Fonte: Enciclopedia Treccani
VITA (Milano 7 marzo 1785 – ivi 22 maggio 1873)
Nato dall’infelice matrimonio di Giulia Beccaria, la figlia di Cesare, con un gentiluomo di lei molto più anziano, il conte Pietro M. (o, come voleva una diffusa diceria, dalla relazione adulterina della madre con il minore e meno noto dei fratelli Verri, Giovanni), per il disaccordo dei coniugi, che finirono con il separarsi, e il disinteresse della madre, fu educato nel collegio dei somaschi, a Merate e a Lugano, e in quello dei barnabiti al Longone di Milano: educazione ed educatori che egli più tardi giudicò severamente. Lo stesso nonno materno, verso il quale dovevano naturalmente volgersi l’ammirato orgoglio e l’emulazione dell’adolescente, gli offriva un modello di grande cultura, di impegno civile e di rigore intellettuale, ma non di austerità e di forza morale; né certo migliore era l’esempio che poteva venirgli dall’ambiente aristocratico. L’energico imperativo morale che informa anche le sue prime precoci prove poetiche, è il segno quindi di una tendenza costitutiva della personalità manzoniana, oltre che dell’influsso su di essa esercitato dalla migliore cultura del tempo, che in letteratura inclinava alla magniloquenza dell’epica imperiale e alla satira dei costumi, ma recava traccia della recente disillusione di cui erano ambasciatori gli esuli napoletani (con V. Cuoco e F. Lomonaco M. fu in relazione).
La produzione poetica giovanile di M., nella quale spiccano il poema Il trionfo della libertà(1801), composto per la pace di Lunéville e la ricostituzione della Repubblica Cisalpina, l’idillio Adda (1803), i quattro Sermoni (1802-04), risente della lezione di grande decoro formale e appassionato impegno politico e civile di G. Parini e di V. Monti, da lui conosciuto personalmente, nonché delle letture di Virgilio, di Orazio e di Dante; e si situa sullo sfondo di un razionalismo di tempra ancora settecentesca e di un generico deismo. Ma nel 1805, allorché M. raggiunse la madre a Parigi, in occasione della morte di C. Imbonati, con il quale Giulia aveva a lungo convissuto, nella vita dello scrittore si verificò un fatto importante, che fu celebrato dal carme In morte di C. Imbonati (1806). M. pervenne insieme a una specie di scoperta dell’amor filiale e a una più matura definizione dei suoi propositi. Il “nuovo intatto sentier” che il poeta aveva già deliberato di battere viene individuato nella centralità di una severità morale che non si contenta della denuncia di un ceto o di un costume, ma investe la sfera mondana nel suo insieme, a prescindere dai regimi politici e dagli orientamenti ideali dominanti, e il suo porre “sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo”; e nell’assunzione, ben oltre ogni mero atteggiamento letterario, delle responsabilità comportate in termini di condotta personale e impegno intellettuale da questa presa di posizione. Dalla madre M. non si sarebbe mai più separato, sì che Giulia costituì poi, finché visse, il centro della sua vita familiare.
La dimora a Parigi (1805-10) permise a M. di frequentare attivamente gli ambienti intellettuali che costituivano il crogiolo della più avanzata ricerca filosofica e letteraria dell’Europa di allora. Specie alla “Maisonnette” di Meulan, presso la vedova del Condorcet, che conviveva con C. Fauriel, poté assistere da vicino alla più importante delle trasformazioni in atto, a quella riflessione del razionalismo illuminista sui proprî risvolti materiali e psicologici alla quale legarono il loro nome i cosiddetti idéologues (oltre al Fauriel, con il quale M. strinse allora una appassionata duratura amicizia, P. Cabanis e A. Destutt de Tracy). Così, quando, all’indomani della pubblicazione (1809) del suo poemetto neoclassico Urania, egli scrisse che non avrebbe più fatto versi simili, dei quali era assai malcontento “soprattutto per la loro assoluta mancanza d’interesse”, manifestava probabilmente una nuova sensibilità per uno almeno dei fondamenti della poetica romantica, secondo il quale la poesia non avrebbe dovuto essere destinata a una élite di raffinati, ma suo compito sarebbe stato piuttosto quello di “interessare” i lettori, facendosi interprete delle loro idee e sentimenti e solo in questo modo assecondando la propria vocazione universale. Contemporanea a questa prima attenzione alle posizioni romantiche è la cosiddetta conversione al cattolicesimo, che il ritorno ai sacramenti suggellò nel 1810, poco dopo dunque la sconfessione di Urania. L’una e l’altra non sono anzi che aspetti d’un medesimo profondo rivolgimento intimo. Sui modi nei quali precisamente si attuò la conversione religiosa, siamo assai male informati, soprattutto per il geloso riserbo di M.: indubitabile, data anche la sua indole, che essa sia stata il risultato di lunghe, severe meditazioni, e che non si sia in nessun modo risolta nella conquista di un pacifico approdo, comportando al contrario una ulteriore accentuazione dell’inquietudine e del problematicismo dello scrittore; ma ignoriamo se ci sia stato un punto preciso di risoluzione della crisi, dai gravi riflessi nevrotici della quale peraltro M. non si sarebbe mai del tutto liberato. Rimane dubbio il racconto di alcuni amici, secondo cui una folgorazione di fede sarebbe avvenuta (aprile 1810) nella chiesa di S. Rocco a Parigi.
Più sicuro è l’influsso di Enrichetta Blondel, che M. aveva sposato giovanissima nel 1808, per la quale il problema religioso non era filosoficamente eludibile: calvinista, ella sentì imperioso il bisogno di essere istruita circa quella fede cattolica secondo la quale era stata battezzata la prima figlia, Giulia: ascoltò l’abate E. Degola, si convinse, abiurò. L’urgenza di quel problema si impose così in casa M.: Alessandro e la madre non tardarono a ritornare a loro volta al cattolicesimo attivo, assistiti poi a lungo dal canonico L. Tosi. Tale ritorno ebbe senz’altro coloriture giansenistiche, vista la tendenza dello scrittore, che pure sarebbe rimasto sempre nella più stretta ortodossia, a un’interpretazione più severa della religione e soprattutto della morale cattolica. La conversione era d’altronde per lui una necessità logica e sentimentale. Negata la validità perenne e certa della ragione, la vita umana e la storia si palesavano romanticamente, alla ipertesa sensibilità dello scrittore, come un doloroso, miserabile disordine, inspiegabilmente vano. Mentre gli veniva a mancare la base sicura dell’istanza morale, a M. si imponeva la necessità di trasferire nella propria esperienza intima e di testimoniare con i proprî comportamenti l’interpretazione eroica della vita e il confronto quotidiano con la storia di cui quel severo moralismo si nutriva. Con la stessa fede prima riposta nella felicità raggiungibile per mezzo della ragione, in M. il senso romantico dell’incomprensibilità della vita, della sua oscura legge di dolore, si compone subito, senza annullarsi, nella prospettiva provvidenziale di un ordine superiore agli accadimenti e alla loro immediata percezione e di una felicità dopo la morte, sempre all’insegna di una lucida fermezza intellettuale e di un impegno assoluto della persona.
Nel 1810 M. tornò a Milano, donde non si mosse più se non per brevi viaggi (importante quello parigino del 1819, nel corso del quale entrò in contatto con V. Cousin e A. Thierry). Colà e nella villa di Brusuglio, che la madre aveva ereditato da Imbonati, visse ritirato in compagnia della moglie (morta nel 1833; M. sposò poi Teresa Borri vedova Stampa), della madre (morta nel 1841), dei molti figli e di pochi amici (tra i quali C. Porta, T. Grossi, A. Rosmini, che esercitò un notevole influsso sulla definitiva sistemazione delle sue idee estetiche e religiose, N. Tommaseo). Lavorava lentamente: quattro Inni sacri (La Risurrezione, 1812; Il Nome di Maria e Il Natale, 1813; La Passione, 1814-15), ai quali poi aggiunse La Pentecoste (cominciato nel 1817, ripreso nel 1819 e finito nel 1822); due tragedie (Il conte di Carmagnola, 1816-19; Adelchi, 1820-22; di una terza tragedia, Spartaco, non scrisse che uno schema); tre odi politiche (Il proclama di Rimini, 1815, e Marzo 1821, pubblicate solo nel 1848; Il cinque maggio, l’unica poesia che M. abbia scritto di getto, alla notizia della morte di Napoleone, 1821); le Osservazioni sulla morale cattolica (1ª parte, 1819; ripubblicata nel 1855 come opera compiuta; la 2ª parte restò frammentaria); infine il romanzo: la prima redazione, con il titolo Fermo e Lucia, fu scritta dal 1821 al 1823; la seconda redazione, profondamente modificata, con il titolo I promessi sposi, fu pubblicata dal 1825 al 1827 in un’edizione conosciuta come la “ventisettana”. Nel frattempo, la sua fama europea si accresceva (testimonianza della grande stima di J. W. Goethe, ammiratore del M. tragediografo e del romanziere, fu la sua tempestiva traduzione in tedesco del Cinque maggio) e in Italia gli veniva riconosciuto un ruolo di riferimento politico e letterario senza precedenti. Dopo di allora, M. sostanzialmente tacque: attese a lungo alla correzione, specie linguistica, del suo fortunatissimo romanzo, che, prima di apparire nel suo testo definitivo dal 1840 al 1842 (tale edizione fu detta la “quarantana”) insieme con la Storia della colonna infame, fu sottoposto appunto alla proverbiale “risciacquatura in Arno”; e alla stesura di opere storiche (Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, al quale lavorò a più riprese negli ultimi anni, ma rimasto frammentario) e soprattutto linguistiche. Di poesia, non scrisse più, d’importante, che, nel 1835, Il Natale del 1833, cioè il Natale in cui era morta Enrichetta e, forse nel 1847, un nuovo inno, L’Ognissanti: incompiuti l’uno e l’altro componimento. M. morì quasi novantenne, nel 1873, per i postumi di una caduta all’uscita dalla chiesa. G. Verdi compose in suo onore una Messa da requiem, eseguita a un anno dalla sua scomparsa.
M. non partecipò mai direttamente alle polemiche letterarie e alle lotte politiche del suo tempo, pur prendendo posizione con fermezza nell’uno e nell’altro campo. In quello politico, il suo pensiero cattolico-liberale e il suo ideale monarchico e unitario restarono ben saldi per tutta la lunga vita, da quando nel 1814 sottoscrisse la petizione del senato del Regno italico perché all’Italia fosse riconosciuta l’indipendenza, e l’illusione del momento cantò in Aprile 1814, e l’anno dopo plaudì nel Proclama di Rimini al tentativo murattiano di unificazione; sino a quando, senatore, partecipò nel 1861 alla seduta in cui fu proclamato il Regno d’Italia. Nel 1864 il suo ossequio alla Chiesa non gli impedì di votare il trasferimento della capitale a Roma; ancora nell’ultimo anno di vita, nel 1873, riprese alcune pagine del Saggio comparativo e ne fece un’operetta nuova, rimasta anch’essa incompiuta, intitolata Dell’indipendenza dell’Italia. Ma tutta l’opera sua è retta da quel pensiero e ispirata da quel sentimento. Assidua e in coerente svolgimento (attestato dai cosiddetti Materiali estetici) fu altresì la sua meditazione intorno alle questioni letterarie aperte dalla rivoluzione romantica. I novatori del gruppo milanese lo considerarono presto il loro capo, anche se egli non prese parte alla rumorosa lotta che si accese a partire dal 1816. Inedita restò per allora un’ode scherzosa, del 1818, L’ira di Apollo; ma la stringata prefazione al Carmagnola(1820) e subito dopo la risposta a V. Chauvet (Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, finita nel luglio 1820, pubbl. nel 1823), che vanno ben oltre il problema delle unità pseudo-aristoteliche nel teatro, la lettera al marchese C. d’Azeglio Sul Romanticismo (1823, ma pubbl., e senza il consenso dell’autore, solo nel 1846), formulano con estrema nettezza e rigore logico il pensiero manzoniano in questo momento. Respinte, semplicemente come non fondate sul ragionamento, le regole classicistiche e ogni astrattezza teorica che non rispettasse la natura molteplice e complessa del reale e della stessa esperienza estetica, M., anche se non nasconde la sua incertezza circa la definizione del concetto corrispondente, pone il vero come sorgente e oggetto della ricerca letteraria, restituendo quindi una più sostanziale unità all’opera d’arte, che troverà poi una sintetica espressione nella formula “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”. Il poeta delle due tragedie e dei Promessi sposi si riserva il compito di collaborare con lo storiografo, restaurando con la sua fantasia poetica quanto rimane fuori della storia, cioè i riflessi che i grandi avvenimenti e le generali condizioni politiche e sociali hanno avuto sugli individui, sulle anonime folle, che, senza costituire essi stessi storia, possono essere recuperati dalla peculiare verità della letteratura. M. si preparò a tali opere con attentissimi studî, testimoniati, oltre che dalle Notizie storiche premesse alle due tragedie, dall’ampio Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, dai capitoli di storia generale inseriti nei Promessi sposi, e dalla Storia della colonna infame. Già all’indomani della prima edizione del romanzo, M., per approfondire il concetto di “vero”, mise mano al suo discorso Del Romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d’invenzione, che finì e pubblicò solo nel 1845, e tornò sull’argomento, con il conforto del Rosmini, nel dialogo Dell’invenzione (1850). In questi scritti M. giunge a una più netta distinzione fra l’attività dello storico e quella del poeta, negando in definitiva la legittimità dell’invenzione letteraria anche nell’accezione ridotta da lui stesso sperimentata.
L’attività letteraria di M. anteriore alla duplice conversione, lungamente sottovalutata dalla critica, pur conservando il suo carattere giovanile e preparatorio rispetto alla maggiore produzione successiva, contiene in sé elementi di grande interesse, dal dato originario di una personalità inquieta e complessa alla precoce grande padronanza tecnica del versificatore, alla sicurezza dei progetti e già quasi alla predestinazione dell’incontro tra la sete di assolutezza, per esempio attestata dal pindarismo di Urania, e l’energia stilistica dell’imitatore di Dante e di Parini e gli sbocchi istituzionali offerti dal cattolicesimo militante e dal romanticismo. Discende così naturalmente dagli sciolti In morte di C. Imbonati la volontaria mortificazione cui M. sottopone, prima negli Inni sacri e poi nelle tragedie, la propria individualità e gli ideali letterarî a essa connessi, l’una e gli altri sacrificati a una missione di verità che è sì innanzitutto riconoscimento della vanità di ogni sforzo di salvezza individuale e recupero della propria identità di fedele, ma risponde anche all’intuita necessità di un compito sovrumano per l’artista moderno e si concilia comunque con la raffinatissima institutio retorica che nello scrittore avrà sempre il compito di esorcizzare la complessità del reale e la tragedia del vivere, conferendo a ognuna delle sue pagine lo statuto privilegiato di ciò che non è il frutto di un ragionamento individuale, ma appena l’anticipazione sapiente dell'”assenso” collettivo.
Nel quindicennio di maggior fervore creativo (1812-27), M. è preso dall’urgenza di dar voce poetica alle sue nuove credenze religiose. Rievoca quindi negli Inni sacri i grandi eventi del passaggio terreno di Gesù, la loro eterna contemporaneità attraverso i riti della Chiesa, o esalta l’aiuto che agli umili è dato dall’umile e regale Maria, escogitando un linguaggio poetico che si ispira direttamente a quello della Bibbia per restituire alla liturgia freschezza e entusiasmo e dalla poesia profana del Settecento e dal melodramma rileva ritmi fortemente cadenzati e predisposti all’esecuzione corale. Prima di affidare al romanzo l’eredità pariniana e montiana di uno stile tanto più eletto quanto più efficacemente si confronta con la realtà, negli Inni sacri e nella poesia civile di Marzo 1821 e del Cinque maggio, come nei cori “lirici” delle tragedie, M. realizza una poesia in cui il tema è dato, più che dalle Scritture, dalla preveggenza del sentimento religioso o patriottico e viene svolto da un poeta per una volta capace di condividere lo stesso fiducioso abbandono al canto e alle parole del lettore più semplice. Per un altro verso, le tragedie ruotano intorno al dilemma formulato da Adelchi morente: nel mondo “non resta che far torto o patirlo”. Il senato veneto che condanna l’innocente Carmagnola, Carlo che ripudia l’innamorata Ermengarda, Desiderio che prende le armi contro il diritto del pontefice, gli Italiani che combattono contro altri Italiani, gli stranieri invasori dell’Italia: tutti fanno il torto, ma trascinati da una forza che supera la loro stessa volontà, dalla stessa legge ferrea e incomprensibile della vita e della storia. Sicché è “provvida” la sventura che pone tra gli oppressi Ermengarda, discesa dalla progenie degli oppressori; e che con la sconfitta, privandolo del regno, pone Desiderio nell’impossibilità d’essere strumento del male. Lo sforzo dei personaggi prima ancora che del poeta è scorgere nel tumulto della storia, nella vanità d’ogni gloria e d’ogni azione terrena l’intervento onnipresente di Dio, i cui fini, se sono imperscrutabili, non sono perciò meno giusti e sicuri (Cinque maggio); o invocare per tutti, contro ogni tempesta, l’ausilio dello Spirito Santo, che si attua attraverso il magistero soprannaturale della Chiesa (Pentecoste).
È questo il momento del più esplicito impegno romantico manzoniano, che non senza ragione trova la sua più netta espressione nella tragedia e nella forza dei contrasti che informa la prima redazione del romanzo. Nelle ferme pagine della seconda redazione del romanzo, subentra un’ulteriore maturazione della poetica manzoniana, che già non aveva mai mostrato indulgenza verso le posizioni estreme del romanticismo. Nei Promessi sposi, la stessa pietà per gli oppressi è contenuta, dissimulata dal sorriso con cui sono contemplate le loro debolezze ed errori; e se mai domina la dolente rappresentazione della violenza cui soggiace Gertrude, monacata a forza, o quella della miserabile fine di Don Rodrigo. Al delitto anche gli oppressori sono trascinati: quello di Gertrude nasce dalla violenza familiare, che a sua volta dipende dalle convenzioni sociali. La persecuzione di Don Rodrigo è effetto non di passione o di vizio, ma della necessità cui egli non sa sottrarsi di vincere il “punto d’onore”, di conservare cioè il prestigio della sua casata, che appunto per questo è tutta solidale con lui. Mentre però nelle tragedie gli oppressi piegavano sotto il male, rifugiandosi solo nel pensiero e nella speranza di Dio, nei Promessi sposi lottano contro di esso. Non Renzo, la cui ribellione è disordinata e inefficiente perché contenuta tutta nei limiti dell’azione terrena, ma fra Cristoforo e il cardinale Federigo Borromeo, che concretamente e coraggiosamente agiscono in nome della Provvidenza di cui sanno d’essere strumenti, sono i rappresentanti dell’umanità ideale per M.; e l’Innominato, allorché egli piega al servizio del bene la sua energia che la conversione non ha domato; e Lucia, con la forza disarmata ma invincibile della sua innocenza e della sua fede. Se poi l’inutile fede religiosa di Don Abbondio, la viltà che lo porta a diventare strumento dell’ingiustizia, rappresentano il contro-ideale di M., lo scrittore però sa che “il coraggio uno non se lo può dare”; che è solo di pochi purtroppo quella terrena fortezza senza odio che egli, giunto al culmine della sua arte, ci propone come guida e meta della nostra vita. M. riconosce nel romanzo il terreno di uno scontro cruciale tra le ragioni della letteratura, o in ultima istanza della ragione senz’altro, e la casualità della verifica storica, salvo poi rassegnarsi a questa apparente casualità come alla prova da superare cristianamente grazie alla fede. Il suo rifiuto e la sua aperta polemica contro il romanzesco, evocato con tutte le cautele e puntualmente esorcizzato, interpretano bene le resistenze di fondo, innanzitutto linguistiche, di tutta la nostra tradizione al “meraviglioso” moderno e alla sua vocazione popolare; e proietteranno un’ombra tenace su tutti i romanzi posteriori, contribuendo a rafforzare preclusioni e riserve e incoraggiando con il proprio esempio gli sbocchi, atipici in ambito europeo ma caratteristici della nostra tradizione, verso il romanzo-poema e il romanziere-storiografo.
Il Manzoni e la questione della lingua
M., già da giovanissimo, aveva romanticamente lamentato la frattura esistente in Italia tra lingua parlata e lingua letteraria. Non solo per le sue prime poesie, ma anche per gli Inni sacri e le tragedie, si era sostanzialmente valso della lingua poetica offertagli dalla tradizione; ma scrivendo la prosa del romanzo, nel quale per la prima volta in Italia il realismo romantico investe i dominî dell’alta letteratura, gli si pone concretamente il problema della lingua. Partì dall’idea che una lingua letteraria “comune” a tutta l’Italia potesse essere quella costituita dall’incontro tra i varî dialetti italiani, in particolare tra il milanese e il toscano; ma poi piegò sempre più verso la concezione che la lingua comune dovesse essere basata sull’uso, e quest’uso non potesse essere che quello d’una determinata regione, cioè della Toscana; considerando poi che anche nell’interno della Toscana c’erano discrepanze tra l’una e l’altra parlata, finì col sostenere la necessità di adottare il fiorentino parlato (ma quello, per così dire, epurato, delle persone colte) come lingua comune. A questa tesi fiorentina giunse esplicitamente e pubblicamente in una lettera a G. Carena del 1847; quando già, almeno dall’indomani della pubblicazione della prima edizione del suo romanzo, egli si era volto ad approfondire il problema sia correggendo in senso fiorentino i Promessi sposi per l’edizione definitiva, sia lavorando, per tutto il resto della sua vita, a un trattato sulla lingua, che non condusse mai a termine, e del quale ci restano numerosi abbozzi e frammenti (uno di essi fu pubbl. nel 1923 col titolo Sentir messa).
E. Broglio, seguace di M. nelle questioni della lingua, diventato ministro della Pubblica Istruzione, nominò nel 1868 una commissione, presieduta da M., che suggerisse provvedimenti atti “a rendere più universale a tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”. M. scrisse subito una relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), seguita l’anno dopo da un’Appendice, nella quale egli propugnava lucidamente le sue idee e respingeva le obiezioni. Come base della desiderata unità linguistica, la quale era concepita da M. come un essenziale coronamento dell’unità politica, si proponeva la pubblicazione di un vocabolario dell’uso di Firenze, che apparve poi, dal 1870 al 1897, opera dello stesso Broglio e di G. B. Giorgini. La relazione manzoniana e l’inizio della pubblicazione del Novo vocabolario accesero vaste polemiche, pro e contro; autorevolissimo tra gli oppositori di M., in nome di una concezione storica della lingua, per la quale la desiderata unificazione linguistica non poteva non essere che il frutto di lenta maturazione, d’una effettiva unificazione nazionale, fu G. I. Ascoli, nel proemio del suo Archivio glottologico (1873). Ma fu lo stesso Ascoli a dire che la mano di M., che pareva “non aver nervi”, era riuscita “a estirpare dalle lettere italiane… l’antichissimo cancro della retorica”. Ed è appunto questo l’aspetto storicamente positivo della teoria e soprattutto dell’esempio manzoniano: anche se in alcuni dei suoi seguaci la sobrietà, il nitore, l’aggiustatezza verbale senza fronzoli del maestro poterono diventare lezio. Donde la reazione di tanti, nel secondo Ottocento, che desiderarono e attuarono una prosa più sostenuta e quadrata, più “classica”: tra i quali in primo luogo G. Carducci.
Tra le edizioni contemporanee, fondamentale è l’ed. critica, avviata da M. Barbi e diretta da A. Chiari e F. Ghisalberti, di Tutte le opere di Alessandro M., di cui sono apparsi i voll. I-V (1954-91), comprendenti poesie e tragedie, il romanzo nelle sue tre stesure, le opere morali e filosofiche, i saggi storici e politici, gli scritti linguistici e letterarî, e VII (3 tomi, 1970), comprendente le lettere. Di queste s’è avuta un’ed. con integrazioni: Tutte le lettere, a cura di C. Arieti e D. Isella (3 voll., 1986). Per il Carteggio (ma solo fino al 1831) si deve ricorrere all’ed. fornita da G. Sforza e G. Gallavresi (2 voll., 1912-21). Sono disponibili le Concordanze degli Inni sacri, a cura dell’Accademia della Crusca (1967), e le Concordanze dei Promessi sposi, a cura di G. De Rienzo, E. Del Boca, S. Orlando (5 voll., 1985).