Scrittore (Catania 1840 – ivi 1922). Autore di novelle e romanzi, il cui stile e linguaggio hanno rinnovato profondamente la narrativa italiana, V. è considerato il più autorevole esponente del verismo. Raggiunse la notorietà con alcuni romanzi, Eva e Tigre reale (1873) e novelle (Nedda, 1874), nei quali espresse la sua predilezione per temi legati a diversi ambienti sociali e per il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. Tra il 1878 e il 1881 elaborò un progetto innovatore rispetto alle esperienze precedenti, quello di trasferire nei romanzi l’attenta osservazione del mondo circostante, ponendo l’accento sui desideri degli uomini e sul loro modo di parlare. Ne I Malavoglia (1881) V. perfezionò una tecnica narrativa caratterizzata dall’uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi, le loro parole semplici e la loro grammatica elementare. In Mastro don Gesualdo (1889) rispetto allo stile corale de I Malavoglia, V. raffigurò con distacco luoghi e paesaggi lividi e desolati, specchio della miseria umana che i personaggi del romanzo rappresentano.
VITA E OPERE
Di famiglia borghese ma che vantava antiche tradizioni nobiliari, fu allievo di un poeta di gusto romantico, A. Abate, e ne subì l’influsso nei suoi primi romanzi: Amore e patria(1857), rimasto inedito, e I Carbonari della montagna (4 voll., 1861-62), racconto storico sul periodo murattiano; ma già tra il 1862 e il 1863 pubblicava nel giornale fiorentino La nuova Europa un romanzo d’argomento contemporaneo: Sulle lagune. Si era iscritto (1858) alla facoltà di giurisprudenza di Catania, ma non proseguì gli studi. Dal 1860 al 1864 fece parte della guardia nazionale. Dopo un primo viaggio a Firenze (1865), nel 1866, con Una peccatrice, cominciò la serie dei romanzi passionali, che comprende Storia di una capinera(1871), Eva, Tigre reale, Eros (1875): la prima maniera di V., languidamente sentimentale nella Storia di una capinera, enfaticamente romantica negli altri racconti. Del 1876 è la prima raccolta di novelle (Primavera e altri racconti). Lo scrittore si era intanto stabilito a Firenze (1869-71), poi (1872) a Milano, dove prevalentemente visse fino al 1893. Nel 1869 aveva conosciuto a Firenze Giselda Foianesi che poco dopo (1872) sposò M. Rapisardi, ma ebbe in seguito un’intensa relazione con Verga. Il lungo soggiorno milanese diede a V. una maggiore esperienza dei problemi artistici e della vita italiana: il tardo romanticismo, la Scapigliatura, la crisi della società risorgimentale, le suggestioni degli ambienti mondani. Di qui il fondo letterario della sua prima maniera, e quell’infatuazione cupa e passionale che è insieme reminiscenza libresca e irrisolto residuo autobiografico. Preannunci del V. maggiore, poeta della realtà aspra che si deve affrontare con forza e con buon senso, sono nell’Erminia di Tigre reale, e soprattutto nella protagonista di Eva. Ma il deciso inizio della seconda maniera, se si esclude la novella Nedda, che ha sì per protagonista una povera contadina siciliana ma ha anche, per lo più, l’intonazione di una “pietosa istoria” raccontata da un borghese di buon cuore, è segnato dalle novelle di Vita dei campi (1880): un verismo asciutto, rapido, animato da sentimenti autentici e da vivo amore per il paese natio, eppure talvolta irrigidito da un presupposto sistematico in specie nell’eccessiva carica dialettale dello stile; ma sono qui alcune delle pagine più valide di V.: Fantasticheria e L’amante di Gramigna. Il motivo essenziale di Vita dei campi è la rappresentazione d’una umanità primitiva e istintiva: troppo ischeletrita in Cavalleria rusticana, e talora abbassata a osservazione caratteristica e folcloristica; meglio riuscita ne La Lupa, anche meglio in Ieli il pastore e soprattutto in Rosso Malpelo, che dà un’impressione lirica fondamentale di “leggenda popolare”. Qualche volta le pagine di queste novelle, come poi quelle culminanti dei due maggiori romanzi, si alzano a un canto desolato, che è come l’interpretazione lirica che V. fa del pathos dei derelitti, ed è la sublimazione lirica del verismo. Con I Malavoglia V. dà inizio a un ciclo narrativo, I vinti (inizialm. intitolato La marea), articolato in cinque romanzi: oltre I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso, e dunque la storia di cinque sfortunate ambizioni, da quelle della povera gente in cerca dei mezzi materiali per sostenersi a quelle del raffinato aristocratico (ma nella composizione del ciclo V. non andò oltre il primo capitolo del terzo romanzo, che fu pubbl. post. da F. De Roberto, 1922). I Malavoglia ritraggono la storia d’una poverissima famiglia di pescatori siciliani e la triste sorte di quello d’essi che ha tentato di sottrarsi all’umile e faticoso lavoro: il giovane ‘Ntoni. La forza poetica del romanzo sta nell’amara rassegnazione dei “vinti” dinanzi all’accanirsi del destino. La rassegnazione è dolorosissima ma nei cuori oppressi dall’angoscia splende il senso di una legge primitiva e insopprimibile: l’attaccamento alla famiglia e all’onestà tradizionale.
I Malavoglia sono un poema più che un romanzo; in esso il linguaggio di V. rifugge dalla ben architettata composizione romanzesca, e trova la via della poesia in un ricco fluire d’immagini, di dialoghi spezzati e scabri, di toni di colore ora un po’ stanchi, ora fortemente messi a contrasto.
Subito dopo I Malavoglia V. pubblicò (1882) Il marito di Elena, che nasce dalla stessa filosofia della vita de I Malavoglia, ma preannuncia alcune psicologie femminili e la vena pittoresca del Mastro don Gesualdo; poi le Novelle rusticane (1883; ed. defin. 1920), dove, in racconti non di rado un po’ secchi o slegati, si continuano o si preannunciano motivi dei due romanzi maggiori; quindi Per le vie (1883), novelle dov’è ritratta, con la solita asciuttezza di tono e rapidità di ritmo, la vita dei bassifondi milanesi e nelle quali, come in una raccolta posteriore, Don Candeloro e C.i (1894), V. abbandona il regionalismo nativo per rientrare negli ambienti caratteristici del realismo straniero, rappresentando con ironica amarezza bozzetti di vita teatrale o piccolo-borghese. Stanno di mezzo fra quel regionalismo e questo realismo le novelle di Vagabondaggio (1887), mentre su un registro di più ironica rappresentazione si collocano I ricordi del capitano d’Arce (1891). Ma certo l’opera di maggiore impegno di quegli anni, come testimonia la sua lunga elaborazione (tre stesure: 1884, 1888, 1889), è il romanzo Mastro don Gesualdo, ove il verismo appare più felicemente risolto nell’indagine di un ambiente paesano da parte di un artista che vivamente vi partecipa e quasi s’immedesima coi personaggi maggiori e minori. Protagonista è un muratore siciliano, Gesualdo Motta, arricchito in mezzo ad avversità d’ogni sorta, circondato dalla malignità e dall’invidia dei rivali e dei beneficati, amareggiato anche dalla lontananza spirituale della moglie (Bianca Trao, di nascita troppo superiore alla sua) e infine dall’indifferenza della figlia. Sconfitto, egli muore dopo lunghe sofferenze, quasi abbandonato, nel palazzo dove la figlia e il genero scialacquano le ricchezze che egli ha guadagnato. Negli anni che corrono fra il 1881 e il 1889 V. ha conquistato una tecnica più potente, un fare più complesso, più sensibile, che si manifesta nella preparazione discreta e pietosa di alcuni episodi, nella costruzione dei capitoli. Di particolare vivezza anche il paesaggio, ove il protagonista porta tutta la sua sofferta inquietudine: paesaggio dei campi e della cittadina siciliana, popolata da tipi umani diversissimi. Il linguaggio è diventato a volte più sfumato, a volte più efficace ed energico che nei Malavoglia, ma a questa maggiore ricchezza di attitudini è venuta meno l’armonia che teneva insieme I Malavoglia, libro meno ricco ma più coerente. A completare l’esperienza letteraria di V. venne a inserirsi a un certo momento nell’attività narrativa una interessante produzione teatrale (sovente ispirata, nell’argomento, a trame di racconti dello stesso autore), che introducendo sulle scene un linguaggio scarno ed essenziale contribuì a combattere i residui sentimentali del teatro borghese del tempo: Cavalleria rusticana (1884); In portineria (1885); La Lupa (1896); La caccia al lupo (1902); La caccia alla volpe (1902); Dal tuo al mio (1903); Rose caduche (composta tra il 1873 e il 1875; pubbl. post., 1928). Anche nel teatro l’ispirazione più alta si attua nel vigoroso racconto di una dolente umanità, specialmente nell’opera più valida, Dal tuo al mio, che ha il suo centro poetico unitario nell’amara rappresentazione del crollo di tutto un passato dinanzi alle leggi brutali della vita moderna (dal dramma V. trarrà nel 1906 il romanzo omonimo). Tornato a Catania, V. visse in uno scontroso riserbo, dedicandosi, negli ultimi anni, all’amministrazione dei suoi beni; solo nel 1919 fu riconosciuto dalla più autorevole critica (L. Russo) il valore della sua opera. Due anni prima della morte gli giunse la nomina a senatore (1920). Del suo abbondante epistolario, oltre alle Lettere al suo traduttore (a cura di F. Chiappelli, 1980), indirizzate a É. Rod, andrà almeno ricordato il Carteggio con L. Capuana (a cura di G. Raya, 1984). Diverse le edd. complessive delle Opere e numerosi i commenti a opere singole; fondamentale l’ed. crit. del Mastro-don Gesualdo (a cura di C. Riccardi, 1979). Postuma (1980) è stata pubblicata la commedia giovanile
I nuovi tartufi. Dal 1987 ha preso avvio la pubblicazione dell’edizione nazionale delle opere di V., prevista in 22 volumi.