Letteratura italiana

Giovanni Pascoli

Nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, quarto dei numerosi figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli: Margherita (nata nel 1850), Giacomo (1852), Luigi (1854), Raffaele (1857), Giuseppe (1859), Carolina (1860; morta a cinque anni), Ida (1862, morta a pochi mesi), un’altra Ida (1863), Maria (1865). Ruggero era intendente di una tenuta dei principi Torlonia, la Torre, lungo il Rio Salto; e in questi luoghi, che rimasero per sempre fitti nel suo cuore, si svolse la puerizia campagnola e meditativa del futuro poeta. Il quale era con i tre fratelli più grandi a Urbino, nel collegio “Raffaello” tenuto dagli scolopî, dove il padre l’aveva mandato dopo gli studî elementari fatti a Savignano, quando la sciagura lo sorprese, terribile: l’assassinio del padre, avvenuto il 10 agosto 1867, mentre tornava in calesse da Cesena, dove si era recato per affari. L’assassino restò impunito; la vedova e gli orfani dovettero lasciare il dolce nido della Torre, rifugiarsi a San Mauro. E la morte continuò a mietere: Margherita, la madre (18 dicembre 1868), Luigi (1871); infine anche Giacomo (1876).
Nel 1873-74 e nel 1874-75, vinta una borsa di studio, Giovanni è a Bologna a studiare lettere, allievo di G. Carducci; ma sono anni di sbandamento spirituale e d’irrequietezza. Amico di Andrea Costa, aderisce ai primi movimenti internazionalisti, si mescola ai rivoluzionarî più accesi, assetato di giustizia, egli che della giustizia umana aveva sperimentato la fallacia. Perde la borsa di studio; dal 7 settembre al 22 dicembre 1879 è in carcere, come rivoluzionario. La breve prigionia segna una data importante nella sua vita; il P. ne esce trasformato, pacificato con sé stesso e con gli altri: l’antica sete di giustizia permane, ma accanto ad essa c’è ormai anche un grande bisogno di amore e di pace.
Ripresi nel 1880 gli studî interrotti, il P. si laurea nel 1882 con una tesi su Alceo; subito dopo, nel settembre, è nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera; due anni dopo è trasferito con lo stesso ufficio a Massa, dove chiama presso di sé Ida e Maria e ricostruisce per loro il nido distrutto; dal 1887 al 1895 insegna al liceo di Livorno. Sono anni di tenerezza e di malinconica serenità: l’atmosfera di Myricae. Ché, se Il Maniero Rio Salto sono del 1877 e Romagna del 1880, tutte le altre poesie di quel volume sono posteriori al 1886; del 1891 è la prima edizione di esso, mentre nel 1892 Veianus gli procaccia la prima medaglia d’oro della gara di poesia latina di Amsterdam.
La fama del poeta, in latino e in volgare, si estendeva e consolidava via via. Dal 1895 al 1897 insegnò per incarico grammatica greca e latina nell’università di Bologna; dal 1897 al 1903, come titolare, letteratura latina a Messina; nel 1903 fu trasferito, con l’insegnamento della grammatica latina e greca, a Pisa, dove restò sino al 1905, quando fu chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. Egli accettò riluttante, intimidito dalla responsabilità della successione e dal fervore stesso della simpatia con cui da ogni parte era aspettata la sua opera sulla cattedra famosa. Né questa successione è senza grande importanza per l’opera stessa del poeta; se è vero che nel P. è costante tendenza a volgersi verso temi sempre più vasti e complessi, non è men vero che nella scelta degli ampî cicli di poesia patriottica e nazionale che egli negli ultimi suoi anni andò meditando e in parte attuò, influì anche il fatto che il P. credé suo dovere raccogliere l’eredità del Carducci anche in quanto poeta della storia e della gloria nazionale.
Divideva il poeta il suo tempo tra l’assiduo lavoro scolastico e quello poetico, a cui amava dedicarsi soprattutto in quella casa di Castelvecchio, dove s’era sistemato nell’estate del 1895 e che poco di poi aveva acquistato vendendo alcune medaglie d’oro guadagnate nelle gare di Amsterdam. Qui si ritirava con Maria, la cara Mariù (Ida s’era sposata il 30 settembre di quello stesso anno 1895), appena glielo permettevano i doveri del suo insegnamento. Ammalatosi gravemente alla fine del 1911, morì a Bologna il 6 aprile 1912. Bologna, San Mauro e Castelvecchio si disputarono l’onore di custodire i resti del poeta; prevalse Castelvecchio e il corpo del P. vi fu seppellito il 12 ottobre, dopo essere stato provvisoriamente inumato a Barga. Maria scelse come tomba una piccola cappella presso la casa che Giovanni aveva tanto amato.
Il poeta. – L’aspetto del poeta che si manifesta primo cronologicamente e che per primo s’impone all’attenzione del lettore, è indubbiamente quello “georgico“. Innamorato della campagna, abituato dall’infanzia a viverci e a studiarla con la curiosità mai paga dello scienziato, e insieme con l’interesse amoroso del contadino, il P., “ultimo figlio di Vergilio”, secondo una troppo fortunata definizione di G. d’Annunzio, si trova perfettamente a suo agio tra seminati e uccelli, tra opere e operai dei campi e dei villaggi. Artista essenzialmente analitico, egli vede e ama soprattutto i particolari, che rende con una nettezza e una concretezza di cui non si hanno forse le uguali nella letteratura italiana; e riesce, per mezzo di notazioni rapide e che, se si analizzino, possono sembrare slegate, a comporre armonici quadretti, nei quali c’è, sì, un prodigioso virtuosismo di tecnica impressionistica, ma c’è anche ben altro. E quando, con un processo costante in tutta la sua attività, il P. passa dal semplice al complesso, dal quadretto alla scena, dalla scena al ciclo che celebri compiutamente le opere e i giorni dei suoi contadini romagnoli e toscani, insomma dalle Myricae ai Poemetti, sempre identico è l’atteggiamento del poeta, che analizza e scompone e disperde anche quando vuol costruire. Tuttavia, l’unità dei Poemetti è data dal sempre uguale calore di attenta simpatia col quale il P. segue, nei minuti particolari, gli umili atti della vita campestre di ogni giorno. Ma quei gesti, che si ripetono uguali di generazione in generazione e dai quali il contadino a nessun patto si scosterebbe; quei proverbî, tramandati anch’essi dalla sapienza delle passate generazioni, nei quali il contadino crede quasi come in formule magiche o religiose; quegli auspici, tratti con ferma fiducia dalle condizioni del cielo del sole del vento: tutto ha la solennità di un rito propiziatore del più grande bene che gli uomini possano avere: il pane e il vino, nati, con miracolo rinnovantesi a ogni stagione, dalla terra che è buona. Donde deriva ai contadini pascoliani, poco approfonditi in quanto uomini, una certa ieraticità; donde deriva altresì la solennità del tono del poeta, che a B. Croce, forse a torto, sembrò inopportuna trasposizione di tono omerico nella descrizione di minuzie campestri. La campagna del P. non è arcadica, in quanto, come dicevamo, nettamente e concretamente disegnata; non realistica, in quanto il P. non vuole rappresentarci i contadini come sono, ma come strumenti di una provvidenza che premia la fatica e soprattutto il sapersi contentare del poco.
Quest’aurea “contentabilità” ideale classico originalmente rivagheggiato, è il punto di approdo cui il P. giunge dopo lunghe traversie spirituali, che conosciamo più attraverso i dati esterni della biografia che attraverso le opere, che pure ne recano tracce; giacché, dopo i tentativi giovanili (il meglio di essi in Poesie varie raccolte da Maria) e dopo lungo silenzio, il P. torna alla poesia solo quando l’interno tumulto è sedato; e anzi la poesia è la massima testimonianza della malinconica serenità conquistata. Abbiamo infatti visto che il pieno fiorire della poesia pascoliana è tardo e pressoché improvviso, contemporaneo alla ricostruzione del nido, all’assestarsi della vita pratica del poeta in una dolce mediocrità ricca di affetti.
La tragedia familiare gl’ispira molti canti – forse troppi, e non dei più belli, se anche dei più noti -, e domina nettamente quella seconda serie di più “costruite” Myricae che sono Canti di Castelvecchio. Ma essa ha soprattutto efficacia sull’evoluzione del P. Il pensiero della morte diviene dominante; anzi di esso egli fa col tempo, generalizzando secondo il suo costume l’esperienza personale, il centro stesso della vita, l’elemento che solo distingue gli uomini dai bruti, che li deve far diventare più buoni. Educato nella desolazione del positivismo, che pure per alcuni riguardi era così stranamente e grossolanamente ottimistico, il P. esprime quel contrasto tra la filosofia dominante, che la ragione non sa ancora respingere, e le nuove esigenze oscuramente fermentanti nell’intimo, che è il tema fondamentale della letteratura italiana degli ultimissimi dell’Ottocento e del primo Novecento: in tal senso, egli dà l’avvio alla poesia del nuovo secolo.
L’estrema piccolezza e labilità dell’uomo e dello stesso mondo è un dato della ragione; compito della poesia, egli dice, è farlo diventare un dato di sentimento: far diventare “coscienza” quello che è semplicemente “scienza”. Ma per conto suo il P. non compone il dissidio: la sua poesia “cosmica” nasce appunto dall’urto tra scienza e coscienza, tra l’uomo che sa di dover morire, e che tutto con lui morrà, e il fanciullino che non vuole rassegnarsi, che “non sa” morire. La pascaliana e leopardiana angoscia dinnanzi agli spazî infiniti trova nel P. un nuovo cantore, che però non ha né la fede religiosa del Pascal, né il lucido coraggio negatore del Leopardi. E dunque, se la religione non soccorre a perpetuare la vita di là dalla morte, se il coraggio non aiuta a raggiungere la convinzione sentimentale, oltre che razionale, che la morte è morte; non rimane che arretrare di fronte al “mistero”, che averne sgomento come il bimbo del buio; non rimane che rifugiarsi inconsciamente in un vago misticismo, e insieme, con contraddizione logica in cui peraltro consiste la coerenza lirica del P., cingere il proprio mondo di una siepe, concentrare lo sguardo e l’anima sulle piccole cose concrete che ci sono d’intorno, e dalle quali si può trarre, insieme con la consolazione d’una poesia inavvertita dai più, l’aiuto d’una certezza.
Il P. ha diritto di piena cittadinanza nella letteratura europea mistico-simbolistico-decadente. I rapporti particolari che sono stati additati tra l’Italiano e gli stranieri sono in genere, più che vere e proprie derivazioni dell’uno dagli altri o degli altri dall’uno, significativi incontri di spiriti congeniali. Comune a quei poeti e al P. il bisogno di esprimere l’inesprimibile, di cercare di far diventare poesia attuale, per suggestioni simboliche e musicali, l’aspirazione potente ma imprecisa alla poesia, quell’inconscio fermentare della più segreta spiritualità, che dilegua se lo si voglia rendere coi mezzi tradizionali, se si tenti di tradurlo direttamente in immagini concrete. Ma, detto questo, sarebbe erroneo andar oltre. Intanto, non solo mancò al P., celebratore quanto altri mai della vita “borghese”, l’atteggiamento esteriore di poeta “maledetto” e ribelle, che fu caro a molti dei suoi compagni stranieri di poesia, ma gli difettò totalmente, nell’intimo, l’animus polemico, anzi la coscienza stessa dell’opposizione tra il nuovo e il tradizionale modo di concepir la poesia. D’altra parte, la sua educazione classica gli faceva amare le immagini nitide e le forme definite, mentre era in lui prepotente quel bisogno di estrema concretezza che abbiam visto caratterizzare la sua poesia georgica. Onde, questo mistico che si diceva positivista – e per certi riguardi lo era – talvolta, più che concepire simbolicamente, aggiunge il simbolo a posteriori; e abbiamo non una poesia che nasca da un’intuizione simbolica, ma un simbolo che è sovrapposto razionalmente, e quindi falsamente, a un’emozione lirica di altro genere. Del resto, il difetto fondamentale della poesia pascoliana sta proprio nel bisogno che il poeta sente sempre di “costruire” intorno alle proprie emozioni; di diluire, di autocommentarsi. Analogamente, egli, che da giovanissimo aveva sognato di comporre poesie-musiche, che valessero per suggestione di suoni prima che per forza d’immagini, si abbandona, sì, alla magia dei suoni in quanto tali, non senza raggiungere per tal via effetti artistici di prim’ordine (egli è uno squisito tecnico del verso, un felice inventore di combinazioni strofiche); ma d’altra parte indulge, e se ne fa un vanto, alla minuzia nomenclatrice che lo conduce all’abuso dei dialettismi. Le onomatopee, che tanto son dispiaciute ai critici, son frutto di ambedue queste contraddittorie tendenze.
Tutto questo travaglio spirituale è naturalmente alle radici anche di quella parte dell’opera pascoliana che all’osservatore superficiale può sembrare più pacata: cioè ai carmi in latino e ai Poemi conviviali. Prodigiosamente padrone delle lingue e delle letterature greca e latina, il P. traduce dai classici in maniera tecnicamente perfetta, sforzandosi di riprodurre, con ben altra industria e perizia del Carducci, la metrica quantitativa; ma è ben lontano dal rivivere l’antichità con la pienezza che fu propria del suo maestro. Come nelle traduzioni, così. nelle sue opere originali d’argomento classico, in latino e in volgare – le une e le altre cronologicamente parallele alle altre poesie -, il P. opera un avvicinamento dei poeti e del mondo antichi a sé stesso, al suo modo di vedere la vita, pronto a metter l’accento su quanto in essi c’è di congeniale a lui: ammodernamento certo ben lontano dalle intenzioni del P. e in contrasto con la sua formidabile conoscenza della classicità. Le poesie latine, a prescindere da un gruppo di epigrammi e di componimenti in metri lirici, constano essenzialmente di poemetti d’argomento romano, ispirati sia alle vicende politiche (Res romanae) sia alla storia letteraria di Roma (Liber de poetis), e d’argomento cristiano (Poemata christiana): questi ultimi, che costituiscono un gruppo a sé e rappresentano, grosso modo cronologicamente, ma rigorosamente dal punto di vista spirituale, un’evoluzione del gusto poetico del P. latino, contengono alcune delle pagine più belle di tutta la produzione pascoliana. Ed è stato bene osservato che anche Poemi conviviali, prendano essi lo spunto da Omero o da Platone, da Esiodo o da Apuleio o da Plinio, sono nella loro essenza, a prescindere dalla ricchissima e squisita decorazione a musaico, la ricostruzione di una paganità pervasa dagli oscuri presagi della futura morale cristiana.
Ben visibile nel P. la tendenza, sempre più accentuata, alla gnomica morale e politica; tendenza che trova la sua più precisa espressione nel volume di Odi e inni, ma che è presente sempre, sin dalle Myricae. Giacché, se è vero che il poeta fu troppo sensibile alle voci dei critici che lo venivan dipingendo come un arcade svagato dietro al canto degli uccelli, o come uno squisito ma limitato cantore di un piccolo mondo e di un personale dolore; è anche vero che questa funzione ammaestratrice egli assegnò costantemente alla poesia. Il poeta “fanciullino”, che – secondo una notissima teoria estetica del P., anch’essa generalizzazione della sua propria esperienza di poesia – è sempre pronto a stupire di tutto, a scoprire il grande nel piccolo e il piccolo nel grande, e nelle cose le “somiglianze e relazioni più ingegnose”; che non ha altro fine e altro bisogno, se non quello di esprimere ingenuamente il suo ingenuo stupore; questo “fanciullino” è, e vuol essere, -anche “predicatore”. Né qui importa che l’opposizione tra questi due termini, cioè tra la poesia-poesia e la poesia variamente moralistica, sia del P. prima ancora che del Croce; questa è una delle tante contraddizioni del pensiero pascoliano.
Predicatore sincerissimo sempre, questo positivista cristiano, questo socialista patriota; ma la sincerità della poesia è tutt’altra cosa della sincerità pratica del poeta. La sua anima è sensibile a quanto c’è sulla terra di bello e di buono, dovunque e in servizio di qualunque idea esso si trovi. Esorta il P. gli uomini ad amarsi, a stringersi solidalmente insieme contro il mistero della vita e della morte che incombe ugualmente angoscioso su tutti; mostra loro l’orrore dell’odio scatenato dalle cupidigie insaziabili, mentre sarebbe così semplice esser felici, contentandosi del poco; esalta le vittorie del lavoro, le conquiste della pacifica audacia umana; addita come rimedio contro la violenza la rassegnazione al male, e insieme celebra la guerra quando questa sia combattuta per la giustizia; ma soprattutto, profondamente buono egli stesso, non si stanca mai di raccomandare la bontà, che sola può attenuare l’infelicità comune. Diventa tutto questo poesia? Molte volte sì, non meno del frammento impressionistico, al quale a torto da alcuni si vuol ridotto il P. poeta; ma la maggior parte delle volte si resta indubbiamente al di qua. E al di qua della poesia è anche, se si eccettuino isolate bellezze, quanto ci rimane dei complessi cicli di poesia storica e celebrativa che il P. immaginò negli ultimi anni.
Il dantista e il critico. – Naturalmente, i difetti del poeta si aggravano nello scrittore di prosa, che troppo spesso è arzigogolata e leziosa, non sorretta da una solida e coerente impalcatura di pensiero. Il P. teneva moltissimo ai suoi volumi di critica dantesca, nei quali, riprendendo una tendenza esegetica che aveva avuto a campione G. Rossetti, approfondì gli studî sulla simbologia della Commedia. Ricollegandosi alla sua fondamentale teoria che il pensiero della morte è ciò che distingue gli uomini dai bruti, egli vide rappresentata nella Commedia, che sarebbe stata composta tutta a Ravenna dopo la morte di Arrigo VII, la mistica morte in Cristo, mediante la quale si risorge alla vera vita. Dalla selva oscura del peccato originale l’umanità riguadagna la divina foresta del Paradiso terrestre, riconquista cioè l’innocenza anteriore ad esso peccato. Ma si tratta di processo interno: l’uomo è in una selva, o ha in sé una selva, che diventa essa stessa divina foresta, quando egli riesce a conquistare la sua libertà interiore. Difficile riconquista perché l’impero è vuoto: occorre, per riuscire, una sintesi di Cristo con la giustizia imperiale. Il P. “scopre” un rapporto simmetrico tra la Croce e l’Aquila di spiriti luminosi che appaiono nel Paradiso (un suo discepolo, L. Valli, trovò poi altre 29 di tali simmetrie): Virgilio che ebbe l’Aquila senza la Croce, integra Dante che ebbe la Croce senza l’Aquila: in altri termini la fede non può condurre a salvezza se non è integrata dalla giustizia terrena. L’interpretazione mistica, non esente da pericolose sottigliezze, fu freddamente accolta; di che il P. si accorava. Ma il meglio della sua opera di critico è nelle finissime osservazioni sparse nelle due antologie latine e nelle due italiane, specialmente a commento dei poeti o dei momenti di poesia a lui più vicini.

Edizioni. – Poesie: Myricae. Il titolo compare la prima volta come titolo complessivo di un gruppo di nove liriche, pubbl. in Vita nuova, II, 10 agosto 1890. L’anno successivo apparve, a Livorno, la prima ediz. in volume, assai smilza; seguirono altre tre edizioni, pubbl. sempre a Livorno (1892, 1894, 1897) assai diverse l’una dall’altra per aggiunte, esclusioni, diversi aggruppamenti. La 6ª ed. (Livorno 1903) è la definitiva; Poemetti, 1ªa ed., col titolo Poemetti, Firenze 1897; 3ª ed., definitiva, col titolo Primi poemetti, Bologna 1904Nuovi poemetti, 1ª ed., ivi 1909Canti di Castelvecchio, 1ª ed., ivi 1903; 4ª ed., definitiva, ivi 1907; nella 6ª, postuma (1912), Maria aggiunse qualche lirica; Odi e inm, 1ª ed., ivi 1906 (la 2ª e la 3ª ed., 1907 e 1913, presentano aggiunte e varianti); Poemi conviviali (così chiamati perché alcuni di essi erano stati nel 1895 pubblicati nel Convito, rivista diretta da A. De Bosis), 1ª ed., ivi 1904Poesie varie, 1ª ed., ivi 1912; 2ª ed., riordinata e aumentata, ivi 1913; Poemi del RisorgimentoInno a RomaInno a Torino, ivi 1913 (l’Hymnus in Romam e l’Hymnus in Taurinos, nel testo lat. e nella trad. ital., ivi 1911); Traduzioni e riduzioni, ivi 1913Poemi italici e Canzoni di re Enzio, ivi 1914 (prima pubbl. sparsamente, ivi 1908-1911); Nell’anno Mille e schemi di altri drammi, ivi 1924; (Nell’anno Mille era stato pubbl. prima per nozze, ivi 1922). – I poemetti latini, di sulle edizioni originali di Amsterdam, furono raccolti da E. Pistelli, IPCarmina, ivi 1914 e, in 2 voll., a cura di Maria e di A. Gandiglio, ivi 1930. Fra le traduzioni di essi, cfr.: G. B. Giorgini, Tre poemetti latini, Pisa 1912; R. De Lorenzis, Poemetti cristiani, Napoli 1916; L. Vischi, Carmi latini, Bologna 1920; A. Gandiglio, Poemetti latini di soggetto virgiliano e oraziano, 2ª ed. con aggiunte, Bologna I931.
Opere dantesche: Minerva oscura, Livorno 1898; Sotto il velame, Messina 1900; La mirabile visione, ivi 1902; Conferenze e studi danteschi i, Bologna 1915. – Altri scritti: Miei pensieri di varia unanità, Messina 1903 (in gran parte rist. in Pensieri e discorsi, 1ª ed., Bologna 1907); Patria e umanità, Bologna 1914; Antico sempre nuovoScritti vari di argomento latino, ivi 1925. – Antologie: (lat.) Lyra, Livorno 1895; Epos, ivi 1897; (ital.) Sul limitare, 1ª ed., Palermo 1889; Fior da fiore, la ed., ivi 1901.
Cfr. la scelta di poesie e prose curata da Maria, Limpido rivo, Bologna 1912, e quella di Poesie, a cura di L. Pietrobono, ivi 1918. Interessante l’Albo pascoliano, canti di G. P., acqueforti di V. Viganò, ivi 1911.

Bibl.: Cfr. il Saggio di bibl., a cura di A. Valli Picardi, e gli Spogli di bibliografia biografica e critica (posteriore al 1912), a cura di G. Briganti e M. Ferrara, in Studi pascoliani, Bologna 1927, 1929, 1933; Marzocco, numero del 14 aprile 1912 (XVIII), dedicato al P.; Ronda, I (1919), II (1920; importante Discussione sul P.); L’Eroica, fasc. 3-4, aprile-maggio 1913; G. D’Annunzio, Contemplazione della morte, Milano 1912; G. L. Passerini, Vocabolario pascoliano, Firenze 1915; L. M. Cappelli, Dizionarietto pascoliano, Livorno 1916.
Per la vita, soprattutto: A. Della Torre, in Rass. bibl. d. lett. ital., XX (1912) e passim; D. Bulferetti, G. P., Milano-Lodi 1914; A.G. Bianchi, G. P. nei ricordi di un amico, Milano 1922. – Sul poeta, essenziali o più recenti: B. Croce, G. P., Bari 1920 (raccoglie tutti gli scritti del Croce sul P.); R. Serra, Scritti critici, Firenze 1910; E. Cecchi, La poesia di G. P., Napoli 1912; G. A. Borgese, La vita e il libro, 3ª s., Torino 1912; F. Morabito, Il misticismo di G. P., Milano 1920; A. Galletti, La poesia e l’arte di G. P., 2ª ed., Bologna [1924]; A. Meozzi, La vita e la meditazione di G. P., Firenze 1924; A. Valentin, G. P. Les thèmes de son inspiration, Parigi 1925; E. Turolla, G. P. (profilo), Roma 1926; id., La tragedia del mondo nella poesia civile di G. P., Bologna [1926]; N. Benedetti, La formazione della poesia pascoliana, Firenze 1934; B. Giuliano, La poesia di G. P., Bologna 1934.
Sul poeta latino: A. Gandiglio, G. P. poeta latino, Napoli-Genova 1924; J.J. Hartman, De latijnsche poëzie van G. P., Leida 1919 (trad. it., Bologna 1920); G. Fusai, Gius. Procacci e i suoi studi pascoliani, Benevento 1923 (contiene notevoli studî del Procacci, prima pubbl. sparsamente); A. Mocchino, L’arte di P. nei carmi latini, Firenze 1924. – Sul P. dantista: E. G. Parodi, in Bull. d. Soc. dantesca ital., n. s., XXIII (1916), p. 164 segg.; L. Valli, L’allegoria di Dante secondo G.P., Bologna 1922; id., Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, ivi 1922. – Sui rapporti tra la poesia del P. e quella di altri poeti: L. Vischi e A. Gandiglio, in Critica, XI, e cfr. anche i voll. IX, XIX e XX della rivista; in particolare sulle fonti del Poemi conviviali, L. Siciliani, in Atene e Roma, 1906 (poi in Studi e saggi, Milano 1913, volume che contiene anche un saggio su La lirica o delle Odi e degli Inni di G. P., importante per la metrica del P.); E. Zilliacus, G. P. et l’antiquité, Helsingfors 1909 (trad. ital., con aggiunte di A. Gandiglio e L. Vischi, Pratola Peligna 1912).

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