l’imponderabile, si ricongiungevano ai loro predecessori. Ed essi stessi infatti non tardarono molto a scoprire il loro rapporto col filosofo Vladimiro Solov′ev da un lato, e dall’altro con Dostoevskij e persino con Gogol’. Verso il 1900 tutti, ormai maturi di esperienza artistica, ritrovano, chi più chi meno, il contatto con la pienezza della vita e il loro decadentismo si risolve nella religiosità, nel culto dell’arte o nell’individualismo.
Più giustificata ancora che in Russia era la reazione contro il positivismo in Polonia. Ma le condizioni stesse della letteratura polacca non furono favorevoli a un forte sviluppo delle correnti decadenti. Infatti, in alcuni scrittori, quali lo Żeromski, vi è urto continuo fra decadentismo e tendenze sociali; in altri (Z. Przesmycki) il decadentismo non va molto più in là del culto della forma. Przybyszewski, invece, con la sua esaltata ricerca dell'”anima nuda”, col suo satanismo e pansessualismo, col suo mistico sentirsi al di là del bene e del male, è un decadente puro, ma il suo decadentismo appare più nelle prime opere scritte in tedesco che in quelle polacche. Nel suo programma polacco, Confiteor (1898), egli inneggia ancora, pur senza nominarlo, al decadentismo, ma si trova di già, sottolineando il carattere indigeno e nazionale dell’arte intesa come espressione totalitaria della vita, sulla via della conversione alle tradizioni più genuine della letteratura del suo paese.
Przybyszewski ha influito sulla letteratura cèca aiutandola a superare l’epigonismo della fine dell”800 e a introdurre le nuove correnti occidentali. Ma, fatta eccezione per Jiři Karásek, i principali innovatori di questo periodo si avvicinano ben poco al decadentismo il quale, più moda straniera che sostanza vissuta, trova soltanto qualche aderente presso scrittori secondarî che volentieri nascondono, sotto le spoglie di un tragico e sovrumano isolamento, la loro scarsa capacità creativa.
Antiborghesismo ed estetismo sono parole d’ordine anche dei riformatori della poesia presso gli stati meridionali: e più presso Sloveni e Croati che non presso Serbi e Bulgari. Il decadentismo vi s’inserisce spontaneamente, ma vi resta alla superficie ed è presto superato (Cankar, Begović) da una maggiore aderenza agli aspetti quotidiani della vita.
Bibl.: P. Verlaine, Les poétes maudits, Parigi 1884 e 1888; T. De Wyzewa, Nos Maîtres, Parigi 1895; S. Mallarmé, Divagations, Parigi 1897; Remy de Gourmont, Le livre des Masques, s. 1ª, Parigi 1896; s. 2ª, Parigi 1898; id., Esthétique de la langue francaise, Parigi 1899; G. Kahn, Symbolistes et décadents, Parigi 1902; A. Graf, Preraffaelliti, Simbolisti ed Esteti, in Foscolo, Manzoni e Leopardi, Torino 1898; V. Pica, Letteratura d’eccezione, Roma 1900; E. Raynaud, La mêlée symboliste, voll. 3, Parigi 1918-1922; Ch. Maurras, Barbarie et poésie, Parigi 1925. – Per i rapporti del decadentismo col simbolismo v.: A. Barre, Le Symbolisme; essai historique sur le mouvement symboliste en France de 1885 à 1900, Parigi 1902, con ricca bibliografia. Cfr. inoltre: per la Germania, E. Sydow, Die Kultur der Dekadenz, Dresda 1921; e per la Francia, l’Italia e l’Inghilterra il colorito e sostanzioso libro di M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letter. romantica, Milano-Roma 1930.