Canzone composta tra il 17 e il 20 settembre 1829, praticamente in parallelo al Sabato del villaggio (con cui condivide non pochi elementi di poetica), e quindi pubblicata nei Canti a partire dall’edizione fiorentina del 1831. La Quiete presenta inizialmente un quadro di vita agreste, subito dopo la pace che segue lo scatenarsi e poi l’attenuarsi di un temporale; il ritorno alla normalità coincide con la riflessione filosofica di Leopardi, che, rifacendosi anche alle tesi delo Zibaldone, ragiona sull’illusione dei piaceri e sulla condanna umana al dolore.
Metro: Canzone di strofe libere di endecasillabi e settenari, con frequenti assonanze interne.
Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
L’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana, ch’è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E’ diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D’alcun dolor: beata
Se te d’ogni dolor morte risana.
Note
Passata è la tempesta: è una situazione meteorologico-paesaggistica, di natura autobiografica, ad aprire la Quiete dopo la tempesta: dopo un violento temporale, un piccolo borgo rurale – che riporta alla mente il “natio borgo selvaggio” delle Ricordanze, v. 30 – torna lentamente alla vita e alle normali abitudini, dopo lo scampato pericolo.
augelli: tipico esempio del lessico selezionato della poesia leopardiana che, in accordo con alcune dichiarazioni di poetica dello Zibaldone, rinviene nelle parole arcaiche e desuete uno strumento assai efficace per evocare sensazioni poetiche, connesse in questo caso con la teoria del piacere e delle illusioni.
Ecco il sereno: l’idillio leopardiano, che occupa tutta la prima strofe, è attentamente studiato; dopo il quadro dei primi versi (che descrivono gli attimi successivi alla “tempesta”), qui l’eruzione del cielo sereno dal crinale della montagna (v. 5) è qualcosa di improvviso, come indicato dall’avverbio (“ecco”) e dall’enjambement tra i vv. 4-5.
chiaro: l’aggettivazione mette a fuoco l’importanza della luce in questo passo, che risplende e si riflette anche nelle acque del fiume a valle; dato che il contesto è autobiografico, si può immaginare che il corso d’acqua sia il Potenza, che scorre appunto tra Macerata e Recanati.
il lavoro usato: la dimensione del lavoro umile e quotidiano, come attività che rallegra il cuore dell’uomo e lo tiene lontano dalle angosce e dalle paure, è presente anche nel Sabato del villaggio (vv. 31-37). Anche l’aspetto fonico fa la sua parte, con una serie di echi in particolare del fonema – r – che arricchiscono la musicalità dei versi.
umido: in quanto fresco di pioggia appena caduta.
La strofe si chiude sempre su una nota musicale: il “tintinnio” dei sonagli, percepito da lontano, si somma allo stridere delle ruote del carro.
Le interrogative retoriche che aprono la terza strofe indicano il passaggio dalla descrizione paesaggistica (che funge quindi da exemplum) alla riflessione filosofica, venata di pessimismo, della filosofia leopardiana e dell’intrinseco legame tra dolore e piacere per i comuni mortali.
Piacer figlio d’affanno: è una tesi tipicamente leopardiana, che viene svolta soprattutto nelle pagine dello Zibaldone; qui, in alcune pagine dell’agosto 1822, il poeta spiega con lucidità: “Le convulsioni degli elementi e altri tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile […] si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perché più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza essi mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia […]”.
chi la vita aborria: il piacere che coglie ciascuno di noi quando scampiamo un pericolo è tale per Leopardi da cogliere anche chi, conscio del dolore che nasconde l’esistenza, desidera la morte per liberarsi dal dolore. Si tratta insomma di una pura illusione, ma che riesce ad apportare un piacere momentaneo.
fredde, tacite, smorte: la climax degli aggettivi fotografa bene l’impotenza umana di fronte agli eventi naturali devastanti, con un accento che tornerà ne La ginestra in merito all’eruzione del Vesuvio.
natura cortese: l’aggettivazione è ovviamente sarcastica: la “natura” concede ai suoi figli solo questo tipo di “doni” (v. 43), ovvero la morte come soluzione per “uscir di pena” (v. 45). Nello ZIbaldonesi conferma: “L’uomo non può molto godere, non solo perché pochi e piccoli sono i piaceri, ma anche rispetto a se stesso, perché egli è molto limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga le sue capacità”.
mostro: dal latino monstrum, -i, con sfumatura etimologica, “prodigio”, “cosa inaudita”. Il piacere è insomma qualcosa che ci giunge solo per eccezionale e fortuita contingenza del caso.
eterni: l’appello agli dei (e la chiusura di tutta la Quiete) suona sprezzantemente sarcastico soprattutto nei confronti di chi si illude che il genere umano sia discendenza diretta degli dei e che il cosmo sia costruito per dare all’uomo una vita felice. Sono temi che saranno poi sviluppati dalla Ginestra.
Parafrasi
- È finita la tempesta:
- sento gli uccellini cinguettare, e la gallina,
- ritornata sulla strada [dopo il diluvio]
- che ripete continuamente il suo verso. Ecco
- all’improvviso laggiù si apre da occidente il sereno,
- in direzione delle montagne: si sgombra
- la campagna [dalle ombre], e nella valle il fiume
- risplende limpido. Ogni essere umano
- si conforta, in ogni angolo si sente di nuovo
- un rumore di vita, e torna il lavoro quotidiano.
- L’artigiano, osservando il cielo dopo il diluvio,
- con gli attrezzi di lavoro in mano, cantando,
- si affaccia sull’ingresso; la fanciulletta esce
- di casa in un tentativo di raccogliere
- l’acqua appena caduta;
- e l’erbivendolo ripete, da un sentiero
- all’altro, il suo grido,
- che ripete sempre ogni giorno.
- Ecco ritorna a splendere il sole, eccolo sorridere
- per colline e case di campagna. La servitù
- spalanca balconi, finestre e logge: e,
- dalla strada maestra, si sente un tintinnio
- lontano di sonagli; il carro del visitatore
- stride, mentre riprende il suo viaggio.
- Ogni cuore torna a sprizzar felicità.
- Quando la vita è dolce e lieta
- come in questi momenti?
- Quando un uomo segue il suo lavoro
- con tanta amorevole dedizione? O quando
- torna alle sue fatiche, o quando ne inizia
- di nuove? Quando egli si ricorda meno delle sue afflizioni?
- Il piacere è figlio della sofferenza;
- [è] una gioia effimera ed illusoria, che è frutto
- della paura che si è provata, per la quale
- ebbe un sussulto e temette di morire
- anche chi disprezza la vita;
- e per cui le genti umane, agghiacciate,
- ammutolite e pallide di morte
- sudarono e palpitarono
- osservando fulmini, nuvole e vento mossi
- per colpirci tutti.
- O natura gentile,
- questi sono i tuoi doni,
- questi sono i piaceri
- che offri agli uomini. Per noi, è un diletto
- l’uscita dalla pena.
- Tu spargi dolore in abbondanza; il dolore
- è uno stato naturale ed è invece gran guadagno
- di piacere ciò che talora nasce, per prodigio
- o per miracolo, tra le nostre sofferenze.
- O stirpe umana cara agli dei immortali! Assai
- felice [sei] se ti è lecito aver sollievo
- da ogni sofferenza; beata [sei] se la morte
- ti purifica da ogni dolore.
Se i Canti leopardiani del 1828-1830 sanciscono, dopo la prima esperienza degli “idilli” e la fondamentale parentesi delle Operette morali, il ritorno dell’autore alla parola poetica, anche la Quiete dopo la tempesta (pur con sue caratteristiche particolari) si inserisce in questa nuova stagione poetica. La dimensione memoriale, forse favorita anche dal felice soggiorno pisano tra 1827 e 1828, caratterizza questa fase, come significativamente indica A Silvia dell’aprile 1828; a ciò s’aggiunge – a segno della maturità della poesia leopardiana – una nuova, più consapevole ed amara, visione del mondo. La fase delle Operette, con pietre miliari quali il Dialogo della Natura e di un Islandese o quello tra Plotino e Porfirio – è stata infatti funzionale ad acquisire la certezza che le passioni dell’uomo sono intrinsecamente ingannevoli, non altro che vaghe illusione che mascherano quell’arida realtà del mondo da accettare con lucida e pessimistica razionalità, pur nella loro indiscutibile “utilità” per la nostra vita di ogni giorno (come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia saprà sintetizzare in modo magistrale).
In tal senso, spicca in tutti i Canti la consapevolezza del fuggire del tempo (e con lui, delle illusioni e delle possibilità di felicità dell’età giovanile) e del flusso ininterrotto delle cose, che rendono il ricordo del tempo passato solo un’ulteriore ferita “acerba”, come sintetizzano gli ultimi versi (vv. 168-173) de Le ricordanze:
[…] Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.
Come in precedenza, l’autobiografismo della poesia di Leopardi è sempre un punto di partenza, su cui opera la stilizzazione letteraria(ovvero la trasposizione del proprio “io” secondo un modello di poetica e stile) e, in questa fase, il nuovo orizzonte ideologico dell’autore. Le figure della memoria personale (la Silvia del componimento omonimo, la Nerina citata nelle Ricordanze, le scene campestri della Quiete o del Sabato del villaggio o la “torre antica” recanatese che fa da scenografia all’incipit del Passero solitario) non sono più motivi di aristocratica (e titanica) protesta contro la natura, ma si aprono a due atteggiamenti tipici del poeta-filosofo, che caratterizzano anche la Quiete dopo la tempesta: la compassione per sé o per chi sa di aver ormai perduto le illusioni di gioventù (affiancata dalla malinconica consapevolezzadell’immutabilità del proprio destino) e, tra le righe, il sarcasmo (o, in altre occasioni, una più velata ironia amara) verso chi ancora si intestardisce a sostenere la battaglia della “magnifiche sorti e progressive”, per citare un passo celebre della futura Ginestra (v. 51).
Poetica e temi della Quiete dopo la tempesta
La quiete dopo la tempesta si colloca allora, anche cronologicamente, ad uno snodo fondamentale della carriera poetica leopardiana; le stesse date di composizione (la terza settimana del settembre 1829) lo avvicina moltissimo al Sabato del villaggio, steso negli ultimi giorni di quel mese. L’altro importante rimando è tuttavia lo Zibaldone, e in particolare quei passi, datati attorno all’agosto 1822, in cui Leopardi riflette sulla cosiddetta “teoria del piacere”, stabilendo una precisa correlazione tra la cessazione del dolore e la sensazione di felicità, aggiungendo il corollario per cui un’esistenza (impossibile…) di soli piaceri e senza sofferenza sarebbe comunque una condanna, in quanto si tradurrebbe ben presto in infelicità, e cioè in “noia”. La forma della canzone libera, che qui alterna liberamente endecasillabi e settenari, si presta assai bene – come in tutti i “grandi idilli” – a coniugare confessione personale, ricordo autobiografico e riflessione sulle verità universali.
La prima strofe: il paesaggio
Questo passaggio dialettico è costante, e si articola nella progressione delle tre strofe del testo. La prima presenta il quadro, la scenografia dai toni idillici (uno scorcio di campagna che ritorna alla vita e al “sereno”, v. 4, dopo l’imperversare di un temporale) che è trasparente metafora di un’età gioiosa della vita, o della felicità di chi, come “l’artigiano” del v. 11 o “l’erbaiuol” deil v. 16, può dedicarsi alle proprie attività incurante dell’angoscia di esistere, o del fuggire delle illusioni. Sono versi che – lungi dal costituire un semplice e gratuito “quadretto” o “bozzetto” di piacevole contemplazione – sono funzionali ad unire tre dimension importantissime per comprendere il sistema poetico di Leopardi: la “riflessione”, il “sentimento” e l’“immaginazione” 2. L’effetto di piacevolezza e di serenità si traduce anche sul piano formale: la coordinazione dei periodi, prevalentemente per asindeto, trasmette un’impressione di vitalità, sostenuta dal ritmo di settenari ed endecasillabi e dalla rete di rime(“montagna – campagna”, vv. 5-6; “lato – usato”, vv. 8-10; “sentiero-giornaliero”, vv. 17-18; “famiglia – ripiglia”, vv. 21-24), rime interne(“Passata – tornata”, vv. 1-3) o assonanze e rimandi sonori. Lo scenario si compone così sia di sensazioni visive (il “sereno” che “rompe da ponente”, la luce del sole che irradia la valle e fa splendere le acque del “fiume”, le case di campagna che s’aprono al ritorno del bel tempo ai vv. 19-22) e musicali-uditive, particolarmente evidenti in chiusura di strofe, con il “tintinnio di sonagli” del carretto del viandante (i vv. 21-24 insistono così sui suoni della – r – e del nesso – gl – , come in “terrazzi”, “famiglia”, “corrente”, “sonagli”, “carro”, “stride”, “ripiglia”).
Seconda strofe: la riflessione
La seconda strofe, che si apre su un verso costituito da una singola frase di constatazione della felicità altrui (“Si rallegra ogni core”, v. 25), ha da subito un ritmo più lento, che si adatta alla pausa interrogativa della voce poetica e corrisponde al passaggio tra osservazione e riflessione, e all’emersione del rapporto necessario – tipico della Quiete – tra sofferenza e piacere. Le domande retoriche, scandite dalla figura retorica del parallelismo, culminano in una sorta di “massima filosofica” (“Piacer figlio d’affanno”, v. 32) che sintetizza pienamente la visione del mondo del poeta, mentre gli ultimi versi (vv. 34-41) presentano una visione naturale catastrofica, nettamente all’opposto rispetto a quella pacifica e felice di apertura.
Terza strofe: le conclusioni
Dopo il paesaggio agreste e la riflessione sull’”affanno” dell’uomo, la terza strofe chiude il ragionamento leopardiano in chiave cupa e sarcastica: la Natura non è affatto benigna (“cortese”, v. 42) nei confronti dell’uomo, tanto che, in un’altra frase manifesto della Quiete, “uscir di pena è diletto fra noi” (vv. 45-46) e l’unica occasione di piacere è un dono assolutamente inaspettato e casuale (“mostro” o “miracolo”) per tutti noi. E la nota finale, contro la supposizione che l’umanità sia “cara agli eterni” (v. 51), apre già la strada al Ciclo di Aspasia (con, ad esempio, la tragica e disillusa impassibilità di A se stesso) e, più in là, alla pietas per i destini umani e il proposito di mutua solidarietà della Ginestra.
Bibliografia:
– G. Leopardi, Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1993.
– E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990.