Con A Silvia si apre una nuova stagione poetica per Leopardi, quella dei canti pisano-recanatesi, dove la lirica raggiunge alcune delle sue vette più alte. Questa nuova fase si distingue per alcune caratteristiche peculiari che la critica ha ormai ben evidenziato: il tema della rimembranza da cui si sviluppano considerazioni più generali sulla sorte delle “umane genti” e sulla Natura; un io poetico compassionevole che sottintende non più soltanto se stesso ma l’intero genere umano; l’elevazione di Recanati a paesaggio della memoria in quanto esso viene ripensato da Pisa, città dove Leopardi si trova al momento della scrittura di questi canti e che fu per lui sede particolarmente gradita per quel suo “misto di cittadino e di villereccio”, come scrive in una lettera alla sorella Paolina.
Importa qui considerare come l’ampliamento e l’approfondimento di tematiche già presenti negli idilli abbia importanti ricadute sull’aspetto stilistico, metrico e letterario dei nuovi canti. È anzitutto interessante osservare che questa stagione poetica si avvia ufficialmente con Il Risorgimento, canzonetta intrisa di richiami settecenteschi(metastasiani in particolare) in cui però, dentro la precisa misura metrica del componimento e con scelte sintattico-lessicali che risultano quasi un omaggio a certo Settecento maggiore, si respirano bene le nuove atmosfere che ritroveremo nei canti successivi: il desiderio di vivere e amare, il bisogno di lottare contro la morte che pure si sa essere implacabile e sempre incombente, la necessità di coltivare illusioni anche quando si è consapevoli della loro intrinseca caducità. In A Silvia questi temi trovano una loro perfetta traduzione in un linguaggio poetico rinnovato, fresco, originale. Con questo canto assistiamo per la prima volta a uno svincolamento, come osserva Luigi Blasucci, “da ogni etichetta di genere (canzone, idillio, inno, epistola, canzonetta)” e a un approdo alla lirica in senso assoluto. Se, infatti la forma-canzone in A Silvia sopravvive, è vero che essa viene depurata da qualsiasi vincolo e prescrizione. Diventa insomma una canzone libera, in cui può variare il numero delle strofe, lo schema di rime, in cui la sintassi può, nei vari momenti, cambiare passo e aspetto. Sembra che l’io poetico abbracciando temi più universali abbia avvertito il bisogno di enunciarli senza restrizioni di sorta, cercando di raggiungere quell’idea di poesia come “espressione libera e schietta” (Zibaldone, 4234) che necessita di una libertà che pure, evidentemente, non ha nulla di arbitrario.
A Silvia si sviluppa in strofe di differente misura e adotta una libera alternanza di endecasillabi e settenari, così come le rime non rispondono più ad alcuno schema fisso ma si addensano e diradano nei vari momenti del canto. Non per questo il lettore assiste a una scomparsa di musicalità ma, come già notava Mario Fubini, e prima ancora Francesco Flora, ne nascono “ritmi nuovi”. È chiaro, infatti, che all’interno di questa consapevole liberazione da schemi tradizionali, seppure già parzialmente infranti o reinterpretati nelle composizioni precedenti, si possa ritrovare una precisa progettualità e un’originale architettura del testo finalizzate ad ottenere determinati effetti fonici e stilistici. A Silvia è un canto di sei strofe, in cui la prima, la più breve, funge da introduzione; la seconda e la terza, progressivamente più lunghe, sono parallele; la quarta funge da cerniera tra la prima e la seconda parte, e di nuovo la quinta e l’ultima sono parallele. Quanto alle rime: esse sono adoperate per sottolineare amarezza e sconforto, e dunque non le troviamo nei momenti più evocativi e descrittivi del testo poetico. Anche la sintassi risulta semplificata rispetto ai canti precedenti: poche subordinate e procedimenti paratattici; periodi brevi e rari connettivi. Si potrebbero aggiungere, ovviamente, ulteriori osservazioni, ma già queste poche sono sufficienti per comprendere come Leopardi riponga la forza poetica del testo in versi che, semplicemente accostati, si richiamino ed evochino tra loro.
Su questo originale tessuto, che rinnova la concezione tradizionale della canzone, si svolge la vicenda di Silvia, un’adolescente con la sua “ignoranza completa del male” (Zibaldone, 4310-11) su cui troppo in fretta incombe l’ombra della morte. Fotografata proprio sulla soglia tra giovinezza ed età adulta, tra aspettativa e disincanto, tra illusioni e disvelamento del vero, la vicenda individuale e biografica di Teresa Fattorini in breve si trasfigura nell’evocazione dell’inevitabile e cocente disillusione di tutti gli uomini. Il tragico superamento di questa soglia viene reso nella poesia tramite il rapporto di corrispondenza che subito si stabilisce tra Silvia e il poeta (si osservi l’alternanza dei soggetti negli incipit della prima e seconda strofa e della quarta e quinta – con l’esclusione della terza dove i soggetti compaiono entrambi – “Silvia, rimembri ancora | […] Io gli studi leggiadri”, vv. 1-15; “Tu pria che l’erbe inaridisse il verno | […] Anche peria fra poco | la speranza mia dolce”, vv. 40-50). Nell’opposizione di fanciullezza ed età adulta, ripercorse in questa poesia della memoria che si inscena su uno sfondo recanatese, si ritrova una nuova atmosfera lirica, di elegia più che di protesta, di compianto compassionevole più che di accusa, e si rintraccia altresì una posizione ideologica matura, ormai a pieno consapevole dell’inevitabile dolore del vero, della souffrance senza tempo dell’uomo, di una Natura sistematicamente ingrata e deludente.
Bibliografia essenziale:
– W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.
– L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
– F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980.
– G. Contini, Implicazioni leopardiane, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970.