Letteratura italiana

I generi letterari e gli autori “minori”

La prosa

Le riviste

Le riviste si affermano generalmente come espressione di un particolare programma culturale o schieramento politico-ideologico.

«Il Marzocco» (1896-1932). Fondata a Firenze da Angelo Orvieto, ha come suo principale animatore Gabriele D’Annunzio. Partendo dal rifiuto del Positivismo e della cultura accademi- ca in generale, la rivista si ispira al vitalismo e all’individualismo di stampo decadente, e appoggia, a partire dal 1911, la politica nazionalista e imperialista.

«Il Regno» (1903-1906). Dal carattere fortemente antidemocratico e antisocialista, questa testata viene fondata da Enrico Corradini, scrittore fortemente nazionalista.

«Il Leonardo» (1903-1907). Papini e Prezzolini avviano la rivista poco più che ventenni. Di spirito antigiolittiano e nazionalista, ha interessi prevalentemente filosofici e contribuisce, in particolare, a diffondere il pensiero di Nietzsche, Bergson e James.

«Hermes» (1904-1906). Promossa da un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, si mostra sensibile al pensiero estetizzante di D’Annunzio e all’imperante nazionalismo del tempo, ma si interessa preminentemente all’arte e alla letteratura (divulga l’estetica crociana).

«La Critica» (1903-1944). Direttamente impegnata nella diffusione dell’idealismo crociano, è la testata cui dà vita a Bari lo stesso Benedetto Croce. Lo studioso abruzzese è un insigne esponente europeo della rinascita dell’Idealismo; tra i suoi scritti più noti i Problemi di estetica (1910), l’Estetica in nuce (1929) e la Poesia (1936), opera quest’ultima in cui riconosce come «poesia» unicamente l’«espressione del sentimento», definendo «non poesia» o «struttura» tutto quanto contenga implicazioni di altra natura.

Croce ricopre un posto di enorme rilievo nella storia della critica letteraria novecentesca.

«La Voce» (1908-1916). È senza dubbio la rivista più importante del primo Novecento. Nasce a Firenze per iniziativa di Papini e Prezzolini. Convinzione di base dei principali collaboratori (tra cui spiccano i nomi di Salvemini, Slataper, Amendola, Croce, Gentile, Einaudi) è che l’azione culturale debba avere la priorità su quella politica, offrendole precise direttive e contribuendo a promuovere la formazione di una nuova classe dirigente. «La Voce» vive quattro fasi che vedono avvicendarsi alla direzione Prezzolini, Papini, ancora Prezzolini e Giuseppe De Robertis, che dirigerà «La Voce bianca», di taglio più spiccatamente letterario.

«Lacerba» (1913-1915). Venuti in contrasto con «La Voce», Papini e Ardengo Soffici fondano insieme questa nuova testata, che si propone quale strumento di sostegno e di diffusione del Futurismo.

«L’Unità» (1911-1920). Fondata da Salvemini in seguito alla rottura con «La Voce», è l’unica rivista antinazionalista, interessata in particolare alla questione meridionale.

Il romanzo

Il Decadentismo segna con differente intensità numerosi romanzieri, ma la narrativa di inizio secolo assimila e riconverte velocemente le suggestioni decadenti in nuove forme di scrittura. Il genere romanzesco, dopo un’iniziale coesistenza di vecchio e nuovo (tante opere inseriscono in un impianto ancora naturalistico situazioni e personaggi ormai “novecenteschi”), rompe definitivamente con gli schemi della tradizione. Il romanzo del Novecento tende a essere soggettivo: non rappresenta più la realtà, ma descrive il mondo interiore dei personaggi. È la grande narrativa di Pirandello e Svevo.

Senz’altro condizionati dalla poetica decadente, ma meritevoli di essere approdati a risultati decisamente originali sono Grazia Deledda e Federigo Tozzi.

Assegnataria del premio Nobel nel 1926, Grazia Deledda (1871- 1936) muove da canoni veristici per approdare a una piena adesione al Decadentismo. Così nei suoi romanzi più noti, tra cui La via del male (1896), Elias Portolu (1903), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), Cosima (1937), dove l’attenzione minuziosa ai processi psicologici dei personaggi e la visione epica e drammatica ma anche intuitiva e lirica della vita si innestano sullo sfondo di una Sardegna selvaggia e magica.

Senese di nascita e autodidatta di formazione, Federigo Tozzi (1883-1920), pressoché ignorato dai contemporanei, è stato note- volmente rivalutato dalla critica più recente e addirittura affianca- to, per gli evidenti meriti della sua produzione, a Pirandello e Sve- vo. Nei romanzi Con gli occhi chiusi (1919), Tre croci (1920), Il podere (1921) lo scrittore dà corpo, attraverso i suoi tormentati personaggi, alla “malattia” del secolo: l’inettitudine, l’assoluta inca- pacità dell’uomo di relazionarsi in maniera costruttiva agli altri, l’irrimediabile incomunicabilità tra il suo mondo interiore e la real- tà esterna; il tutto sullo sfondo del doloroso contrasto tra una fetta d’Italia ancora legata alle tradizioni e il mondo accelerato e ag- gressivo della modernità. Il passo che proponiamo, tratto dal capi- tolo X di Tre croci, descrive efficacemente la condizione di inetti- tudine del protagonista.

[…] istantaneamente Giulio si sentì invadere come da un delirio senza scampo. Chi lo avrebbe trattenuto perché non andasse in mez- zo alla cognata e alle nipoti gridando? Come avrebbe potuto fare a non buttarsi a capofitto contro il muro? Chi lo poteva tenere, nella strada, che non corresse per tutta Siena? Bisognava, dunque, che egli si preparasse a commettere chi sa quale stravaganza, che avrebbe fatto effetto a tutti. “Ecco – egli pensava – come un uomo può cam- biarsi! È lo stesso di una malattia, che viene quando non ci si pensa né meno!”. Ma egli restava a sedere; e nessuno, vedendolo, avrebbe potuto sospettare di niente.

Nel frattempo, a partire dal primo decennio del Novecento, si diffonde il gusto per la scrittura diaristica e l’autobiografismo lirico,

caratterizzati da uno stile decisamente espressionista. Protagonisti principali sono “vociani” come Jahier, Serra, Boine e Slataper.

Tra le opere di Piero Jahier (1884-1966) ricordiamo le Risultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (1915), Ragazzo (1919), Con me e con gli alpini (1919); il testo più rappresentativo di Renato Serra (1884-1915), invece, è l’Esame di coscienza di un lette- rato (1915), composto prima di partire per il fronte, da dove lo scrit- tore non farà più ritorno; Giovanni Boine (1887-1917) scrive Il pec- cato (1914); Scipio Slataper (1888-1915), infine, è autore del roman- zo autobiografico Il mio carso (1912).

“Epigoni” dell’esperienza vociana possono considerarsi Sibilla Ale- ramo e Giuseppe Antonio Borgese. Sibilla Aleramo (1876-1960), pseudonimo di Rina Faccio, si distingue in particolare per la lotta a fa- vore della causa femminista, rinvenibile sin dal primo dei suoi scritti, Una donna (1906), romanzo autobiografico; nelle righe che seguono, tratte dal capitolo XII, l’autrice denuncia con grande lucidità l’ipocrisia esistente alla base dei rapporti umani e riflette acutamente sul ruolo attribuito in genere alla figura materna.

Chi osava ammettere una verità e conformarvi la vita? Povera vi- ta, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici, ognuno portava la sua menzo- gna, rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose: quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole, quasi, di fronte alla paurosa grandezza del mostro da atterrare! E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male so- ciale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio, deve essere una donna, una persona umana.

Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), scrittore, saggista e critico militante, è autore del romanzo Rubè (1921), il cui omonimo protagonista, un intellettuale piccolo-borghese siciliano, incarna, dietro i riferimenti scopertamente autobiografici, il destino dell’uomo contemporaneo, privo di certezze e continuamente minato nella sua integrità psicologica. Filippo Rubè, infatti, appare vittima della sua stessa cronica incapacità di affrontare la vita: dopo una lunga serie di fallimenti si ritrova per caso nel mezzo di uno scontro tra fascisti e socialisti, e rimane ucciso.

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