Comprendere un testo poetico significa innanzitutto prendere atto della sua natura polisemica, per cui in ogni poesia sarà sempre riscontrabile un significa- to di base oggettivamente valido; al di là di esso, tuttavia, ogni lettore potrà scovarvi tanti altri significati, diversi a seconda della propria cultura, dei propri sentimenti, del proprio modo di pensare.
Le ragioni di tale polisemia risiedono nel carattere specifico del linguaggio poe- tico: un linguaggio assolutamente “fuori della norma”. Pertanto, risulta estre- mamente facile distinguere un testo poetico da un altro che non lo è: non è il contenuto a fare la differenza, ma la forma in base alla quale esso viene pla- smato. Partendo dalla lingua comune, il poeta sfrutta le parole sia sul piano del significato sia su quello del significante e, attraverso una serie di elementi tec- nici e stilistici, dà corpo a una dimensione espressiva iconsueta e immediata- mente distinguibile da ogni altra.
Per cogliere integralmente il valore di una poesia, dunque, il lettore dovrà analiz- zare il suo linguaggio poetico, prendendone in esame gli aspetti più importanti.
1. I campi semantici e le parole-chiave
Le parole che compongono una lingua non vivono “scucite”, anzi si richiamano l’una all’altra: o perché hanno in comune il significato (i sinonimi), o perché hanno in comune la forma, ma non il significato (gli omonimi), o perché sono in opposizione (i contrari), o per associazione di idee ecc.
Tale rete di relazione fra le parole crea un campo semantico, in cui ogni parola può introdurre altre relazioni e, quindi, un altro campo.
La parola attorno a cui ruota un campo semantico si chiama parola-chiave. Nei testi poetici la parola-chiave è quella che racchiude l’argomento stesso della poe- sia: individuare la parola-chiave significa, perciò, capire il significato della poesia.
2. Il verso
Il carattere distintivo di ogni testo poetico è costituito dal fatto, immediata- mente visibile, di essere composto in versi.
I versi non sono tutti uguali: possono essere lunghi come nelle poesie-racconto di Cesare Pavese oppure brevi come nelle liriche dell’Allegria di Giuseppe Ungaretti.
Il verso, inoltre, non marca solo una diversità di tipo visivo rispetto ai testi in prosa, ma costituisce anche l’unità di base del ritmo di una poesia. Esso è costituito dalla successione armonica e alternata di sillabe toniche e sillabe atone. Le sillabe delle parole di un verso, infatti, non vengono pronunciate tutte con la stessa intensità: alcune sono pronunciate con più forza e assumono un partico- lare rilievo. Bisogna fare attenzione, d’altro canto, a non confondere l’accento tonico della parola con l’accento ritmico del verso. L’accento tonico interessa la sillaba singola su cui la voce, nel pronunciarla, batte con maggior forza; l’accento ritmico (o ictus) si ricava, invece, dalla combinazione di più parole. Ne consegue che sillabe fornite di accento grammaticale non hanno l’accento rit- mico e sono considerate, da un punto di vista metrico, atone.
In base all’accento dell’ultima parola, i versi si dicono:
- piani, se terminano con una parola piana cioè accentata sulla penultima sillaba (ad esempio: sospìro);
- sdruccioli, se terminano con una parola sdrucciola cioè accentata sulla ter-zultima sillaba (ad esempio: piràmidi);
- tronchi, se terminano con una parola tronca cioè accentata sull’ultima silla-ba (ad esempio: starà).
Per contare il numero delle sillabe che costituiscono un verso vanno presi inconsiderazione i gruppi vocalici, tenendo presente che:
- il dittongo è costituito da due vocali, una forte (a – e – o) e una debole (i – u) non accentate (e viceversa) oppure da due deboli, la prima delle quali non accentata; il dittongo si pronuncia con un’unica emissione di voce e vale una sola sillaba (ia, ie, io; ai, ei, oi; ua, ue, uo; au, eu, ou; iu, ui);
- il trittongo è formato da tre vocali, una sola delle quali è una vocale forte, e vale anch’esso una sillaba;
- lo iato è l’insieme di due vocali forti o di una vocale debole accentata e una forte (e viceversa) oppure di due vocali deboli di cui la prima accentata (ea, ae, eo, ao, oe, oa, ìu, ùi, e le stesse dei dittonghi con la debole accentata).Contare esattamente le sillabe non è tuttavia sufficiente a individuare in maniera corretta la tipologia del verso; per farlo bisogna prendere in considerazione anche le figure metriche o poetiche:• la sinalefe si verifica quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente si fondono in una sola sillaba;
- la dialefe, contrariamente alla sinalefe, avviene quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente non si fondono, ma forma- no sillabe a sé;
- la dieresi si ha quando due vocali, che dovrebbero costituire dittongo, rap- presentano due sillabe diverse (si segnala con due punti posti sulla vocale debole del dittongo);
- la sineresi, al contrario della dieresi, è il fenomeno per cui due vocali all’in- terno di una parola non costituiscono iato e valgono una sillaba;
- la tmesi si verifica quando una parola viene tagliata a metà solitamente tra la fine di un verso e l’inizio di quello successivo.In base al numero delle sillabe, i versi italiani possono essere ricondotti a due grandi categorie: i versi parisillabi (bisillabo, quaternario, senario, ottonario, decasillabo), dove l’ultimo accento ritmico cade su posizione dispari, e i versi imparisillabi (quinario, settenario, novenario, endecasillabo), dove l’ultimo ac- cento ritmico cade su posizione pari.A queste tipologie di base sono inoltre da aggiungere i cosiddetti versi doppi, formati da due versi fondamentali uniti in uno solo (doppio quinario, doppio senario o dodecasillabo, doppio settenario, doppio ottonario).
I versi sciolti sono versi legati ad altri presenti nella strofa soltanto dalla lun- ghezza predeterminata (senari, settenari, endecasillabi ecc.), ma sciolti da qual- siasi legame di rima.I poeti del Novecento prediligono invece il verso libero, non organizzato in un numero fisso di sillabe né tanto meno vincolato a particolari schemi di rime, e quindi non riconducibile a una tipologia precisa.
- Il ritmo, altro elemento fondamentale del testo poetico, non è prodotto a caso, ma è il risultato di scelte precise. Esso è determinato in primo luogo dalle cesure, cioè dalle pause che in punti precisi interrompono i versi.
La pausa più evidente è detta pausa ritmica primaria e coincide con la fine di ogni verso; pausa più debole di quella primaria, ma non per questo meno im- portante ai fini del ritmo, è quella che divide il verso in due parti, dette emisti- chi. Questo tipo di cesura interessa solo i versi più lunghi (dall’ottonario in su) e coincide di solito con la fine di una parola.
Quando la pausa ritmica di fine verso non corrisponde a una pausa logica l’enjambement si verifica: in questo caso la frase non termina alla fine del verso, ma continua al verso successivo. L’enjambement riduce al minimo la pausa ritmica primaria: unendo insieme due versi consecutivi, crea un’intensa fluidità ritmica e pone in forte rilievo i termini che coinvolge.
Gli aspetti ritmici di un testo poetico sono rafforzati e amplificati dalla rima, identità di suono di due o più parole a partire dall’ultima sillaba accentata. A seconda delle parole coinvolte, la rima si dice perfetta quando interessa parole identiche a partire dall’accento tonico (amòre / dolòre), imperfetta quando le desinenze non sono identiche (cupo / muto), equivoca se riguarda parole che hanno lo stesso suono – sono cioè omofone – ma diverso significato (sole / sole).