Dell’infanzia e adolescenza dell’A. non sappiamo nulla; ma l’essere stato destinato, fin da fanciullo, al matrimonio, basterebbe ad escludere ch’egli fosse stato chiuso quale novizio nel convento francescano di S. Croce, come qualcuno vorrebbe secondo un’antica tradizione. Non si esclude, invece, che possa aver frequentato le scuole inferiori tenute dai religiosi, come pure non può escludersi che possa essere stato suo maestro quel Romano ” doctor puerorum populi Sancti Martini”, che appare in un documento del 1277.
Ma fin da giovinetto dovette studiare soprattutto da sé; e dovette assai presto apprendere “per sé medesimo l’arte del dire parole per rima” (Vita nova III, 9), se a 18 anni si sentì l’ardire di rivolgersi a “molti… famosi trovatori in quello tempo” col sonetto A ciascun’alma presa (ibid.).
Che avesse appreso l’arte del disegno risulta da un passo della Vita nova (XXXIV, 1); non si sa se anche la musica, sebbene sia certo che se ne intendesse e dilettasse assai, e che fosse amico di musicisti e cantori come Casella (Purg. II) e di artefici di strumenti come Belacqua (Purg. IV).
Il solo maestro di cui l’A. faccia menzione, con espressioni di grande affetto e gratitudine, è Brunetto Latini. Da lui dichiara solennemente d’aver appreso “ad ora ad ora… come l’uom s’eterna” (Inf. XV, vv. 84-85); ma da queste parole, prescindendo dalla controversa questione se il Latini tenne veramente pubblico insegnamento di retorica, si desume soltanto che il vecchio “dittatore”, senza impartirgli un regolare insegnamento, fu largo di occasionali ammaestramenti e incoraggiamenti verso il giovane poeta di cui aveva compreso l’altezza dell’ingegno e l’avidità di sapere e di gloria; e certamente della grande versatilità ed erudizione di Brunetto non poco dovette giovarsi, nella sua formazione, la mente enciclopedica dell’A., una delle più vaste del Medioevo.
Un sonetto (Non mi poriano) in cui è un riferimento alla “Garisenda torre”, trascritto da un notaio bolognese nei suoi memoriali del 1287, fa ragionevolmente supporre che intorno a quell’anno l’A. dovette essere a Bologna; ma ogni altra ipotesi intorno alla durata e alle ragioni del soggiorno è puramente arbitraria. Se realmente vi fu, ivi poté meglio conoscere e apprezzare la nuova lirica iniziata da Guido Guinizelli con la famosa canzone Al cor gentil; e in quel famoso Studio, dove convenivano scolari da ogni parte d’Italia, poté anche balenargli per la prima volta l’idea di un volgare illustre italico – il fiore delle varie parlate regionali -, che svilupperà più tardi nel De vulgari eloquentia. Certo è che gli studi della sua adolescenza dovettero prevalentemente essere orientati verso la poesia; e anche l’ambiente favoriva l’impulso naturale del giovinetto, giacché nella seconda metà del ‘200 in nessun’altra regione d’Italia la lirica era coltivata con tanto amore come in Toscana, e specialmente a Firenze. Ma non soltanto egli dovette cercare i poeti volgari – italiani e provenzali -, ma anche, e con tanto maggiore entusiasmo quanto più alta doveva avvertirne la perfezione artistica e maggiore l’utilità all’acquisto del “bello stilo” che doveva fargli onore, i poeti latini, specie Virgilio. I quattro latini (Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano), che con Omero e l’A. stesso formeranno nel IV canto dell’Inferno la “sesta compagnia” di grandi poeti, sono già riuniti nel cap. XXV della Vita nova in opposizione ai “grossi” rimatori volgari. C’è nell’opera dantesca una continuità di studio devoto della lingua e letteratura latina, che si deve far risalire ai primi corsi di grammatica del giovinetto. E questo debito, che non sarà soltanto di stile e di materia, verso la classicità finirà per isolare l’A. maturo dagli altri poeti della sua giovinezza, rimasti entro la tradizione e le esperienze della poesia contemporanea.
Malgrado le condizioni difficili della sua famiglia e l’esser presto rimasto orfano, l’A. poté, dunque, attendere liberamente agli studi verso cui si sentiva portato. Veramente le sue prime rime sono non più che esercitazioni di un tirocinante: il sonetto su citato, composto a diciotto anni, appartiene alla forma e al gusto delle corrispondenze poetiche, d’uso frequente allora, su questioni d’amore; e una corrispondenza poetica ebbe con Dante da Maiano, anch’essa ricalcata, nei concetti, nello stile, nella lingua, sui modelli della tradizione siculo-toscana; e a questi stessi modelli si riallacciano anche i componimenti inseriti nella Vita nova precedenti le “nuove rime”, specialmente quelli dei primi dodici paragrafi.
E tuttavia qua e là è possibile cogliere un verso, un costrutto, la collocazione di una parola, una movenza, una logica di svolgimento, che fanno presentire lo stile personalissimo dell’Alighieri. Al sonetto A ciascun’alma presa rispose, tra altri, Guido Cavalcanti: “e questo – racconta l’A. con tenerezza e compiacimento – fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato” (Vita nova III, 14). L’influsso esercitato sull’A. dal Cavalcanti, maggiore di lui di circa dieci anni, famoso come poeta e non meno ragguardevole come cittadino (era stato nel 1280, insieme con ser Brunetto, uno dei cittadini delle opposte fazioni firmatari della pace del cardinal Latino), fu certamente notevole, e non solo nei riguardi della poesia, ma anche del pensiero speculativo, e forse anche del costume. Per ciò che riguarda la poesia, sia la maniera più ariosa e leggera delle rime dantesche subentrata alla pesantezza della tradizione siculo-toscana (Guido, i’ vorrei; Per una ghirlandetta; Deh,Violetta), sia l’accento drammatico della rappresentazione di un amore doloroso e pauroso (E’ m’incresce di me; Lo doloroso amor) si richiamano, pur nell’indipendenza della realizzazione artistica, alla doppia ispirazione della poesia cavalcantiana. Quanto al costume, è noto che il Cavalcanti fu, come lo descrisse Dino Compagni, “sdegnoso e solitario e intento allo studio”; e tale – come avviene nelle amicizie tra maggiori e minori di età – egli avrebbe voluto fosse il suo più giovane amico, come attesta indubbiamente il rimprovero “Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi l’annoiosa gente”, ch’egli rivolse all’A. nel noto sonetto I’ vegno il giorno a te, quali che siano esattamente le allusioni specifiche. E forse l’esempio di Guido non si cancellò mai dalla memoria dell’A., quando gli anni, le lotte, le sventure resero anche lui, come il “primo de li suoi amici” (Vita nova III, 14), sdegnoso e solitario e solo intento allo studio, come attestano Giovanni Villani e il Boccaccio.
Ma nel periodo della piena “adolescenza”, che, secondo le sue idee, finiva a venticinque anni, egli non disprezzò affatto gli svaghi e le brigate mondane e i corteggiamenti amorosi, tutto ciò, insomma, che appartiene al costume normale di quell’età: la Vita nova, le Rime e la stessa Commedia ci aiutano a formarci un’idea abbastanza esatta di ciò; e del resto la gaiezza e gentilezza della Firenze di allora, che attiravano forestieri da tutta Italia, dovevano favorire anche nell’A. la socievolezza del costume; e a questo periodo deve probabilmente riferirsi la lode di “usanza lieta e conversazione giovanile” datagli da Leonardo Bruni nella Vita Dantis. Le donne dello “schermo” della Vita nova adombrano certo persone realmente da lui corteggiate, talvolta in modo così imprudente da dar esca al pettegolezzo cittadino. Partecipava a feste e lutti di famiglie amiche, a ritrovi mondani in genere, in città e in campagna; scriveva elegantissime rime di galanteria amorosa, e, tra queste, “una pìstola sotto forma di serventese” (Vita nova VI) in menzione di sessanta belle donne fiorentine, nella quale pose al nono posto Beatrice e al trentesimo quella che avrebbe voluto seco nel vasello del buon incantatore, insieme con gli amici Guido e Lapo Gianni e le loro amate (cfr. il sonetto su cit., Guido, i’ vorrei, v. 10); ed era conosciuto e guar-dato con curiosità e interesse dalle donne per qualche cosa di singolare che c’era in lui. Era esperto di equitazione (nella battaglia di Campaldino sarà tra i “feditori a cavallo”; e cfr. Vita nova IX, 7), ed anche di caccia (Rime LXI), specialmente – parrebbe – di quella col falcone (Inf. XVII, vv. 127-132; XXII, vv. 130-132; e quasi certamente anche Par. I, v. 51).
Le prime due cantiche della Commedia sono piene di echi e memorie di questo periodo della sua vita, che indubbiamente comprovano in lui “l’usanza lieta e conversazione giovanile”, una socievolezza che non disdegnava i contatti con nessun genere di persone, per il desiderio istintivo di “divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore”: e questo spiega e giustifica nel poema l’informazione minuta, di piccola cronaca, su tanti personaggi più o meno sconosciuti del suo tempo, che altrimenti sarebbe rimasta appunto cronaca o, peggio, pettegolezzo. Documento particolarmente notevole di questa scioltezza della sua vita giovanile sono i tre sonetti della tenzone con Forese Donati, cominciata probabilmente come scherzo, secondo certo cattivo gusto del tempo, ma trascesa a velenose offese e calunnie, delle quali l’A. volle fare esplicita ammenda in Purg. XXIII, vv. 85-93 e 115-117. Un riferimento, in uno dei sonetti di risposta di Forese, alla morte di Alaghiero come di fatto – così pare -non molto remoto, consiglia di assegnare alla tenzone una data non molto posteriore al 1283.
In mezzo a un’adesione così piena – senza le aristocratiche schifiltosità di Guido – alle varie forme della vita cittadina, fiorisce nell’intimità del cuore dell’A. l’amore per Beatrice, il fatto spirituale più importante della sua vita, perché intorno ad esso, nella singolare evoluzione ch’ebbe col tempo, si aggirerà, come intorno a fermo polo, il mondo ideale, morale e religioso dantesco. La storia di questo amore, un’esile trama – esteriormente – di pochissimi fatti, e per se stessi insignificanti, è interiormente assai complessa, né in tutto facilmente accessibile alla nostra mentalità: il che spiega i tentativi di interpretazioni varie, intese a renderla in tutto razionalmente coerente. Ma occorre farsi coevi del poeta, e seguire, con la docilità che c’insegnano gli antichi suoi biografi e commentatori della Commedia, il lavorio della sua immaginazione che trasfigura a suo modo la realtà, della sua volontà che trasfigura il sentimento: così, quel che dapprima, in quella sua storia amorosa, sembra irrazionale, apparirà nient’altro che il suo particolare modo di interpretare e rappresentare il mondo esterno e i moti interiori, non disforme dai modi della spiritualità del suo tempo. Il poeta afferma (Vita nova II, 1-2; Purg. XXX, vv. 41-42) d’aver visto per la prima volta a nove anni Beatrice, fanciulla quasi della sua stessa età, e di essere stato immediatamente soggiogato dalla potenza di un amore sovrumano. Il fatto dev’essere sostanzialmente vero; e non deve far difficoltà la precocità di un sentimento così intenso: un sentimento di eccezione in un temperamento di eccezionale ricchezza sentimentale. La fervida immaginazione – egli racconta – spingeva il precoce fanciullo spesse volte a cercare l’amata, e gliela faceva apparire “non figliuola d’uomo mortale, ma di Deo”. A diciotto anni Beatrice per la prima volta lo salutò e gli rivolse la parola: per l’A. fu la perfetta “beatitudine”. Il suo amore non cercava altro che la vista di lei e il suo saluto. Sgomento e tremore nel sentirla vicina; poi, la felicità sembrava superasse le capacità dell’anima: felicità tutta e soltanto spirituale, perché la perfetta bellezza di Beatrice aveva il potere di purificare, chi la guardasse, da ogni vizio, e ispirare ogni virtù. Qualche tempo dopo, per una leggerezza da parte dell’A., Beatrice gli tolse il saluto. Il rapporto amoroso, già così distaccato e immateriale, s’interiorizza del tutto e si sublima: prima, fonte di beatitudine, ora Beatrice diventa oggetto di venerazione: l’A. incomincia le rime della lode.
La morte precoce della giovane donna (8 giugno 1290) compie il suo processo d’idealizzazione nel cuore del Poeta: viva, pareva cosa venuta “di cielo in terra a miracol mostrare”; morta, egli la vede splendente, fatta segno di onore nell’Empireo, una beata. Questa – schematicamente – la storia del suo amore, secondo il racconto della Vita nova: l’accompagnano, insieme con episodi di vita reale (la morte di un’amica e poi del padre di Beatrice, la scena del “gabbo”), visioni, incubi, sogni presaghi, deliri, che, anche a volerli considerare soltanto come abbellimenti poetici, rivelano un aspetto dell’immaginazione giovanile dell’A., la sua trepidante mobilità fra il reale e l’irreale, che aiuta a comprendere la singolarità di un amore ai confini fra la vita e il sogno, fra il terrestre e
il trascendentale. L’idea o, meglio, il sentimento della donna-angelo ha anzitutto (troppo spesso il dato storico fa dimenticare il lato umano) un fondamento universale nella trasfigurazione delle doti della persona amata che l’illusione amorosa opera nel cuore, specialmente dei giovani innamorati; storicamente, poi, era un dato acquisito, attraverso due secoli circa di elaborazione, dalla spiritualità del tempo in cui sorse e fiorì l’amore di Dante. Già lo spirito cavalleresco, divulgato dai romanzi d’amore, aveva fatto della donna del cuore l’ispiratrice delle imprese gloriose e della virtù; e il culto di Maria, per l’impulso dato ad esso specialmente da Bernardo di Chiaravalle e dai cisterciensi, aveva proposto al sentimento – oltre la sfera religiosa – l’ideale della donna piena di virtù, mediatrice tra il cielo e la terra. La poesia provenzale, pur legata all’ambiente delle corti feudali e al cerimoniale dell’amoroso vassallaggio, era talvolta giunta al concetto del “fino amore”, che dai sensi si eleva alla contemplazione pura, disinteressata, della virtuosa bellezza femminile, e a una devozione che ha qualcosa di religioso. Poi la poesia siciliana e, in maggior misura, quella tosco-guittoniana si erano interessate del problema di amore, e ne avevano avvertito anche il lato spirituale e morale, Quando l’A., intorno ai diciott’anni (la data precisa potrà essere stata aggiustata per adattamento alla simbologia del 9), è per la prima volta salutato da Beatrice, era già da parecchi anni apparsa, e probabilmente aveva già avuto i suoi echi a Firenze, nelle rime di Monte Andrea e Chiaro Davanzati, e dello stesso Guido Cavalcanti, la canzone del Guinizelli Al cor gentil, che segna la data ufficiale di nascita, nella letteratura, della donna angelicata, ispiratrice e rivelatrice, per effetto della sua bellezza, dei più alti sensi in un cuore nobile di amante, miracolosa parvenza di Dio sulla terra, tale addirittura, – come lo stesso Guinizelli afferma nel Sonetto Voglio del ver la mia donna laudare – da convertire l’eretico alla fede cristiana, col suo semplice saluto. Nell’interpretazione guinizelliana della bellezza femminile l’A. trovò la rivelazione delle ragioni e dell’essenza del suo amore: una chiarificazione intellettuale e sentimentale, che consacrava il suo amore e lo sublimava. Sicché il processo di angelicazione e beatificazione di Beatrice, quale si svolse nello spirito dell’A. secondo il racconto della Vita nova, è non solo un documento del suo temperamento personale (meglio, di un aspetto del suo temperamento – quello fortemente idealistico -), ma insieme anche un’espressione del clima spirituale del suo tempo. Ma quel processo non si arrestò al punto di arrivo del racconto dell'”amoroso libello”: in questo Beatrice beata è ancora la giovane donna fiorentina che il poeta aveva veduta e amata dalla puerizia alla morte, una creatura mortale salita al cielo: non si esce ancora, concettualmente, dalla sfera dell’insegnamento guinizelliano e della poesia che l’A. riconobbe trarre origine da esso e chiamò “dolce stil novo”. L’ultimo stadio del suo processo evolutivo si attuerà nella Commedia, dove la donna mortale diventerà addirittura simbolo della teologia. Forse a una trasfigurazione di questo genere l’A. pensava già quando conchiudeva il racconto della Vita nova con la dichiarazione di non voler più dire di Beatrice, finché non potesse “più degnamente trattare di lei”; ma certo Beatrice come simbolo nacque insieme con l’idea della Commedia. E in questa trasfigurazione conclusiva non operò più, o non tanto, il sentimento, quanto piuttosto la volontà. La Beatrice della Vita nova, nella sua perfezione, aveva solo un valore personale: il poeta volle che avesse valore universale. Ne aveva già fatto una beata: volle darle una funzione di fondamentale importanza. Altri avevano glorificato la loro donna angelicata: l‘A. volle “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. E se si tiene presente il concetto della donna-angelo e la sua missione catartica e edificante, sia in senso morale sia in senso religioso, non deve parer strano che il Poeta abbia fatto della sua Beatrice, per glorificarla massimamente, la più sapiente mediatrice tra l’uomo e Dio, la maestra delle cose divine, appunto la teologia. È l’estremo punto di arrivo della strada iniziata dal Guinizelli; e non se ne vede altra più naturale, più logicamente coerente. Questa fu la novità dell’A.; e nello stesso tempo la conclusione – certo assai pesante per il nostro gusto – di un processo così interessante della spiritualità medievale in materia d’amore. Ma chi non segua con la necessaria docilità, sulla scorta del poeta stesso e nella temperie spirituale dell’epoca, l’evoluzione di Beatrice, da fanciulla non ancora novenne a simbolo della teologia, crederà di poter meglio risolvere quel che d’irrazionale, a prima vista, appare nella trasformazione di persona viva in un’astrazione, negando l’esistenza reale della persona stessa, e interpretando Beatrice come un mero simbolo fin dall’inizio. I dubbi sulla storicità di Beatrice cominciarono col Filelfo nel ‘400; ma nessuno dei molteplici tentativi di un’interpretazione simbolica è riuscito a risolvere senza gravi e inaccettabili arbitri tutti i problemi ad essa attinenti. Troppi sono, invece, gli argomenti in favore dell’esistenza storica di Beatrice, troppi gli elementi realistici della storia amorosa narrata dall’A.: e basterebbe il familiare accorciativo “Bice”, che appare nel sonetto Io mi senti’ svegliar, in Vita nova XXIV, incompatibile con la dignità e il valore di un simbolo. L’esistenza terrena di Beatrice si afferma imperiosamente persino nella Commedia, dove ideologicamente essa dovrebbe essere soltanto puro simbolo, e appare, invece, non diversamente da Virgilio, insieme simbolo e persona storica. Che poi sia stata, come vuole una tradizione non priva di fondamenti, Bice Portinari, figlia di messer Folco, molto ragguardevole cittadino, che abitava poco distante dalle case degli Alighieri, è questione secondaria. Bice Portinari andò sposa, giovanissima, a Simone di Geri de’ Bardi; ma ciò non farebbe difficoltà: secondo le teorie del tempo, il matrimonio non costituiva impedimento all’amore estraneo: in sostanza, il “valore” che si celebrava nella donna era qualcosa di assoluto, fuori di ogni rapporto e condizione sociale; e Beatrice, chiunque sia stata, fu per l’A. più un’immagine ideale di bellezza femminile, proiezione del suo sentimento di amore e della sua religiosità, che non la donna che realmente fu. E appunto per ciò, anche dopo morta, anche allo spegnersi dei palpiti giovanili nel cuore dell’A., la memoria di quella bellezza santa, accompagnata da ineffabile gratitudine per le dolcezze di Paradiso gustate per essa, restò inalterati nel suo antico amatore, un punto fermo nella coscienza del poeta, attraverso il mutare delle sue esperienze di vita pratica e spirituale. E quel che di vivo ci sarà nella teologale Beatrice della Commedia sarà appunto il riflesso sentimentale, che illumina la sua figura, di questa costante memoria e gratitudine del poeta maturo.
Per completare il quadro degl’interessi, sentimenti, occupazioni di questo periodo della sua vita, quale abbiamo tracciato sulla scorta degli elementi forniti direttamente dalle sue opere, dobbiamo aggiungere che ben presto – sebbene a questo riguardo gli elementi diretti ci manchino egli dovette interessarsi, e vivamente, della vita pubblica della sua città.
Come si è detto, il padre, Alaghiero, era rimasto appartato da essa; ma vi partecipavano ancora certamente gli zii Brunetto (Piattoli, 44) e Geri e Cione del Bello (Piattoli, 44, 45, 46, 61, 62, 70); avrà avuto pressappoco la sua età il cugino Cione di Brunetto, che nel 1306 compare tra i ghibellini tassati per la guerra condotta dal Comune contro di essi a Montaccenico (Piattoli, 97); suoi amici erano Brunetto Latini e Guido Cavalcanti, entrambi ragguardevoli rappresentanti della vita politica fiorentina del tempo, e il primo non solo ufficiale del Comune, ma anche attento trattatista di scienza politica, proclamata da lui “la plus noble et haute science”, nell’ultimo libro del suo Trésor.
Né è possibile prescindere dall’ambiente cittadino, tutto saturo di fermenti politici. L’A era prossimo ai quindici anni quando, con solenne e spettacolare cerimonia, in piazza di S. Maria Novella, fu giurata la pace, lungamente e tenacemente preparata dal cardinale Latino Malabranca, nipote di Niccolò III Orsini, tra i guelfi e i ghibellini di Firenze (18 febbr. 1280).
La pace durò poco, e i ghibellini, oppressi dalla maggioranza guelfa che manteneva la Signoria, uscirono dalla città. Il Comune rinnovò allora le sue istituzioni. Nell’82 furono creati i priori, scelti, uno per ogni sesto, fra i cittadini più ragguardevoli delle Arti maggiori: la loro sede, dalla quale non dovevano muoversi per tutto il bimestre del loro ufficio, fu dapprima presso le case degli Alighieri, nella torre della Castagna; e tra i primi priori fu Folco Portinari. Tra l’82 e l’83 era stato capitano del Comune un nobile e gentile signore di Romagna, Paolo Malatesta. Nell’84 Firenze strinse alleanza con Genova e Lucca per abbattere Pisa; ma il conte Ugolino, ch’era podestà di questa, seppe abilmente farla staccare dalla lega, cedendo alcuni castelli (1285). La morte di Carlo I d’Angiò (1285) e la prigionia del suo successore, liberato soltanto quattro anni dopo, facevano intanto decadere il prestigio degli Angioini e risorgere la parte ghibellina. Firenze, anima della lega guelfa, n’era preoccupata. Arezzo, venuta nelle mani dei ghibellini, diventava minacciosa: nell’86 toglieva a Siena Poggio a Santa Cecilia, e Firenze si affrettava ad aiutare i Senesi a riacquistarlo. Si preparava la guerra. Ma anche a Pisa trionfava la parte ghibellina con l’arcivescovo Ruggieni Ubaldini, che dapprima aveva inimicato tra loro il conte Ugolino e suo nipote Nino Visconti, già dal conte associato nel governo, provocando così la cacciata di Nino, poi, il 1º luglio 1288, aveva a tradimento imprigionato il conte stesso con tre figliuoli e due nipoti, facendoli, dopo otto mesi, morire di fame. Nino, accolto ospitalmente a Firenze, era divenuto uno degli organizzatori della guerra ch’essa doveva fare anche contro Pisa. Intanto il 2 maggio dell’89, reduce dalla prigionia, era di nuovo passato per Firenze, per rientrare nel suo regno, Carlo II d’Angiò, accolto con feste grandiose, perché il risorgere degli Angioini dava sicurezza alla città; e vi aveva lasciato come capitano per la guerra un giovane cavaliere dal nome leggendario, Amerigo di Narbona. Una battaglia campale decisiva era desiderata sia dai guelfi grandi fiorentini, che speravano di trarne vantaggi politici, sia dagli Aretini, che avevano con loro il fiore dei ghibellini fuorusciti. E si venne alla battaglia di Campaldino. Sono fatti e personaggi contemporanei all'”adolescenza” dell’A., che rivivono nel mondo della Commedia, come rivivono sia “l’ovra e li onorati nomi” dei Fiorentini dell’età anteriore, da lui ricercati e appresi ad amare e a riverire (Inf. XVI, vv. 58-60), sia l’eco di ricordi ancora più remoti, evidentemente già scoloriti nella memoria stessa dei suoi informatori. E che l’A. dovette molto presto interessarsi alla storia e alla vita politica della sua città, crediamo anche per un’altra ragione, più profonda dell’influenza che poterono esercitare su lui parentele, amicizie, ambiente, avvenimenti: ed è che la passione politica fu congeniale col suo temperamento, una necessità della sua coscienza, non chiusa nell’ambito e nella coltivazione del proprio io, ma aperta a tutte le forme della vita associata, sollecita delle sorti di tutta l’umanità. Le lotte di parte, nelle quali, come vedremo, fu trascinato per qualche tempo, e l’esilio non giustificherebbero abbastanza la natura della sua passione politica, che in lui, superando il fatto personale, assunse la forma pura e disinteressata di una missione universale e l’ardore dei profeti e dei riformatori. Comunque, la prima notizia sicura della sua partecipazione alla vita del Comune si riferisce al suo intervento appunto alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289).
La notizia è tramandata da Leonardo Bruni sia nelle sue Historie di Firenze, sia nella Vita Dantis. Il Bruni, segretario della Repubblica fiorentina, trovò nell’archivio del Comune un’epistola dell’A., per noi perduta, nella quale il poeta rammentava, dall’esilio, d’aver preso parte a quella battaglia combattendo a cavallo nella prima schiera, con gravissimo pericolo, avendo avuto dapprima “temenza molta, e nella fine grandissima allegrezza”.
La “temenza” dovrà riferirsi al fatto che all’inizio della battaglia “i feditori degli Aretini si mossono con grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l’oste de’ Fiorentini”, “e fu sì forte la percossa che i più de’ feditori de’ Fiorentini furono scavallati” (G. Villani, VII, 131). Ma i cavalieri aretini, incuneatisi tra le schiere nemiche che rinculavano, rimasero isolati dal resto dei loro: frattanto le due ali della lega guelfa avanzarono, si mosse anche audacemente Corso Donati, che, contravvenendo all’ordine precedentemente ricevuto di non muoversi, coi suoi 200 cavalieri pistoiesi (era allora podestà di Pistoia) assalì i nemici di fianco, e l’iniziale successo degli Aretini si trasformò in una tremenda sconfitta, che segnò il definitivo e assoluto trionfo della parte guelfa in Firenze. Perirono nella battaglia quasi tutti i capi ghibellini, tra i quali il comandante dell’esercito, Buonconte da Montefeltro. Di questo, nella raccolta dei cadaveri per la sepoltura, non si trovò il corpo: e al ricordo delle vane ricerche fatte sul campo evidentemente è legato il noto episodio del Purgatorio (V, vv. 91-129), come pure un ricordo vivo è certamente il racconto del violento temporale seguito alla battaglia (ibid.). Dopo la quale si fecero scorrerie nel territorio aretino, senza risultato positivo; si riprese anche la guerra contro Pisa, e il 16 agosto dello stesso ’89 fu costretto alla resa il castello pisano di Caprona. A tutti questi fatti d’arme partecipò sicuramente anche l’A. (Inf. XXII, vv. 4-5; XXI, vv. 94-96). Comandava l’esercito della lega guelfa a Caprona Nino Visconti: la cordialità dell’incontro fra Nino e il poeta, nella valletta dei principi (Purg. VIII, vv. 52-55), non può non riflettere una reale cordialità di rapporti stabilitasi fra i due, verosimilmente in quella circostanza.
Dalla morte di Beatrice, avvenuta, come si è detto, l’8 giugno 1290, al soggiorno di Carlo Martello a Firenze nel marzo 1294, non si hanno notizie attinenti alla vita pratica del poeta, fuorché quella insignificante della sua presenza quale testimone in un atto notarile del 1291. Anni importantissimi, invece, per la sua vita intellettuale, stando al racconto del Convivio, perché durante questi anni avvenne un ampliamento degl’interessi culturali, quasi un mutamento d’indirizzo nei suoi studi, che ora, dalla poesia, si volgono alla filosofia e alle scienze. Comunque, si può convenire che tra il ’91 e il ’95 l’A. dovette dedicarsi, con tutto l’ardore del suo temperamento avido di sempre nuove esperienze intellettuali, ad estendere e approfondire la sua cultura filosofico-scientifica.
Scuole di religiosi famose a Firenze erano allora specialmente quella dei francescani a Santa Croce e lo Studium solemne, poi generale, dei domenicani a S. Maria Novella: nella prima si “leggevano” specialmente s. Agostino, i mistici, s. Bonaventura: vi aveva insegnato dal 1287 al 1289 Pietro di Giovanni Olivi, ardente propugnatore della povertà francescana, del quale era discepolo Ubertino da Casale, che fu capo dei francescani spirituali, allora considerato quasi un profeta e riformatore, ma sfavorevolmente giudicato dall’A. (Par. XII, vv. 124-126); nel secondo s’illustravano le opere di s. Tommaso e di Alberto Magno; vi era stato lettore e vi era poi tornato come predicatore, con grande successo, fra Remigio Girolami, discepolo di s. Tommaso. Quanto alle “disputazioni de li fliosofanti”, l’A. alluderà probabilmente a conferenze e dibattiti che si saranno tenuti anche a Firenze, come risulta si tenessero altrove, su questioni scientifiche e filosofiche, e forse anche alle conversazioni e dispute amichevoli tra uomini di scienza, tra i quali ci sarà stato Brunetto Latini, se non anche il solitario e sdegnoso Guido Cavalvanti. Certo è che da quell’epoca l’esigenza speculativa diventò in lui non meno, anzi talvolta più profonda e urgente dell’istinto poetico, che ne rimase non di rado soffocato. Il che non vuol dire che da questi studi e da questa esigenza speculativa sia venuto fuori un pensatore originale, un autentico filosofo o scienziato, paragonabile, magari alla lontana, per grandezza, al poeta. Lo riconosce l’A. stesso, che in Convivio I, 1, 7 e 10, dichiara modestamente di non essere di “quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli [cioè, la sapienza] si manuca”, ma di raccogliere “a’ piedi di coloro che seggiono di quello che da loro cade”. E il maggior merito che si deve riconoscere alla sua speculazione e dottrina è ch’esse suggerirono alla sua fantasia e al suo sentimento originali e suggestivi motivi di poesia. Comunque, dagli studi intrapresi e perseguiti con tanto ardore egli venne in possesso di un sapere enciclopedico immenso; e, nei riguardi di questo sapere, si può con sicurezza affermare ch’egli non fu un ripetitore pedissequo del pensiero altrui, e tanto meno di un solo maestro, fosse pure grandissimo come s. Tommaso o Aristotele.
Questi due, specie il secondo, esaltato in tutta l’opera dantesca come “il maestro di color che sanno”, furono di fatto i suoi maggiori maestri; ma sul saldo tronco aristotelico-tomistico egli ammise innesti di altre dottrine, e persino di opinioni contrarie ai due maestri, perché egli cercò il possesso della verità per tutte le vie, attraverso tutte le dottrine di cui venne a conoscenza, non escluse quelle che rischiavano di allontanarlo dalla stretta ortodossia religiosa. La sua potente personalità, l’ingegno altrettanto potente e di carattere universale, l’immensa avidità di sapere, e anche il modo stesso della sua formazione intellettuale, indipendente da ogni scuola e maestro, diedero al suo intelletto la massima libertà di assorbimento dalle varie fonti della sua cultura, e fecero di lui un pensatore eclettico.
Non abbiamo elementi sufficienti per seguire ordinatamente il progresso dei suoi studi. Agli anni di cui stiamo parlando (1291-95) appartiene la composizione della Vita nova; e in questa egli cita esplicitamente la Metafisica di Aristotele (XLI, 6), Tolomeo (XXIX, 2), e parecchie volte la Bibbia; e ancora, oltre ai quattro grandi poeti latini, Omero (II, 8; XXV, 9).
Così, in tutta la sua opera filosofico-scientifica egli non cita di s. Tommaso (e l’esaltazione fattane nei canti X, XI, XIII, XIV del Paradiso è la prova più eloquente del particolare studio e amore dedicato all’opera sua) se non il commento all’Etica aristotelica e la Summa contra gentiles; ma tutta l’opera stessa dimostra – secondo gli studi più attendibili -ch’egli conobbe assai bene sia l’altra Summa, quella theologica, sia gli altri commenti e ad Aristotele e ai libri della Bibbia, sia opuscoli quali il De regimine principum. Di Alberto Magno, il maestro di Tommaso, cita il commento alle Meteore, i libri De la natura de’ luoghi, De le proprietadi de li elementi, De lo intelletto; ma, scrive il Nardi (La filosofia di Dante, in Grande antologia filosofica, IV, Milano 1954, p. 1156) “egli conosce sicuramente anche altri scritti e segnatamente il commento al De somno et vigilia, e il De natura et origine animae, come appare da raffronti sicuri ed evidenti“; e dai commenti aristotelici di Alberto lo stesso studioso crede “derivino quasi tutte le citazioni ch’egli fa di filosofi arabi, e particolarmente quella di Alpetragio” (ibid., p. 1157: dei filosofi e scienziati arabi l’A. cita – oltre Alpetragio – Algazel, Albumasar, Avicenna, Averroè). Ma il filosofo che l’A. cita incomparabilmente più spesso di ogni altro, si può dire continuamente, è Aristotele, e non soltanto dall’Etica e dalla Fisica, che in Inferno XI, vv. 80 e 101, egli proclama addirittura “sue”, ma da quasi tutte le altre opere, delle quali esistevano almeno due traduzioni latine; e se si aggiungono le altissime lodi che l’A. fece di lui, chiamandolo non solo “il maestro di color che sanno”, ma anche “il mio maestro”, il “maestro e duca de la ragione umana” e “de la nostra vita”, e definendo la sua dottrina “quasi cattolica opinione”, si può affermare che Aristotele fu per l’A. nella sfera del sapere quello che Virgilio fu nella sfera della poesia. Di Platone, invece, non pare avesse conoscenza diretta, fuorché del Timeo. Notissimo gli fu il Liber de causis, già attribuito ad Aristotele (ma non mai dall’A.), riassunto dell’Elementatio theologica del neoplatonico Proclo. Di Cicerone, oltre all'”Amistade” nel luogo su riferito del Convivio, cita il De finibus, il De inventione, il De officiis, i Paradoxa, il De senectute. Di Seneca cita il De benefficiis e le epistole a Ludilio, e a lui attribuisce, come tutti al suo tempo, due opere, De quatuor virtutibus e Remedia fortuitorum, che appartengono, invece, a Martino Dumiense (l’A. non pare conoscesse se non il “Seneca morale”: il Seneca tragico è noto invece all’autore dell’epistola a Cangrande). Sono citati, per la scienza medica, i Tegni (cioè la Τέχνή ἰατρική) di Galeno e gli Aforismi di Ippocrate. Degli scrittori ecclesiastici più antichi cita Dionisio Areopagita, s. Agostino, s. Girolamo; degli scolastici, oltre all’Aquinate e ad Alberto Magno, cita Gilberto Porretano e Pietro Lombardo. Da notare l’assenza di citazioni dai mistici (s. Bernardo, Ugo e Riccardo da S. Vittore – quest’ultimo, però, citato nell’epistola a Cangrande Gioacchino da Fiore, s. Bonaventura), autori che senza dubbio dovette conoscere direttamente, e, almeno al tempo della composizione del Paradiso, avere particolarmente familiari. Questa, approssimativamente, la ricostruzione della biblioteca filosofico-scientifica, e questi gli autori sui quali si formò il mondo dottrinale di Dante. Innanzi ai quali (non sembri superfluo ricordarlo) è da porre la Bibbia – fondamento, guida suprema e norma inderogabile non solo del pensiero teologico, ma di ogni filosofia e di ogni scienza nel Medioevo -, che l’A. possedette interamente come pochi, facendo di essa senza dubbio il nutrimento più sostanziale e del suo intelletto e del suo sentimento.
Ma nel processo formativo del suo mondo dottrinale ci fu un momento, non esattamente precisabile nel tempo, né nei suoi elementi e termini spirituali, in cui la speculazione filosofica rischiò di far deviare l’A. dalla stretta ortodossia religiosa, fino al punto da sembrare, più tardi, al Poeta, rievocando quel periodo, d’essere stato sulla soglia della morte eterna dell’anima. A questa crisi d’ordine intellettuale e religioso sono legati l’allegoria fondamentale della Commedia (smarrimento del poeta nella selva oscura, donde la necessità del viaggio di espiazione e ammaestramento nell’oltremondo) e i rimproveri di Beatrice sulla vetta del Purgatorio.
Vi sono nell’opera dantesca troppi e troppo gravi indizi per poter mettere in dubbio l’esistenza di un traviamento intellettuale dell’A. in senso religioso, quale che ne sia stata la durata e la gravità; a cominciare dal fondamentale dato strutturale del poema per cui Beatrice è guida necessaria alla redenzione dell’A. dagli errori appunto filosofico-religiosi in cui egli era caduto, come Virgilio nei riguardi delle colpe morali. E’ lecito, penetrando nel vivo del pensiero filosofico dell’A., precisare intorno a quali problemi metafisici e religiosi si affaticasse la sua mente con un’insistenza e un’inquietudine tali da far vacillare per alcun tempo in lui la fede dogmatica. Uno è quello relativo alla giustizia divina, che – secondo l’ortodossia cattolica – condanna all’Inferno chi, senza colpa, anzi anche osservando tutte le virtù cardinali, non ebbe la fede cristiana perché materialmente non ne ebbe conoscenza (Monarchia II, vii, 4-5; Par. XIX, vv. 67-84). Un altro problema, che dovette essere per l’A. fonte di dubbi insistenti, come dimostrano i molti luoghi in cui egli ne tratta (Conv. IV, xxii, 4-10; Monarchia I, xii, 1-6; Purg. XVI, vv. 67-81, XVII, vv. 91-102, XVIII, vv. 40-75; Par. V, vv. 19-24), è quello del libero arbitrio, fondamento del giudizio morale, e, quindi, della legittimità del premio e castigo nell’oltretomba. Ancora un altro grave e pericoloso problema, che poteva condurre alla negazione dell’immortalità dell’anima individuale, e, quindi, dell’oltretomba, dovette non poco affaticare la mente di Dante: quello sulla natura e funzione dell’intelletto possibile. Infine, un altro problema sappiamo aver profondamente turbato la sua mente: quello “se la prima materia de li elementi era da Dio intesa”. Perfino più tardi, scrivendo il Paradiso, quei problemi gli si presenteranno ancora nella loro palpitante drammaticità, anche se egli chinerà la fronte in un atto di fede nella imperscrutabile bontà, sapienza e giustizia di Dio. È questo il periodo della sua “follia”, per la quale fu sì presso alla morte spirituale che “molto poco tempo a volger era”, il periodo in cui “tanto giù cadde, che tutti argomenti alla salute sua eran già corti”, come affermano concordemente Virgilio e Beatrice (Purg. I, vv. 59-60; XXX,vv. 136-137). Il suo inizio e la sua durata, come, d’altra parte, il modo del ravvedimento, sono il segreto della vita interiore di Dante. Ma, se si tien conto della confessione del suo smarrimento nella valle, ch’egli fa a Brunetto Latini, morto nel 1294, e della data dell’immaginario viaggio oltre-mondano (1300), sembra giusto collocare la sua crisi filosofico-religiosa entro queste due date.
Sarà da ritenere, piuttosto, che la crisi non dovette durare a lungo, e che dovette risolversi in un’epoca più vicina al 1294 che non al 1300. Insieme con quell’insaziabile avidità di sapere, che non lo faceva arrestare davanti ai dubbi più pericolosi, c’era nell’A. un’esigenza non meno ardente di verità assolute e incrollabili: ed egli doveva necessariamente presto riconoscere che solo nella fede era possibile trovarle, non nella scienza mondana, con le sue soluzioni insufficienti e contraddittorie. E forse appunto perché conquistata attraverso il dubbio e la delusione, la sua fede religiosa trasse il carattere di assoluta necessità razionale e di suprema pacificatrice dell’intelletto. Il che non fece affatto dell’A, un mistico, ma solo un credente di granitica fede: il convinto riconoscimento, da parte del credente, dei limiti della ragione a risolvere i problemi ultimi non avvilì mai, agli occhi del pensatore, la nobiltà della mente umana, “fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade” (Conv. III, ii, 19). Perfino scrivendo il Paradiso esalterà la potenza dell’umano intelletto, affermando, con la stessa baldanza del Convivio, che, attraverso il dubbio rampollante dalle verità acquisite, l’impulso naturale “al sommo pinge noi di collo in collo”, cioè alla vetta del sapere. Tutta, del resto, la Commedia, che dovrebbe riflettere, secondo alcuni critici, l’atteggiamento mistico assunto dall’A. dopo l’esperienza razionalistica, prova, al contrario, ch’egli non rinnegò mai il valore altissimo e l’uso continuo della “più nobile parte” dell’uomo, la ragione, dalla quale chi “si parte… non vive uomo, ma vive bestia” (Conv. II, vii, 3-4). Virgilio, che nel poema simboleggia la ragione umana e la filosofia, è sollecitato da Beatrice a soccorrere Dante, e lo guida per i due terzi del suo viaggio oltremondano.
Al tempo in cui con maggior fervore l’A. attendeva agli studi filosofici, giunse a Firenze, nel marzo 1294, Carlo Martello, figlio e luogotenente di Carlo II d’Angiò, per attendervi il padre che tornava di Provenza; e vi “stette più di venti dì,… e da’ Fiorentini gli fu fatto grande onore, ed egli mostrò grande amore a’ Fiorentini, ond’ebbe molto la grazia di tutti” (Villani, VIII, 13). Probabilmente l’A. fu tra i cavalieri messi dal Comune a disposizione del principe; comunque, Carlo lo conobbe e dovette mostrargli viva simpatia e fargli promesse, e specialmente apprezzarlo come poeta, tanto che nel Paradiso, dove l’A. lo incontrerà, si compiacerà di ricordare una delle sue più originali canzoni d’amore (Voi ch’intendendo). Nell’ottobre dello stesso ’94 fu inviata dal Comune a Napoli un’ambasceria per fare omaggio al nuovo pontefice, Celestino V, ospite ivi di Carlo II: che l’A. facesse parte di essa è congettura che non ha nulla d’inverosimile, e potrebbe spiegare, invece, sia il riconoscimento, nell’Antinferno, dell'”ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, vv. 59-60), sia la citazione fatta, a titolo di onore, della famiglia “Piscitelli da Napoli” in Conv. IV, xxix, 3.
La Vita nova è la prima grande prosa d’arte italiana, pausata e clausolata musicalmente (talvolta con troppa e compiaciuta mollezza), in una lingua scelta, nobile, armoniosa.
Contemporaneo a questa definitiva sistemazione spirituale è l’inizio della sua partecipazione alla vita politica del Comune: è l’ultimo lustro del ‘200, durante il quale, “tolta donna, e vivendo civilmente ed onesta e studiosa vita, fu adoperato nella repubblica assai”, come scrisse Leonardo Bruni. Veramente, quando si effettuasse il matrimonio dell’A. con Gemma Donati, combinato, come si è già detto, dai rispettivi genitori nel 1277, non si sa. Se fosse certo che quel Giovanni, figlio Dantis Alagherii de Florentia, che compare come testimone in un atto notarile lucchese del 21 ott. 1308 (Piattoli, Appendice II,1), fosse figlio dell’A. (bandito da Firenze, come figlio di ribelle, secondo una dura disposizione del giugno 1302, ribadita e aggravata da un’altra del gennaio 1303, appena raggiunti i 14 anni), si potrebbe stabilire che nel 1294 il poeta era già padre. Al riguardo, sappiamo solo che prima dell’esilio egli aveva certamente tre figli, Pietro, Iacopo, Antonia; giacché sembra che quest’ultima si debba identificare con quella suor Beatrice del monastero di S. Stefano degli Ulivi a Ravenna, alla quale il Boccaccio portò nel 1350 dieci fiorini d’oro per incarico della Compagnia d’Orsanmichele (Piattoli, 196). È probabile che la sua partecipazione alle cariche comunali avesse inizio in conseguenza di una provvisione (così si chiamavano le deliberazioni degli organi legislativi del Comune) del luglio 1295, con la quale erano ammessi ad esse tutti coloro che fossero iscritti “in libro seu matricula alicuius artis civitatis Florentie”, anche se di fatto non esercitavano. La provvisione era una limitata concessione fatta ai cittadini dopo la caduta, nel febbraio di quell’anno, di Giano della Bella, il principale promotore dei severi Ordinamenti di giustizia emanati il 15 genn. 1293 in difesa del popolo e del Comune, contro i soprusi e i misfatti dei grandi o magnati, che venivano esclusi dal governo. Gli Alighieri non erano dei grandi, ma appartenevano alla nobiltà, che le corporazioni, in cui era raccolto il popolo che lavorava e produceva, dai banchieri agli artigiani, e nelle cui mani era il governo, avevano cura di tener lontana dalla cosa pubblica: sembra, infatti, che non bastasse essere immatricolati nelle arti, per adire le cariche, ma si dovesse esercitarle. Non sappiamo se l’A. fosse già iscritto, o si iscrivesse in seguito a quella provvisione, alla sesta delle arti maggiori, quella dei medici e speziali, probabilmente da lui scelta per l’affinità allora esistente tra gli studi di medicina e quelli di filosofia. Comunque, egli risulta consigliere nel Consiglio speciale del capitano del popolo per il semestre 1 nov. -30 apr. 1296; e il 14 dicembre prese parte, certo in qualità di “savio”, al Consiglio delle capitudini (consoli) delle dodici arti maggiori e dei savi di ciascun sesto, convocato per stabilire le modalità per l’elezione dei futuri priori. Dalla fine di maggio alla fine di settembre del ’96 appartenne al Consiglio dei Cento, subentrando a un consigliere mancante, giacché il semestre di carica di questo Consiglio aveva inizio il 1º aprile, quando egli era ancora nel Consiglio speciale del capitano del popolo, né si poteva nello stesso tempo appartenere a due Consigli. Il fatto d’esser stato assunto nel Consiglio dei Cento, che doveva essere composto “de melioribus et fidelioribus artificibus aliisque plebeis sextuum civitatis”, – appena uscito di carica dall’altro Consiglio, è prova della stima e fiducia di cui doveva godere. Sappiamo che durante questa carica intervenne alla discussione su alcune proposte di legge presentate nella seduta del 5 giugno, due delle quali particolarmente importanti: l’A. ne sostenne l’approvazione.
L’una riguardava i banditi del Comune di Pistoia, i quali si rifugiavano a Firenze, dove trovavano facile ospitalità tra i grandi, il che doveva sembrare al governo un pericolo per la quiete pubblica, aumentando la tensione e le rivalità esistenti tra le famiglie cittadine: il Consiglio deliberò ch’essi non fossero accolti né nella città né nel contado. L’altra proposta dava piena autorità ai priori e al gonfaloniere di giustizia di provvedere contro chiunque, “et maxime magnates”, offendesse un popolano per atti da lui compiuti nell’esercizio di qualche ufficio del Comune.
Sempre torbida e funestata da fatti di sangue era stata la vita di Firenze, specialmente dopo la divisione delle famiglie in guelfi e ghibellini a causa dell’uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti (1216). L’alterno prevalere ora degli uni ora degli altri, con le uccisioni, le distruzioni di case, le confische dei beni, gli esili che ne seguivano, avevano profondamente diviso la cittadinanza. Né la pacificazione tentata dal cardinal Latino, né la definitiva vittoria della parte guelfa dopo Campaldino erano valse a instaurare la concordia e dar pace alla città. Il rapido arricchirsi di “gente nova”, venuta dal contado, dedita alle industrie e ai commerci, aveva provocato la progressiva decadenza dei nobili, esclusi a mano a mano dal governo, tenuto dalle arti. Invidia e rancore spingevano perciò i nobili a continue prepotenze, e l’intervento dell’autorità contro di essi dava luogo, a sua volta, alle vendette del popolo, che, a un cenno del podestà, correva a guastare o disfare, come si diceva, le loro case, quando erano mandati in bando. Ambizioni e rivalità dividevano tra loro anche i nobili stessi e le loro consorterie, e perfino i membri di una stessa famiglia; gli odi personali erano rinfocolati dal diffuso malcostume della maldicenza cittadina e giullaresca; rigorosamente osservata, pena l’infamia pubblica, la legge della vendetta privata, diritto e dovere di tutta la parentela dell’offeso. Ma in quegli anni la situazione generale si era venuta aggravando per l’inimicizia determinatasi tra le due potenti famiglie dei Cerchi e dei Donati, intorno alle quali finirono col dividersi quasi tutti i grandi e il popolo stesso; perfino, scrive il Compagni (I 22), “i religiosi non si poterono difendere che con l’animo non si dessero alle dette parti, chi a una chi a un’altra.. Più vasta di aderenze, ben vista dal popolo, la famiglia dei Cerchi, che, venuta dalla canipagna, aveva accumulato grandi ricchezze col banco e coi commerci; ma il suo capo, Vieri, era pavido, esitante e di corte vedute. Minore di fortune e clientele, ma audace e violenta, la famiglia dei Donati, di antica nobiltà; capo era quel Corso, che a Dino Compagni (II, 20) sembrava somigliante a “Catellina romano, ma più crudele di lui…, con l’animo sempre intento a mal fare, col quale molti masnadieri si raunavano, e gran séguito avea”. L’inimicizia tra le due famiglie si era talmente inasprita, dopo la morte di una dei Cerchi, moglie di Corso, che si disse anche da lui avvelenata, che il 16 dicembre di quell’anno 1296, stando i Donati e i Cerchi seduti per terra, come era usanza, a un mortorio, gli uni di fronte agli altri, essendosi uno di essi alzato per una ragione banale, gli altri, per sospetto di essere aggrediti, si alzarono tutti mettendo mano alle spade.
Quale la sua partecipazione politica in questo periodo non sappiamo, per la mancanza delle consulte, cioè dei verbali delle sedute, del primo semestre del ’97 e di quelle dal luglio del ’98 al febbraio del 1301. Sappiamo, però, che nel ’97 arringò in uno dei Consigli (non risulta quale); ma è verosimile che la sua attività non subisse interruzioni per il prestigio che gli dovevano conferire la sua dottrina e la sua rettitudine: lo provano l’ambasceria a San Gimignano e la sua elezione al priorato, entrambe del 1300. A San Gimignano fu inviato per sollecitare quel Comune ad inviare sindaci in un’adunanza di tutti i Comuni della Taglia o lega guelfa di Toscana per l’elezione del capitano di essa. Firenze si preoccupava in quel momento di rinsaldare la lega per la sua e la comune indipendenza dalle mire ormai scoperte di Bonifazio VIII. Salito al soglio pontificio dopo la rinunzia di Celestino V, Bonifazio meditava di estendere alla Toscana il dominio della Chiesa. Già nel ’96, sollecitato dai grandi, aveva scritto alla Signoria di Firenze minacciando la scomunica, ove fosse avvenuto il richiamo di Giano della Bella, da molti desiderato. Nel ’97 vi aveva mandato il cardinale Matteo d’Acquasparta per ottenere aiuti nella crociata contro la famiglia Colonna, potente e prepotente in Roma e nel Lazio, sua nemica. Nel ’98, eletto imperatore Alberto d’Asburgo, aveva da lui preteso la rinunzia ai suoi diritti sulla Toscana, “ad ius et proprietatem Ecclesiae”. Avutone un rifiuto, non aveva riconosciuto la sua elezione e, considerando vacante l’Impero, se ne era arrogato il vicariato e la piena podestà sulla Toscana. Nell’aprile del 1300 un’ambasceria fiorentina inviata a Roma aveva scoperto una congiura per consegnare Firenze al papa. La denunzia e l’immediata condanna dei congiurati (18 aprile) aveva provocato l’ira di Bonifazio, che esigeva l’annullamento della condanna stessa. Cade in questo delicato momento (7 maggio) l’ambasceria dell’A., che viene perciò ad acquistare maggiore importanza che non avrebbe per sé stessa. La Signoria, intanto, senza lasciarsi intimidire, si opponeva apertamente, con una provvisione, all’ingerenza pontificia nella giurisdizione cittadina. Il 14 giugno l’A. era eletto tra i nuovi priori per il bimestre 16 giugno – 15 agosto; “e poiché volta per volta si stabiliva come dovesse farsi l’elezione di quell’ufficio, è certo che tutto fu predisposto perché riuscissero quelle persone che il bisogno richiedeva” (Barbi, Dante, p. 18). Pochi giorni prima (verosimilmente in previsione dell’elezione e per provvedere ai bisogni della famiglia, giacché i priori non potevano lasciare né notte né giorno la dimora dell’ufficio, che ora era il palazzo della Signoria), l’11 giugno, l’A. aveva contratto un debito verso il fratello Francesco di 90 fiorini d’oro, che veniva ad aggiungersi ad un altro di 125, contratto, sempre verso il fratello, il 14 marzo (Piattoli, 71 e 75). La partecipazione alla cosa pubblica evidentemente non fruttava all’A. vantaggi economici. D’altra parte, le condizioni economiche degli Alighieri dovevano aver subito, negli ultimi anni, un peggioramento, se Dante e il fratello Francesco, il 23 dic. 1297, erano stati costretti a contrarre un grosso debito di 480 fiorini d’oro, dopo un altro di 227 dell’11 aprile dello stesso anno, a meno che quello posteriore non fosse anche servito al saldo del precedente (Piattoli, 57 e 58). Francesco (così parrebbe) aveva potuto presto migliorare le sue condizioni, se tre anni dopo era in grado di fare un notevole prestito al fratello; non così Dante,quali che ne fossero le cagioni. Il giorno stesso in cui i nuovi priori assunsero la carica, presero atto della condanna dei congiurati firmata dalla precedente Signoria: era la dimostrazione ch’essi intendevano continuare l’opposizione all’intromissione del papa e la difesa dell’indipendenza del Comune, tanto più che Bonifazio aveva di nuovo mandato, come suo legato, a Firenze, col pretesto di metter pace tra i Cerchi e i Donati, ma in realtà per attuare i suoi intenti, appoggiandosi ai Donati, il fido cardinale d’Acquasparta. Bonifazio aveva cercato in un primo tempo di trarre a sè i Cerchi, e aveva mandato a chiamare Vieri, invitandolo a far pace con Corso Donati e la sua parte, e “promettendogli di metter lui e’ suoi in grande e buono stato, e di fargli grazie spirituali, come sapesse domandare”; ma Vieri aveva rifiutato le offerte del papa, dicendo “che non aveva guerre con niuno; onde si tornò in Firenze, e il papa rimase molto sdegnato contro a lui e contro a sua parte” (Villani, VIII, 39); e Bonifazio si volse ai Donati, non volendo “perdere gli uomini per le femminelle” (Compagni, II, 11). Pochi giorni dopo l’inizio del nuovo priorato, il 23 giugno, la vigilia di S. Giovanni, andando, come d’uso, i consoli delle arti a recare l’offerta al santo patrono, furono malmenati da alcuni dei grandi di parte nera, i quali rinfacciavano loro: “Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi dagli uffici e onori della nostra città” (Compagni, I, 21). L’altra parte, per reazione, corse ad armarsi. La Signoria volle dimostrare la sua imparzialità e autorità, condannando al confino otto dei caporioni di ambo le parti. Tra quelli di parte bianca era Guido Cavalcanti, che, al confino di Sarzana nella Lunigiana, s’ammalò di malaria, e richiamato dalla nuova Signoria, insieme con gli altri di parte bianca, nella seconda metà di agosto, fece appena in tempo a tornare a Firenze per morirvi. Il 27 giugno il cardinale chiese la balìa, cioè i pieni poteri, per pacificare la città: la Signoria rispose eludendo la richiesta, pur assicurandogli tutto il suo appoggio nell’opera di pacificazione. Irritato da questa resistenza, Bonifazio in una lettera del 22 luglio sollecitava il cardinale ad agire contro tutti i reggitori, scomunicandoli, sospendendoli dagli uffici, confiscandone i beni; ma solo alla fine di settembre il cardinale, sdegnato di non riuscire a ottenere nulla di positivo, lanciò l’interdetto e lasciò la città. L’A. era uscito di carica il 15 agosto. La Signoria, della quale era stato il membro più autorevole, aveva assolto il suo difficile compito con grande abilità e con grande fermezza, tutelando insieme la giustizia e l’indipendenza del Comune. Più tardi, dall’esilio, in una lettera, per noi perduta, dirà, come attesta Leonardo Bruni, che ne tramandò, tradotto, il passo relativo: “Tutti li mali e tutti l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio”. E Brunetto Latini gli dirà nell’Inferno che l’ingrato popolo fiorentino “gli si farà, per suo ben far, nimico”. Nel novembre una solenne ambasceria fu mandata da Firenze al papa per implorarlo di togliere, l’interdetto. Non è improbabile che di quell’ambasceria facesse parte anche l’A.; comunque, è certo che in quell’anno, “l’anno del giubileo” solennemente istituito da Bonifazio, egli fu a Roma: lo attesta inequivocabilmente il ricordo preciso del modo escogitato dai Romani, che gli dovette parere utile e ingegnoso, per disciplinare il passaggio del ponte di Castel S. Angelo, data la moltitudine di pellegrini che si recavano
alla basilica di S. Pietro e ne tornavano (Inf. XVIII, vv. 28-33).
Quali sentimenti dovette provare visitando la città, può immaginare chiunque sappia che cosa rappresentasse nella fantasia e nella coscienza anche dell’uomo comune del Medioevo Roma antica e cristiana: un immenso, sacro reliquiario di gloria, di grandezza, di fede religiosa. L’A. dirà nel Convivio (IV, v, 20): “certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov’ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato”.
Nulla sappiamo della sua attività pubblica dalla fine del priorato all’aprile dell’anno seguente, per la mancanza, come si è detto, delle consulte. Il 2 marzo 1301 compare, insieme col fratello Francesco e altra persona (Piattoli, 78), mallevadore di un mutuo di 50 fiorini contratto dal giudice Durante degli Abati (suo probabile avo), ch’era stato, a sua volta, uno dei mallevadori del debito contratto dai due fratelli il 23 dic. 1297. È da ritenere che la malleveria dell’A., più che altro, avesse valore morale, anche come contraccambio di quella a lui precedentemente data, accanto a quella, più solida, del fratello e dell’altro mallevadore, non già che sia indice di mutate condizioni che gli conferissero credito economico. Per il semestre 1 aprile – 30 settembre appartenne ancora al Consiglio dei Cento. Durante quest’ufficio ebbe anche altri incarichi: il 14 aprile fu chiamato nel Consiglio delle capitudini delle dodici arti maggiori e dei savi per fissare il modo dell’elezione dei nuovi priori e quello del nuovo gonfaloniere: interloquì su entrambi, e per l’elezione del gonfaloniere fu il solo a parlare (Piattoli, 81 e 82). “Una delle proposte avanzate dal legato pontificio era che fossero eletti a sorte fra i designati delle due parti; e l’interesse della città esigeva invece che non potessero esser nominati uomini di dubbia fede o favorevoli alla politica della curia romana” (Barbi, Dante, p. 20). Si stabilì che il Consiglio facesse i nomi – quattro per ciascun sesto per i priori, uno per il gonfaloniere – e indi si sorteggiasse, secondo la proposta dell’A.: il che prova ancora una volta l’autorità di cui godeva. Il 28 aprile fu eletto incaricato e soprastante, “officialis et superstes”, con l’assistenza di un notaio, ai lavori di rettificazione e sistemazione della via di S. Procolo, che si stendeva verso il borgo della Piagentina fino al torrente Affrico, dei quali s’indicava l’opportunità nel fatto che la via “est multum utilis et necessaria hominibus et personis civitatis Florentie, maxime propter vittualium copiam habendam, et maxime eo quod populares comitatus absque strepitu et briga magnatum et potentum possunt secure venire per eandem ad dominos priores et vexilliferum iustitie, cum expedit. (Piattoli, 80). Sebbene l’A. avesse interesse alla sistemazione della strada per avere terreni da quelle parti, la sua designazione era una prova di fiducia nella sua accortezza e onestà. L’incarico era dato “sine aliquo salario”, e doveva durare due mesi. Ma ben altra importanza ha il suo intervento alle discussioni del 19 giugno, prima nell’assemblea riunita del Consiglio dei Cento, di quello generale e speciale del capitano, di quello delle capitudini, poi nel solo Consiglio dei Cento. Nell’assemblea riunita, il capitano lesse la lettera del cardinale d’Acquasparta, ch’era stato rimandato da Bonifazio a Firenze dopo aver tolto l’interdetto, nella quale si chiedeva che fosse prolungato il servizio dei cento soldati inviati due mesi prima dal Comune nella guerra che Bonifazio aveva ingaggiato in Maremma, per togliere a Margherita Aldobrandeschi i suoi feudi, a favore dei suoi nipoti Caetani. Dei quattro consiglieri che presero la parola, due proposero l’accoglimento; Dante “consuluit quod de servitio faciendo domino pape nichil fiat”; il quarto propose che si sospendesse la deliberazione (Piattoli, 83). Fu approvata la proposta di sospensiva. Nello stesso giorno la questione fu portata al ristretto Consiglio dei Cento. Qui i priori proposero l’accoglimento della richiesta del papa, con la clausola che il servizio non dovesse prolungarsi oltre il 1° settembre: benché presentata in questa nuova forma, l’A. si pronunciò ancora contro la richiesta papale (la consulta riassunse il discorso dell’A, con la stessa formula di quello precedente), un altro consigliere in favore (Piattoli, 84). Fatta la votazione segreta, la proposta fu approvata con 49 voti favorevoli, 32 contrari: era prevalso il partito di non disgustarsi di nuovo il pontefice, ma esisteva una forte minoranza di opposizione, della quale evidentemente l’A. era esponente autorevole. Poiché le consulte sono schematici appunti delle conclusioni essenziali, non sappiamo quali fossero le ragioni da lui addotte: ma certo egli pensava che non fosse il momento di distogliere armi e danaro per favorire il papa, quando stava per giungere in Italia Carlo di Valois, chiamato da Bonifazio per sistemare le cose di Toscana (oltre che per riconquistare la Sicilia), e i Neri, che già avevano tentato d’impadronirsi della città con la recentissima congiura di S. Trinita (e Leonardo Bruni, fondandosi su una lettera del poeta, attribuisce all’A, una parte importante nella sollevazione del popolo contro i congiurati), ne aspettavano l’arrivo. Il 13 settembre, quando già il Valois, giunto il 2 ad Anagni, era stato proclamato da Bonifazio ufficialmente “paciaro” di Toscana, in un’adunanza generale di tutti i Consigli (“una di quelle adunanze che si solevano fare quando alla città sovrastavano gravi avvenimenti ed era necessario dar pieni poteri alla Signoria”, Barbi, Dante, p. 21), il podestà chiese “quid sit providendum et faciendum super conservatione ordinamentorum iustitie et statutorum populi”. La solennità della richiesta rispecchiava la gravità della situazione politica. Primo parlò l’A.; ma il notaio della consulta lasciò in bianco, quale che ne sia stata la ragione, lo spazio di tre righe che doveva accogliere il parere da lui espresso. Il secondo e ultimo oratore propose che tutti i provvedimenti suggeriti dall’A. (“predicta omnia”) rimanessero a cura e giudizio degli uomini del governo (Piattoli, 86). Il 20 settembre l’A. parlò a favore del permesso di transito delle granaglie, chiesto dai Bolognesi, dalla marina di Pisa attraverso il territorio fiorentino: i legami tra Firenze e Bologna erano stati sempre buoni e si erano rinsaldati negli ultimi anni con l’appoggio dato da Firenze a Bologna nella lotta contro Azzo VIII d’Este; e nel novembre dell’anno precedente ambasciatori bolognesi si erano uniti ai Fiorentini nel supplicare Bonifazio di liberare Firenze dall’interdetto. Alla vigilia della cessazione della carica, il 28 settembre, l’A. parlò per l’ultima volta nel Consiglio dei Cento (Piattoli, 88), sostenendo alcuni provvedimenti eccezionali proposti per estendere i poteri discrezionali dei priori e del podestà, l’assoldamento di cento “berrovieri” a servizio dei priori e del gonfaloniere, un risarcimento in favore di Neri di Gherardino Diodati, il quale, sfuggito con la fuga alla condanna a morte pronunziata nel ’98 dal podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio per compiacere ai Donati, era stato poi riconosciuto innocente. Ma ormai il “paciaro” Valois era ai confini della Toscana e, mentre protestava a tutti i Comuni il rispetto della loro libertà, raccoglieva milizie, trescando a Castel della Pieve con i Neri fiorentini, ch’erano lì confinati. Il governo, che evidentemente non si sentiva abbastanza forte per sostenere un’eventuale opposizione armata (tra l’altro, il 15 ottobre dovevano subentrare i nuovi priori), deliberò d’inviare un’ambasceria a Bonifazio per cercare di esplorarne le intenzioni, chiedendo, anche questa volta, l’appoggio dei Bolognesi. Questi ne accolsero volentieri, anche per il proprio interesse, la richiesta, e inviarono i loro ambasciatori a Firenze per procedere, insieme con i colleghi fiorentini, verso Roma. I messi fiorentini erano Maso Minerbetti, Corazza Ubaldini e l’A. (Compagni, II, 4, 11, 25). In quell’occasione, secondo il Boccaccio, restando l’A. perplesso alla notizia della sua nomina, richiestone della ragione, avrebbe risposto: “Penso: se io vo, chi rimane?, e se io rimango, chi va?” (Vita XXV, Compendio XXI, ediz. Guerri). L’ambasceria si mosse da Firenze circa la seconda metà di ottobre, e non approdò a nulla. Bonifazio, che doveva essere ad Anagni, rimandò gli altri due messi fiorentini con l’incarico di assicurare i concittadini ch’egli non aveva “altra intenzione che di loro pace” (Compagni, II, 4) e trattenne Dante. Perché lo trattenesse è uno dei punti più oscuri della vita dell’A.; ma qualcosa di preciso dovette esserci, per cui l’A. si formò la convinzione di essere stato oggetto di una particolare animosità del papa contro di lui personalmente: espliciti sono a questo riguardo i vv. 46-51 di Par. XVII. Intanto a Firenze la Signoria, di cui era magna pars l’onesto, ma troppo ingenuo e alquanto vano Dino Compagni, chieste e ottenute dal Valois “lettere bollate” (Compagni, II, 7) di non abbattere le magistrature della città e non offendere le leggi municipali, il 1° novembre lasciava entrare in Firenze il novello Giuda (cfr. Purg. XX, vv. 73-75). La dappocaggine dei Bianchi, che pure tenevano il governo, la viltà dei Cerchi, rintanati nelle loro case, l’audacia dei Neri fecero il resto. Rientrarono trionfanti Corso Donati e gli altri Neri banditi; e per alcuni giorni, nella città e nel contado, si abbandonarono a saccheggi e incendi, a uccisioni e a ogni altra sorta di violenze, quali poteva dettare l’odio e la sete di vendetta. La casa dell’A. fu devastata. Il 7 novembre furono deposti i recenti, imbelli priori bianchi, ed eletti i nuovi di parte nera; tornarono al governo i magnati, tornò come podestà Cante de’ Gabrielli. Racconta Dino che il “mal fare durò sei giorni”: dopo di che la vendetta di parte assunse, come suole avvenire in simili casi, la farsesca ipocrisia delle forme legali. Una legge speciale diede al podestà l’incarico di riaprire un ‘inchiesta sull’operato dei priori degli anni 1300 e 1301 – gli anni in cui il governo era stato nelle mani dei Bianchi e aveva ostacolato le mire del papa -, sebbene essi fossero stati già assolti nell’inchiesta che per legge si faceva a carico di essi, appena cessavano dall’ufficio. L’A. verosimilmente non era rientrato a Firenze dall’ambasceria a Bonifazio: la notizia del trionfo dei Neri lo aveva raggiunto probabilmente mentre tornava da Roma e aveva dovuto sconsigliarlo di metter piede nel territorio fiorentino. Secondo il Bruni, a Siena intese “più chiaramente la sua calamità”, cioè la propria condanna. Nella prima metà del gennaio 1302 egli era stato citato a comparire davanti al podestà, entro tempo determinato, per difendersi e scusarsi delle accuse mossegli dalla curia podestarile; e poiché non si era presentato, il 27 dello stesso mese, ritenuto confesso per la sua contumacia, fu condannato a 5.000 fiorini piccoli da pagare entro tre giorni, pena l’espropriazione, il guasto e l’incameramento dei beni da parte del Comune, a due anni di confino, all’esclusione perpetua da qualunque ufficio.
Secondo Leonardo Bruni, in una lettera in cui giustificava il suo operato, l’A. si diceva “uomo senza parte”: e tale realmente si era dimostrato durante la sua attività politica, almeno per quello che ne sappiamo: aveva servito semplicemente la patria, aveva difeso quelli che a lui sembravano gl’interessi del Comune, non di una fazione. Appartenente alla nobiltà, amico di magnati, quale Guido Cavalcanti, aveva difeso il popolo contro le soperchierie dei grandi. Guelfo e di famiglia e tradizioni guelfe non mai rinnegate, si era opposto alle ingerenze del papa, secondo la più schietta tradizione guelfa italiana, ch’era sempre stata di cura gelosa dell’indipendenza cittadina, pur nell’ossequio alla somma autorità della Chiesa. Nella scissione della città era stato con la parte dei Cerchi, forse perché più umani, alieni da prepotenze e ingiurie (Compagni, I, 20), sebbene, peraltro, non avesse, dei membri della famiglia, alcuna stima (cfr. Par. XVI, vv. 65 e 94-96). Priore, aveva sottoscritto l’invio al confino del suo amico Guido Cavalcanti. Quell’ideale, che animerà e illuminerà la Commedia, di una vita civile ordinata e saggia, fondata sulla giustizia e sui valori morali, intesa al bene comune e alle belle opere di pace, era già ben chiaro e saldo nella sua coscienza, almeno fin dal tempo delle rime morali e allegoriche, di cui si è detto più su, contemporanee alla sua partecipazione alla vita politica; e l’uomo politico non smentì il poeta. Già fin d’allora la politica era per lui un fatto morale. Piuttosto dovremmo domandarci s’egli possedesse le doti per fare il politico militante: vogliamo dire intuito politico, non la mera abilità di destreggiarsi del politicante. Anche qui non abbiamo elementi per un giudizio sufficientemente fondato, anche perché non pochi sono i punti controversi della caotica situazione di Firenze in quel periodo. Quel che tuttavia sembra potersi fondatamente affermare è che, senza contare la destrezza e fermezza del suo priorato, la stessa coraggiosa politica di opposizione a Bonifazio e al Valois era nello stesso tempo lungiminante e non inattuabile: la prova della possibilità di una resistenza vittoriosa fu data da Pistoia, che, rimasta in potere dei Bianchi, fu invano cinta d’assedio per un mese dal Valois, primo della serie degli insuccessi di quel principe.
L’esilio accomunò i Bianchi con i ghibellini fuorusciti, nel tentativo di rientrare in Firenze con le armi. Quell’anno stesso (sembra l’8 giugno) l’A. compare insieme con altri diciassette Fiorentini, bianchi (tra gli altri, tre dei Cerchi) e ghibellini (quattro degli Uberti, ecc.), convenuti nella chiesa di S. Godenzo nel Mugello, per dar garanzie agli Ubaldini di risarcirli dei danni che potessero venir loro dalla guerra in corso o da farsi nelle loro terre contro Firenze. Sembra ch’egli allora fosse uno dei dodici consiglieri (L. Bruni) dell'”Università della parte dei Bianchi della città e del contado di Firenze”, presto costituitasi tra i banditi. Nell’agosto dello stesso anno (1302) si combatté al castello di Monte Accianico, possesso degli Ubaldini, tra Neri e Bianchi, con la vittoria di questi ultimi: non sappiamo se a questo fatto d’arme prendesse parte anche l’Alighieri. Ma nel settembre Moroello Malaspina, al comando dei Neri, costringeva alla resa, dopo 4 mesi di assedio, la fortezza di Serravalle nell’agro pistoiese, che si diceva Campo Piceno: molto probabilmente l’A. partecipò alla difesa di essa, se a questa sconfitta dei Bianchi, per opera del Malaspina, allude la predizione di Vanni Fucci (Inf. XXIV, vv. 145-150), come ci sembra preferibile ritenere. Vero è, infatti, che il Malaspina continuò la guerra contro Pistoia fino alla resa della città nell’aprile del 1306, il che segnò la definitiva catastrofe dei Bianchi: e a questo fatto – certo più importante – altri credono debba riferirsi l’allusione di Vanni. Senonché in quell’epoca l’A., come vedremo, si era da un pezzo staccato sdegnosamente dagli altri fuorusciti; anzi, nell’ottobre dello stesso 1306, sarà ospite appunto dei Malaspina: e poiché la profezia di Vanni è intesa a procurare un vivo dolore all’A., essa si riferirà a un fatto in cui egli doveva essere personalmente, direttamente impegnato, e quindi piuttosto all’epoca in cui era ancora nella mischia e si faceva illusioni sulle possibilità di vittoria della parte in cui militava. Nel 1303 egli era a Forlì, presso Scarpetta Ordelaffi, ch’era stato nominato capitano dei Bianchi: ch’egli aiutasse il suo segretario, Peregrino Calvi, a dettar le lettere, secondo l’attestazione di Flavio Biondo (Decades II, 9), è possibile, ma non certo (dovremo riparlare del Calvi per una sicura mistificazione); e forse da Forlì si recò per la prima volta a Verona presso Bartolomeo della Scala, per chiederne l’aiuto. E quivi è molto probabile che si fermasse fino alla morte di quel signore (7 marzo 1304), per le ragioni che diremo tra poco. Nel marzo del 1303 l’Ordelaffi, entrato nel Mugello, si spinse fino a Castel Puliciano, a otto chilometri da Firenze, e lo espugnò; ma la sua vittoria si trasformò in una sanguinosa sconfitta per il sopraggiungere immediato del podestà di Firenze, il terribile Fulcieri da Calboli (cfr. Purg. XIV, vv. 58-66): l’Ordelaffi dovette ritirarsi; molti i morti e i prigionieri: di questi, condotti a Firenze, alcuni furono esposti al ludibrio del popolo e impiccati. In seguito a questa grave disfatta “i Bianchi e i Ghibellini usciti rimasero rotti e sciarrati” (Villani, VIII, 60): la guerra dei Bianchi si dimostrava tutto un seguito di errori e d’insuccessi: come avviene in questi casi, gli uni avranno addossato la colpa agli altri; e forse ha inizio da questo momento il contrasto tra l’A. e i suoi compagni di esilio. Il 12 ott. 1303, poco dopo l’oltraggio di Anagni, era morto Bonifazio VIII. Il nuovo pontefice, Benedetto XI, uomo di santa vita e di pie intenzioni, sinceramente desideroso di metter pace nella travagliatissima città, mandò a Firenze come paciere, il 10 marzo del 1304, il cardinale Niccolò da Prato. Il 26 aprile la pace fu giurata in piazza S. Maria Novella: effimera pace, che durò un mese. I Neri, e in specie Corso Donati, non potevano rinunciare al loro predominio: provocarono tumulti e combattimenti; uno spaventoso incendio, appiccato alle case dei Cavalcanti, distrusse il centro della città.
Il 10 giugno il cardinale fu costretto a fuggire; il 7 luglio moriva improvvisamente – si disse, avvelenato – Benedetto XI, a Perugia, il giorno dopo l’arrivo di Corso Donati, ch’egli aveva chiamato a scusarsi; e i Bianchi ripresero le armi. Il 20 luglio si venne alla giornata della Lastra, che, per la disorganizzazione dell’esercito, benché una schiera isolata fosse già penetrata in Firenze, si risolse in una completa disfatta.
Dove fosse l’A. durante questi avvenimenti, tra il marzo e il luglio 1304, non sappiamo. Un documento del 13 maggio prova che il fratello Francesco, anch’egli esiliato (quando non si sa; ma nel 1309 risulta già rientrato a Firenze), era ad Arezzo (Piattoli, 94), dove contraeva un mutuo di 12 fiorini: ma ciò non prova che fosse con lui Dante; anzi, la relativa esiguità del mutuo farebbe pensare ch’esso servisse alle necessità del solo Francesco. D’altra parte, i vv. 61-69 di Par. XVII, nei quali l’A. accenna al suo dissenso con gli altri sbanditi, all’essere stati gli altri, e non lui, danneggiati dagli errori commessi, sicché per lui era stato bello aversi fatta parte per sé stesso, sembrano piuttosto alludere a una rottura molto presto determinatasi tra lui e “la compagnia malvagia e scempia” fattasi tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui: così presto ch’egli non restò coinvolto nelle successive “bestialità” dei Bianchi. Sappiamo solo che l’animosità dei Bianchi contro di lui, quali che fossero precisamente le colpe che gl’imputavano, fu così violenta da volerne addirittura la morte, non meno dei Neri: Brunetto Latini gli predirà che l’una parte e l’altra avrà fame di lui, ma egli si salverà tenendosi lontano da esse (Inf. XV, vv. 70-72). E poiché egli ci fa sapere che il suo “primo refugio, il primo ostello”, fu presso uno Scaligero, di cui tesse alte lodi, e questo non può essere se non Bartolomeo, che morì il 7 marzo 1304, giacché del successore Alboino, in. Conv. IV, xvi, 6, egli dà un giudizio sprezzante, parrebbe doversi concludere che la rottura tra l’A. e i suoi compagni di sventura fosse già avvenuta prima della fine del 1303: e questo porterebbe ad escludere l’attribuzione a lui dell’epistola al cardinal da Prato.
Dalla prima dimora veronese (1303-marzo 1304) all’ottobre 1306 non sappiamo nulla di preciso delle sue peregrinazioni. È da credere che dopo la morte di Bartolomeo l’A. lasciasse Verona; ed è probabile che passasse a Padova, dove Giotto lavorava (1304-05) nella cappella degli Scrovegni, e dove poté ritrovare Ildebrandino Mezzabati, già capitano del popolo a Firenze nel 1291-92, ch’egli ricorda in De vulgari eloquentia I, xiv, 7 come l’unico poeta tra i Veneti che cercasse di allontanarsi dal volgare materno e tendesse a quello curiale, e col quale scambiò il sonetto allegorico di Lisetta respinta nella sua pretesa di amore (Per quella via che la bellezza corre). Certo fu in questo tempo a Treviso, presso Gherardo da Camino, che morì nel marzo del 1306, del quale egli esalta la grande nobiltà in Conv. IV, xiv, 12 (cfr. anche Purg. XVI, vv. 121-124); e forse di lì a Venezia, di cui ricordò più tardi l’operosità dell’arsenale in Inf. XXI, vv. 7 ss. E potrebbe essere stato allora anche a Reggio presso Guido da Castello, anch’egli lodato in Purg. XVI, vv. 125-126. Sono questi gli anni in cui egli andò “per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, …mostrando contro sua voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata”, come “legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade”, apparendo “a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma lo aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente la sua persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera sì già fatta, come quella che fosse a fare. (Conv. I, iii, 4-5). Sono gli anni in cui, appunto perché il nome suo ancora non sonava molto, più amaramente provò “come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”, e più di una volta, forse “si condusse a tremar per ogni vena”, costretto a mendicare l’ospitalità altrui (cfr. Par. XVII, vv. 58-60; Purg. XI, vv. 138-141). E sono anche gli anni in cui, come attesta il Bruni, “ridussesi tutto umiltà, cercando con le buone opere e con buoni portamenti riacquistar la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s’affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a privati cittadini del reggimento, ma anche al popolo, ed intra l’altre una epistola assai lunga, la quale comincia Popule mee, quid feci tibi?” Ma un’esplicita domanda di perdono abbiamo nel secondo congedo della Canzone della Drittura, Tre donne intorno al cor mi son venute: in esso il poeta esorta la canzone, che è, sì, la canzone di un bianco, un'”uccella con le bianche penne”, ad accompagnarsi “con li neri veltri”, che, egli dice, “fuggir mi convenne, ma far mi poterian di pace dono. Però nol fan che non san quel che sono: camera di perdon savio uom non serra, ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra”. Alle quali parole rispondono le altre del Convivio I, iii, 4, scritte certamente durante questo stesso periodo di tempo, e dettategli da questo stesso stato d’animo: “Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nudrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato…”. E per dimostrare alla patria chi fosse il figlio ch’essa aveva bandito, non meno che per riscattare agli occhi dei signori che l’ospitavano la sua umiliante condizione di peregrino e mendico, egli mise mano a due opere di alto impegno, ilConvivio, appunto, e il De vulgari eloquentia.
Cecco Angiolieri, che, al tempo della Vita nova, aveva mostrato verso il poeta di Beatrice un certo riguardo (Dante Allaghier, Cecco, ‘l tu’ servo e amico), non ne dimostra nessuno e lo tratta con arroganza provocatoria, giudicandolo alla sua stessa stregua, all’epoca in cui l’A. peregrinava per le corti lombarde, attribuendo la comune sorte di servire in case altrui non solo a “sventura”, ma anche a “poco senno” (Dante Alighier, s’i’ son bon begolardo).
Vero è che non dovettero mancare all’A., anche in questo periodo della sua maggior miseria, attestazioni di stima e di simpatia. Al grossolano sonetto ora citato di Cecco rispose messer Guelfo Taviani di Pisa, trattandolo da matto a voler contendere con l’A., di cui esaltava l’ingegno e il sapere filosofico. Ma non poco dovette confortarlo, più che ogni altra, l’amicizia, contratta molto probabilmente al tempo della Vita nova, con Cino da Pistoia (cfr. la canzone consolatoria di Cino per la morte di Beatrice, Avegna ched el m’aggia), il quale, cacciato in esilio, come nero, nell’estate del 1301, al tempo del predominio dei Bianchi nella sua travagliata patria, si era recato a Bologna a ultimare gli studi di legge, conseguendone, intorno al 1304, il relativo grado accademico. E poiché l’esilio di Cino finì con la caduta di Pistoia in mano dei Neri (aprile 1306), entro questi termini sorse l’amicizia tra i due poeti e si svolse la loro corrispondenza epistolare e poetica. Sebbene di parte avversa, erano entrambi superiori alle parti, alle quali avevano aderito per motivi contingenti, entrambi disgustati delle lotte faziose. Non è tutto esercizio di letterati la corrispondenza tra i due amici poeti: ci sono, nei sonetti di Cino all’A., espressioni che attestano un affetto e una stima sinceri, quasi da discepolo a maestro. Cino propone questioni di amore, e l’A. risponde da conoscitore provetto della materia. Nè è improbabile, stante l’amicizia del pistoiese con Moroello Malaspina, che sia stato proprio Cino a introdurre l’A. presso quella nobile famiglia. Quando con precisione si recasse presso i Malaspina, non sappiamo; ma doveva già da qualche tempo essere ospite di Franceschino, cugino di Moroello, in Lunigiana, se il 6 ott. 1306 il marchese lo costituì “suum legitimum procuratorem, actorem, factorem et nuncium specialem” per stipulare la pace, le cui trattative – verosimilmente con la partecipazione dell’A. – dovevano essere state precedentemente avviate e condotte a termine, con il vescovo conte di Luni: il trattato di pace, che chiudeva un lungo periodo di guerre, rapine, incendi, violenze d’ogni sorta dall’una e dall’altra parte, fu firmato lo stesso giorno “in ora tercia”. Questa nomina è di per sé dimostrazione della stima che l’A. godette presso la famiglia: e verosimilmente ne sperimentò per un periodo non di pochi mesi la cortesia e liberalità, passando dalla corte di uno a quella di un altro dei membri della nobile casa. Certo, oltre che presso Franceschino, fu anche presso lo stesso Moroello, come provano un sonetto (Degno fa voi trovare ogni tesoro), scritto dall’A, a nome del marchese in risposta ad altro di Cina, e una letterina con la quale accompagnava l’invio a Moroello della canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia.
Pur peregrinando da una regione all’altra e di corte in corte, l’A. attendeva, in questo periodo, tra il 1304 ed il 1307, alle due opere che avrebbero dovuto, per l’ingegno e la dottrina in esse profusi, innalzarlo agli occhi di coloro presso i quali era costretto a cercare ospitalità. Poiché il I libro del De vulgari eloquentia fu scritto prima della morte di Giovanni I, marchese di Monferrato (febbraio 1305), a cui si accenna (cap. XII, 5) come a vivente, l’inizio del Convivio dovrà porsi nei primi mesi del 1304 (ad anticiparlo alla fine del 1303 si oppone la sua dichiarazione, per quanto certamente esagerata, al principio stesso del libro, di aver già peregrinato per quasi tutte le parti d’Italia), e l’inizio del De vulgari eloquentia qualche mese dopo quello del Convivio e comunque non più tardi della fine del 1304.
Il trattatello retorico costituì una breve parentesi nella stesura del Convivio: scritti di getto, come pare, il primo libro e il principio del secondo, esaurita, cioè, la parte generale e teorica, più ampiamente speculativa, quando, col cap. V del II libro, l’A. passò alla parte propriamente retorica e normativa, è probabile che fosse preso dal fastidio di una trattazione troppo angusta; e s’interruppe al cap. XIV: tra l’inizio e l’interruzione non dovettero trascorrere che pochi mesi. Il trattato fu concepito “come una organica arte del dire in volgare, fondata su principî di filosofia, di poetica e di retorica universali, tali da valere anche per una lingua di popolo che assurga ad espressione d’arte. La stessa ricerca ch’egli fa di una lingua “illustre, cardinale, aulica, curiale”.
Appaiono anche notevoli, nel trattato, la chiarezza del concetto della naturale evoluzione delle lingue; il tentativo dì aggruppamento delle lingue europee in tre grandi famiglie – nordica, sud-orientale, sud-occidentale -, l’ultima delle quali egli vedeva suddivisa in un “ydioma trifarium”, cioè nelle tre lingue romanze d’oc, d’oïl e di sì, di cui intuiva esattamente l’unità, ma non la genesi; la divisione delle regioni linguistiche d’Italia segnata dallo spartiacque appenninico; l’ideale di una superiore unità linguistica d’Italia, accompagnato dal sentimento della potenziale unità spirituale d’Italia, ove fosse esistita un’aula e una curia, cioè una reggia e un senato, in cui si sarebbero raccolti i più eccellenti degli Italiani. Il resto, quasi tutta la parte filosofica e biblica (differenza tra gli angeli e gli uomini nel comunicare tra loro; la lingua ebraica data da Dio ad Adamo rimasta inalterata [opinione che rettificherà in Par. XXVI, vv. 124-127]; l’origine della diversità dei linguaggi dalla confusione babelica; l’invenzione delle lingue “grammatiche”, inalterabili per diversità di tempi e di luoghi) è cosa morta con le idee e cognizioni del tempo.
Interrotto il De vulgari eloquentia, l’A. tornò al Convivio; ma anche questo interruppe, certamente dopo il marzo 1306. L’A. afferma di essere stato mosso a scrivere il Convivio da due ragioni: il proposito di purgarsi della “infamia”, cioè del biasimo di “levezza d’animo” per aver cantato con passione altri amori dopo la morte di Beatrice, e il “desiderio di dottrina dare”. La prima di queste due ragioni gli suggerì la forma esterna dell’opera: un commento alle stesse canzoni amorose, col quale avrebbe mostrato “che non passione ma virtù” era stata l’ispiratrice di esse, spiegandone “la vera sentenza… nascosta sotto figura di allegoria”. E, riallacciandosi al racconto della Vita nova, del suo “consentire ” all’amore per la “donna gentile” così si giustifica: “la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia”. Vita nova e Convivio vengono così ad integrarsi, dimostrando che l’unico amore terreno del poeta era stato ed era ancora Beatrice (“quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli, e in terra con la mia anima”, Conv. II, ii, 1).
Dopo l’ospitalità dei Malaspina, e, probabilmente, dei conti Guidi nel Casentino, si suppone ch’egli passasse a Lucca. A un suo soggiorno in questa città accenna l’A. stesso; e ci fa sapere che gli riuscì gradito per la cortesia di una gentildonna di nome Gentucca (si pensa a una Morla o a una Fondora di questo nome, che nel 1300 dovevano essere giovanissime, e quindi non portavano “ancor benda”: cfr. Purg. XXIV, vv. 37-45). Sappiamo anche di lagnanze dei Fiorentini per l’ospitalità che in essa trovavano, tra il 1308 e il 1309, esuli e sbanditi dalla nuova guerra civile scoppiata in Firenze tra i Neri stessi, nella quale perì Corso Donati, tanto che il Comune di Lucca si decise a interdire ad essi il soggiorno, con un editto del 31 marzo 1309. E già si è detto del documento lucchese del 21 ott. 1308, in cui compare un “Iohannes filius Dantis Alagherii de Florentia“. Sicché è molto probabile che appunto al 1308 debba assegnarsi la dimora dell’A. nella città di Gentucca. Sulle sue peregrinazioni tra la fine del 1308 e la fine del 1310 non abbiamo elementi neppure per formulare qualche congettura. C’è, però, l’affermazione di Giovanni Villani, ripetuta insistentemente dal Boccaccio, di un viaggio dell’A. a Parigi, per studiare in quella celebre università, donde sarebbe tornato dopo la discesa in Italia di Arrigo VII. Dirigendosi oltralpe, secondo il Boccaccio, si sarebbe fermato al monastero di S. Croce del Corvo, presso Lerici; e qui, secondo la lettera di un frate Ilario, trascritta dal Boccaccio stesso nel suo Zibaldone dantesco (cod. Laurenz. XXIX, 8), egli avrebbe dato al frate una copia dell’Inferno con sue chiose, invitandolo ad aggiungervi le proprie, e inviare poi l’opera a Uguccione della Faggiuola. Ma la lettera è tutta un’assurdità, e pertanto non prova nulla. Né valore probativo hanno gl’indizi indiretti di un viaggio in Francia, che si son voluti trovare nella Commedia, dei quali i più rilevanti sarebbero la menzione (in Par. X, v. 137) del ” vico delli strami”, la parigina Rue de Fouarre, dove erano le scuole di filosofia, e la descrizione dell’esame del baccelliere in Par. XXIV, vv. 46-48, giacché il vicus straminum era ben noto per fama, e a esami del genere l’A. certo avrà assistito negli Studi di Firenze e di Bologna. E infine, aveva l’A. la possibilità di mantenersi a Parigi? o di chi sarebbe stato ospite?
Frattanto si preparavano eventi, che dovevano lasciare nel cuore e nell’opera dell’A. impronte indelebili. Il 27 nov. 1308 era stato eletto Imperatore Arrigo VII, conte di Lussemburgo; e il 20 luglio del 1309 papa Clemente V, il “guasco”, successo nel 1305 a Benedetto XI, da Avignone, dove aveva trasferito la Curia papale, comunicava con un’enciclica alla cristianità di averlo riconosciuto re dei Romani (“carissimum fllium nostrum Henricum,… denunciavimus et declaravimus regem Romanorum”), promettendo d’incoronarlo nella basilica di S. Pietro. I rapporti tra le due supreme autorità erano ottimi: Clemente nel 1307 aveva nominato Baldovino, fratello di Arrigo, arcivescovo di Treviri, per cui questi era diventato uno dei grandi elettori tedeschi; e di Arrigo aveva favorito l’elezione. Arrigo, da parte sua, nel chiedere al pontefice la consacrazione, lo aveva riconosciuto come “luminare maius”, aveva proclamato il suo amore della pace e la volontà d’instaurarla, aveva affermato il proposito di liberare il Santo Sepolcro: tutto ciò che stava a cuore al pontefice. La terra dell’Impero dove bisognava imporre la pace era l’Italia. Fuorusciti, ghibellini, e guelfi fattisi ghibellini, mandavano all’imperatore ambascerie, invocandone l’intervento, con doni e assicurazioni di aiuti. Nell’agosto del 1309, a Spira, la spedizione in Italia fu decisa; e intanto, tra la primavera e l’estate del 1310, ambasciatori imperiali furono inviati alle città italiane, per richiedere l’omaggio all’imperatore e la sospensione delle guerre in corso. Tra la generale riguardosa accoglienza che ad essi venne fatta, Firenze fece sentire una nota meno rispettosa. Narra il Compagni (III, 35) che nel Consiglio in cui i messi esposero i mandati imperiali, si levò primo a parlare Betto Brunelleschi, affermando “che mai per niuno signore i Fiorentini non inchinarono le corna”. Secondo Flavio Biondo, l’A. avrebbe dimorato allora (luglio 1310) a Forlì presso Scarpetta Ordelaffi, e avrebbe scritto, a questo riguardo, una lettera a Cangrande, a nome della parte bianca degli esuli e suo, deplorando la cecità dei Fiorentini. Il Biondo aveva sott’occhio la lettera, lasciata scritta da Peregrino Calvi, il segretario dell’Ordelaffi, di cui già si è detto, e vi prestò fede; ma essa era certamente una mistificazione del Calvi, a provar la quale basta il fatto che l’A. da molti anni aveva troncato ogni rapporto coi Bianchi (Barbi, Sulla dimora di D. a Forlì, in Problemi s. 1 [1934], pp. 189-195). Finalmente, attraverso gli stati del conte Amedeo di Savoia, suo cognato, il 23 ott. 1310 Arrigo entrò in Italia a Susa, con piccolo esercito. Ne aveva preannunziata la venuta Clemente V, il 1º settembre, con una calorosa epistola in cui lo proclamava il “re pacifico innalzato fra le genti dalla grazia divina…, frutto di questa grazia”, che avrebbe restaurato la giustizia senza parteggiare per gli uni o per gli altri, e invitava tutti ad accoglierlo con onore. Questa amorevole concordia delle due supreme autorità del mondo cattolico, da secoli in lotta tra loro, per attuare così alto programma di pace e di giustizia, dovette sembrare un miracolo. Non poche, infatti, sono le testimonianze della commozione che si diffuse in Italia, quasi si aprisse una nuova era. S’erano perfino visti presagi celesti della venuta di Arrigo: una notte era apparso in aria “uno grandissimo fuoco.., correndo dalla parte d’Aquilone verso il meriggio con grande chiarore, sicché quasi per tutta Italia fu veduto, e fu tenuto a grande maraviglia; e per gli più si disse che fu segno della venuta dello ‘mperadore” (Villani, VIII, 109). Entrato Arrigo in Italia, da Torino a Milano fu quasi tutto un trionfo: egli aveva dichiarato di aborrire le parti, e guelfi e ghibellini s’inchinavano a lui parimenti; gli esuli tornavano nelle città, dove vicari imperiali erano posti a garantire l’imparzialità della giustizia; città rivali giuravano tra loro pace. Parve un miracolo il passaggio del Ticino, avvenuto senza bisogno di navi.
Bisogna tener presente l’atmosfera di fervore quasi religioso, che sembrava avesse invaso gli animi lacerati dalle passate discordie, per meglio comprendere e giustificare il tono dell’epistola che l’A. rivolse a tutti i regnanti, i signori, i Comuni d’Italia e i senatori di Roma, quando l’imperatore stava per passare le Alpi. Poiché nella chiusa di questa epistola l’A. si riferisce esplicitamente all’enciclica di Clemente del 1º settembre, e, poco dopo il principio, dice, rivolgendosi all’Italia, “sponsus tuus, mundi solatium et gloria plebis tue, clementissimus Henricus, divus et Augustus et Cesar, ad nuptias properat”, è evidente che essa fu scritta dopo che l’enciclica fu conosciuta e prima dell’entrata in Italia dell’imperatore. Dove fu scritta non sappiamo: alcuni pensano a Forlì, dando, in questo, parziale credito alla notizia, più su riferita, di Flavio Biondo. L’epistola comincia con le squillanti parole di Paolo ai Corinzi (II, vi, 2) “Ecce nunc tempus acceptabile”, ed è tutta intessuta di espressioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, non, però, senza qualche eco di Virgilio e qualche riferimento alla storia di Roma, l’altro Testamento della fede politica dell’Alighieri. Arrigo è detto un altro Mosè che strapperà il suo popolo dalla servitù degli Egiziani, il pastore discendente da Ettore, il predestinato da Dio a portare consolazione e pace alla misera Italia, il sole che farà di nuovo risplendere la giustizia. Tutti s’inchinino a lui: egli punirà gli empi e i malvagi, ma avrà misericordia di quelli che si saranno pentiti, perché la sua autorità sgorga da Dio, fonte di pietà. E perciò gli oppressori si liberino dalla barbarie longobardica da essi acquisita, e non resistano a lui, che varrebbe quanto resistere a Dio; e gli oppressi, coloro che, come l’A., sono stati ingiustamente colpiti, riprendano animo, e perdonino a loro volta. Dio ha mandato l’imperatore, e il vicario di Dio esorta ad onorarlo. È questo, di tutti gli scritti danteschi di politica militante, quello in cui più alto, più puro si manifesta il suo sentimento: uno scritto, si direbbe, religioso più che politico, perché la sua ispirazione fondamentale è l’immensa fiducia dell’A, nella provvidenza divina; la polemica generale e personale è tutta disciolta in questo sentimento della presenza di Dio nello straordinario evento: Arrigo, più che l’imperatore, è il Messia, e l’A. si sente il suo profeta. Due concetti in essa crediamo opportuno segnalare, sebbene si tratti di un semplice accenno: uno, che da Dio “velut a puncto biffurcatur Petri Cesarisque potestas”; l’altro, che i sudditi dell’imperatore sono non solo riservati al suo comando, ma, come uomini liberi, al governo da lui regolato (“non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati”): sono due concetti importantissimi, che verranno sviluppati rispettivamente nel III e I libro della Monarchia.
Ignoriamo dove e quando l’A. rese il suo omaggio all’imperatore: probabilmente egli non dovette tardare a corrergli incontro; forse ancor prima che cingesse la corona di ferro a Milano (epifania 1311). Comunque, al fatto accenna nella lettera, di cui diremo tra poco, all’imperatore stesso, del 17 aprile, nella quale ricorda il giorno memorabile in cui lo vide e lo udì, e gli si prostrò ai piedi: “Tunc – egli dice addirittura coi testi sacri (Luca I, 47; Giovanni I, 29) – exultavit in te spiritus meus cum tacitus dixi mecum `Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi’”: nessuna meraviglia che alla esaltazione del momento l’A. non trovasse espressione adeguata se non nelle parole del Precursore al Messia. Ma all’impresa pacificatrice di Arrigo, così felicemente iniziata, sorsero ben presto i primi ostacoli: le paci si rivelarono effimero frutto di una momentanea generale commozione, non di convinzione e di buona volontà, come tante altre volte era avvenuto, in seguito all’intervento di papi o alla predicazione di religiosi e di santi, nella storia del nostro Medioevo. Una situazione così tesa e così complessa qual’era quella allora dei Comuni e delle larvate Signorie d’Italia non poteva essere appianata d’un tratto, senza provocare prima o poi la reazione dei potenti, menomati nei loro interessi particolari dall’intervento dell’imperatore. Anche il ritorno dei fuorusciti, provvedimento – teoricamente – di somma giustizia, non sempre risultava politicamente opportuno o senza pericoli. Né la forza militare dell’imperatore era tale da tenere a freno e intimidire i più irrequieti e i più decisi. La scintilla della rivolta fu data da Guido Della Torre, ch’era stato signore di Milano, e che aveva dapprima accolto senza resistenza il monarca nella città; la rivolta fu soffocata nel sangue e le truppe si abbandonarono al saccheggio. L’astro del re pacifico si oscurava. Rifugiatosi a Cremona, il Della Torre sollevò anche questa città contro l’imperatore. Seguì la ribellione di Brescia, caduta in mano dei guelfi: minori focolai di rivolta si accendevano per tutta la Lombardia. Firenze intanto apertamente si preparava in tutti i modi alla lotta: costruiva alacremente mura, fossi, steccati intorno alla città; stringeva una lega fra le città guelfe toscane, alla quale aderì Bologna; aiutava col denaro le città ribelli lombarde, sollecitava l’appoggio del re Roberto di Napoli, tramava contro Arrigo alla corte di Avignone. All’A. tutto ciò sembrò follia ed empietà a un tempo; e il 31 marzo 1311 si rivolse direttamente “agli scelleratissimi Fiorentini di dentro”, con un’epistola in cui lo sdegno è senza dubbio assai più forte della carità di figlio che, prevedendo la rovina sicura della patria, cerchi persuadere i suoi concittadini ad evitarla.
Quasi certamente l’A. era ospite del conte Guido di Battifolle nel castello di Poppi, nel Casentino. Quanto tempo egli dimorasse ancora nel Casentino non sappiamo; ma vi era ancora il 18 maggio, e precisamente nel castello di Poppi, come indica la data della terza delle tre letterine, che a buon diritto si ritengono scritte da lui a nome della contessa toscana palatina G[herardesca] di Battifolle, moglie del conte Guido, e indirizzate all’imperatrice. Sono tre ornatissime letterine di ringraziamento e di ossequio, e di auguri per la felice riuscita dell’impresa di Arrigo, in risposta alle lettere dell’imperatrice; ma s’insinua in esse così evidente la personalità dell’A., con i suoi concetti e i suoi sentimenti (il principe unico voluto dalla provvidenza per il consorzio umano; la speranza che Arrigo riformi in meglio la società traviata), che non parrebbe giustificato il dubbio sulla loro attribuzione all’Alighieri. Il 15 giugno Arrigo prese finalmente Cremona, e pose subito l’assedio a Brescia; ma la città non si arrese che nel settembre; e nei quattro mesi di assedio le perdite dell’esercito imperiale, anche per il flagello della peste, furono tali che Arrigo, prima di recarsi a Roma per l’incoronazione, decise di sostare a Genova per raccogliere nuove forze (ottobre 1311-febbraio 1312). Qui il 10 dic. 1311, dopo aver invano mandato a Firenze nuovi ambasciatori, i quali furono addirittura costretti a fuggire, mise Firenze al bando dell’Impero, dopo regolare processo, al quale furono chiamati molti testimoni. Non sappiamo se l’A. fosse tra questi; ma non è improbabile che, allontanatosi dal conte Guido, quando questi cominciava a tergiversare tra l’ossequio dato all’imperatore e le ingiunzioni di Firenze, alle quali infine, come si è detto, ubbidì, l’A. passasse a Genova al seguito dell’imperatore. Il 2 sett. 1311 egli era stato escluso dall’amnistia concessa da Firenze a molti dei guelfi cacciati in bando, con la cosiddetta Riforma di Baldo d’Aguglione. Era questi il principale dei priori allora in carica, abilissimo e disonesto uomo di leggi, verso cui l’A. non nascose il suo disprezzo (Par. XVI, vv. 55-57), già condannato per aver raso da un atto notarile una testimonianza sfavorevole a un suo cliente (Purg. XII, v. 105). Ma la Riforma era atto di grande avvedutezza. Il nome dell’A. appare tra gli esclusi del sesto di Porta S. Pietro, insieme con i figli di messer Cione del Bello, suoi cugini (Piattoli, 106). Da Genova Arrigo sbarcò a Pisa il 6 marzo 1312; e potrebbe darsi che vi fosse anche l’A., se in questo periodo (marzo-aprile 1312) avvenne l’incontro tra lui e Francesco Petrarca bambino, che a Pisa aveva compiuto il suo settimo anno (Famil. XXI, xv, 7; I, 1, 24). Da Pisa Arrigo il 19 aprile mosse verso Roma. Qui le milizie di Roberto d’Angiò, insieme con quelle inviate da Filippo il Bello, al comando del fratello Giovanni, avevano occupato il Campidoglio, il Vaticano e Castel Sant’Angelo; ed erano dalla loro parte le famiglie degli Orsini e dei Caetani. Dalla parte dell’imperatore si schierarono i Colonna. Il papa, che aveva mandato cardinali legati per incoronare l’imperatore in sua vece, ormai schiavo della volontà del re di Francia, non si mosse in suo favore, dimostrando di tollerare l’opposizione angioina. Arrigo s’insediò in Laterano, mentre per le vie si combatteva. Nella confusione della situazione, espugnato con le armi il Campidoglio, Arrigo vi convocò il popolo di Roma; e questo impose al cardinal legato Niccolò da Prato l’incoronazione dell’imperatore. La quale avvenne solennemente nella festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 1312, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, e non in quella di S. Pietro, come in luogo più sicuro. Ma non era passato un mese dall’incoronazione, che a Tivoli, dove stava passando l’estate, gli giunsero lettere di Clemente V, che gl’imponeva di uscire dalle terre della Chiesa, e di far tregua con Roberto d’Angiò. Rispose l’imperatore il 6 agosto, affermando l’indipendenza dell’autorità imperiale da quella del pontefice, e il diritto di risiedere nella capitale dell’Impero. Poco dopo lasciò effettivamente lo Stato della Chiesa, e, raccogliendo milizie attraverso l’Umbria e la Toscana, giunse il 19 settembre davanti a Firenze. L’assedio, che durò quaranta giorni, fu del tutto vano: l’imperatore era malato; le truppe imperiali, inferiori di numero, non riuscivano neppure a cingere per intero la città; nessun fatto d’arme di qualche rilievo; solo esso diede occasione ad ogni sorta di violenze, da parte di ghibellini e guelfi fuorusciti, assetati di vendetta. L’A., che un anno e mezzo prima aveva sollecitato Arrigo ad estirpare Firenze, radice dei mali, non fu con lui nell’assedio. Il suo nome, infatti, non compare nella condanna emanata da Firenze il 7 marzo del 1313 contro i fuorusciti presenti nel campo dell’imperatore. Questi il 1º novembre tolse l’assedio della città e passò l’inverno a Poggibonsi in attesa dell’esercito che aveva mandato a raccogliere in Germania. La sua intenzione era di muover guerra a re Roberto, che, citato a comparire al suo giudizio, il 26 apr. 1313 fu processato in contumacia e messo al bando dell’Impero. Re Roberto, a sua volta, si appellava al papa, dichiarando decaduto l’Impero e reclamando i diritti della sua Casa, mentre i suoi giuristi affermavano che, con la donazione di Costantino, tutti i diritti imperiali erano stati trasferiti al pontefice. Il 12 giugno Clemente V lanciava la minaccia di scomunica all’imperatore, se fosse entrato nel Regno di Napoli: ormai era palese l’inganno del Guasco (Par. XVII, v. 82), che prima aveva caldeggiato l’intervento di Arrigo nelle cose d’Italia, ed ora serviva gl’interessi franco-angioini. Riteniamo che in questo periodo, tra le prime ostilità del papa, subito dopo l’incoronazione, e la minaccia della scomunica, l’A. debba aver posto mano alla composizione della Monarchia.
Scrivendo la Monarchia, l’A. scendeva anch’egli in campo a sostenere la causa di Arrigo, ma senza mescolarsi con la trista compagnia dei fuorusciti, animati solo da rancori personali, nel modo più confacente alla sua qualità di uomo di studio, al suo carattere, alla superiore idealità delle sue convinzioni.
Frattanto Arrigo, benché malato, senza aspettare l’arrivo dell’esercito già raccolto in Germania, e senza tener conto della scomunica minacciata, ai primi d’agosto si mosse da Pisa per la guerra contro re Roberto. Già si cantava la vittoria dell’imperatore, e tanto era il timore della parte guelfa che Firenze, che aveva tanto lottato per la sua indipendenza, accettò la signoria dell’Angioino, esercitatavi mediante un suo vicario. Ma il 24 ag. 1313 a Buonconvento, non lontano da Siena, Arrigo morì. Corse voce che fosse stato avvelenato dal suo confessore con l’ostia consacrata; ma il male di Arrigo era cominciato all’assedio di Brescia; e l’A., che raccolse la voce dell’avvelenamento di s. Tommaso per mandato di Carlo I d’Angiò (Purg. XX, v. 69), non raccolse questa, riconoscendola falsa. Grande e sincero fu il compianto, e non soltanto da parte dei suoi fautori, perché grande era stata la fama delle sue virtù, che lo avevano posto al di sopra delle parti: Cino da Pistoia, guelfo nero, ma suo sostenitore, in una delle due canzoni scritte in quell’occasione, così ne pianse la morte: “L’ha Dio chiamato, perché ‘l vide degno d’esser cogli altri nel beato regno”. L’A., come pare, tacque: conosciamo la sua esultanza e le sue speranze nella venuta di Arrigo, non il dolore per la sua fine; ma gli preparava un seggio in Paradiso, e la vendetta contro il papa che l’aveva tradito (Par. XXX, vv. 133-148). L’impresa di “drizzare l’Italia” era fallita; ma l’A. non perdette la speranza che un giorno qualcuno l’avrebbe felicemente compiuta. Arrigo, secondo lui, era venuto prima che Italia fosse a ciò disposta: era stato il Precursore, sarebbe venuto il Redentore: l’A. non poteva dubitarne, come non dubitava dell’occulta provvidenza di Dio.
Otto mesi dopo la morte di Arrigo, il 20 apr. 1314 morì Clemente V, vituperato e condannato da tutti. Probabilmente sull’inizio del lungo conclave, terminato solo il 7 ag. 1316 con l’elezione del “caorsino” Giovanni XXII, e prima del tentativo di uccisione dei cardinali italiani, da parte dei guasconi, a Carpentras (24 luglio 1314), l’A. indirizzò un’epistola ai cardinali e in particolare a quelli italiani: il titolo conservatoci nello Zibaldone del Boccaccio in cui essa si trova, “Cardinali-bus ytalicis D. de Florentia etc.”, è un’abbreviazione forse inesatta, giacché l’epistola solo verso la fine si rivolge espressamente a questi ultimi.
Dove fosse A. in questo tempo non sappiamo; potrebbe essere rimasto in Toscana presso Moroello Malaspina, che non aveva tradito Arrigo VII, e che morì nel 1315; o potrebbe essersi recato alla corte di Cangrande, e aver seguita da vicino la sanguinosa sconfitta che questi inflisse sotto Vicenza ai Padovani nel dicembre del ’14, e che il poeta volle ricordare, – come crediamo preferibile intendere – in Par. IX, vv. 46-48.
Era signore di Ravenna, col titolo di podestà, dall’ottobre del 1316, Guido Novello da Polenta, figlio di Ostasio, uno dei fratelli di Francesca; ed era non solo signore prudente e valoroso, ma anche poeta gentile, come dimostrano alcune ballate che di lui ci rimangono. Politicamente guelfo, ma non nemico di Cangrande; e nel 1314 aveva difeso Cesena, dove era podestà, da un vicario di re Roberto; e che non fosse ligio alla politica papale dimostra il fatto che nel 1322 gli fu tolto da un cugino il potere, con l’assenso del vicario del papa, sicché fu costretto ad andare in esilio. All’A. la sua corte dovette sembrare, rispetto alla dinamica ed eterogenea corte scaligera, oasi di pace, ove avrebbe potuto terminare quel che gli restava da scrivere del Paradiso; e accettò l’invito del signore di trattenersi a Ravenna. Probabilmente, almeno per qualche tempo, furono con lui anche i figli: c’era quasi certamente la figlia che si rese monaca – non sappiamo se prima o dopo la morte del padre -, col nome di suor Beatrice, appunto nel monastero ravennate di S. Stefano degli Ulivi, dove morì dopo il 1350; e Pietro risulta rettore di due chiese ravennati, che ora non esistono più, in un documento del 4 genn. 1321, in cui dal vicario arcivescovile è citato a pagare, sotto minaccia di scomunica, insieme con alcuni ecclesiastici parimenti morosi, l’imposta di procurazione dovuta al cardinale legato Bertrando del Poggetto. Nessuna congettura, invece,. possiamo fare circa la presenza della moglie Gemma. La dimora dell’A. a Ravenna non dovette interrompere i suoi buoni rapporti con Cangrande: da lui Pietro e Iacopo avevano avuto i mezzi per studiare; Pietro, laureatosi in legge, si stabilì a Verona, dove esercitò l’ufficio di giudice; Iacopo ebbe a Verona un canonicato ed altri benefici in terre veronesi, conservati anche dopo essersi stabilito a Firenze.
Che l’A. tenesse a Ravenna pubblico insegnamento è opinione di parecchi studiosi, ma non c’è in proposito alcun indizio veramente attendibile.
Nell’agosto del 1321 era avvenuta la rottura dei rapporti – sempre tesi, a cagione delle saline e della navigazione costiera – tra Venezia e Ravenna, in seguito alla cattura di navi veneziane, probabilmente per rappresaglia, da parte dei Ravennati; e si profilava la minaccia di una guerra. Fu allora mandata dal signore di Ravenna un’ambasceria a Venezia per tentare un accordo. Di questa ambasceria sembra facesse parte l’A., secondo la notizia tramandata da Giovanni Villani (“nel detto anno 1321… morì Dante Alighieri… nella città di Ravenna…, essendo tornato di ambasceria da Venezia in servizio dei signori da Polenta, con cui dimorava”, IX, 136), e ampliata con molti fronzoli da Filippo Villani. Di essa, però, non parlano né il Boccaccio né Leonardo Bruni; e inoltre, gli ambasciatori erano ancora a Venezia il 20 ott. 1321; sicché dovrebbe supporsi che l’A., ammalatosi nel viaggio, fosse tornato prima degli altri a Ravenna; e sarebbe morto pochi giorni dopo il ritorno.
La data della morte oscilla fra il 13 e il 14 settembre: il Boccaccio dà la data del “dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa”, cioè il 14; ma i due epitaffi latini, di Giovanni del Virgilio (“Theologus Dantes, nullius dogmatis expers”) e di Menghino Mezzani, ravennate amico e studioso dell’A. (“Inclita fama cuius universum penetrat orbem”), danno quella delle idi di settembre, cioè il 13.
L’onore che il signore da Polenta avrebbe voluto rendere al poeta vivo, certamente rese, e in maniera grandiosa, alla salma; e se ne dovette spargere la fama, se l’autore dell’Ottimo commento, al v. 94 del XVII del Paradiso, parla addirittura di “singulare onore a nullo fatto più da Ottaviano Cesare in qua“. Vestito “in abito di poeta e di grande filosofo” (Villani, loc. cit.), accompagnato da una “moltitudine di dottori di scienza” (Ottimo, loc.cit.), portato “sopra gli omeri dei cittadini più solenni infino al luogo dei frati minori di Ravenna” (Boccaccio, Vita XV), fu quivi sepolto in un’arca “lapidea” (Boccaccio), posta in una cappelletta esterna, addossata al muro del convento, in un portico laterale a sinistra della chiesa di S. Pier Maggiore, poi detta di S. Francesco. Narra il Boccaccio (loc.cit.) che Guido Novello, dopo la sepoltura, tornato nella casa dell’A., “esso medesimo, sì a commendazione dell’alta scienza e della virtù del defunto, e sì a consolazione de’ suoi amici, i quali aveva in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone”. Guido aveva in animo di erigergli un mausoleo; l’esilio, cui fu costretto nell’anno seguente, glielo impedì. Nel 1483 Bernardo Bembo, padre di Pietro, pretore in Ravenna della Repubblica veneta, sotto il cui dominio fin dal 1441 la città era passata, grande ammiratore dell’A., trovò il sepolcro in tale stato di abbandono e squallore, che fece ricostruire la cappelletta (a sue spese, come tenne a far sapere in una lapide apposta a una parete) dall’architetto Pietro Lombardi.
Dell’aspetto esteriore dell’A. è celebre la descrizione lasciataci dal Boccaccio (Comp. XVI): “Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e.il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso”.
Il ritratto del suo io interiore ha lasciato invece egli stesso, tale che non potremmo desiderarlo più vivo, preciso, completo, sincero, nell’insieme delle sue opere successive all’adolescenza, ma specialmente nella Commedia, cui davvero, sotto questo aspetto, meglio calzerebbe l’appellativo datole di “Danteide”. Tutti i tratti personali, in parte desumibili anche dalle opere minori e dalle poche notizie biografiche certe, nella Commedia si dispiegano, infatti, nella loro interezza, e si compongono in una figura tra le più definite, persuasive, e immediatamente accessibili. Questa immediata accessibilità e comunicatività deriva dall’assoluta sincerità con cui il poeta si è descritto, e che, a sua volta, risponde all’assoluta schiettezza della sua natura, non soffocata o deformata dai casi della vita e dalla cultura, senza ombre ambigue, senza capziosità o sovrastrutture di nessun genere, senza infingimenti volontari o inconsapevoli, complessa per la grande ricchezza di motivi umani, ma non complicata o contorta, e, nella complessità dei motivi, sostanzialmente limpida e lineare. È per questo che i lineamenti più caratteristici della fisionomia dantesca emergono dalla Commedia a prima vista: in breve, una straordinaria energia nel volere e nel sentire, e una coscienza straordinariamente austera ed elevata, dalla sfera affettiva a quella etica, intellettuale, religiosa. L’aggettivo dell’uso comune “dantesco” compendia ed isola appunto questi lineamenti energici e solenni, che appaiono essenziali dell’io interiore dell’Alighieri. Il poeta stesso si fa proclamare da Virgilio “alma sdegnosa”: sdegnosa di tutta la viltà e corruzione e stoltezza di cui è pieno il mondo. Ma lo sdegno esprime solo la pugnace reazione del poeta al disordine generale dell’umanità: la sostanza della sua anima è eroica. Come il suo Ulisse, egli sentì il dovere categorico di seguire, con tutte le sue forze, “virtute e conoscenza”, lottando, con incrollabile volontà e indomito cuore, contro ogni impedimento della natura, contro ogni avversità della vita, mirando costantemente a quella totale perfezione dell’essere, che egli credette fermissimamente potersi raggiungere dall’uomo per le mirabili doti largitegli da Dio, e per la quale l’uomo diviene – diremo con parole sue – “quasi un altro Iddio incarnato”. Questi i lineamenti eroici dell’anima dell’A., quali sono nettamente scolpiti nella Commedia; è questa la concezione eroica della vita umana, in cui consiste l’altissimo valore ideologico del poema, la sublime parola di fede nelle forze ideali e nel destino dell’umanità, che l’A. ha trasmesso alle età successive. Né si creda che la sua salda fede religiosa limiti o condizioni la sostanza eroica della sua anima e della sua concezione della vita. Per l’A., quel Dio che mandò in terra il suo Figliuolo per far conoscere all’uomo la Verità, non solo non umilia e non limita l’individuo per affermare la propria onnipotenza, ma, al contrario, sollecita la piena estrinsecazione, il massimo potenziamento di tutte le sue forze morali e intellettuali, lo stimola alla conquista del Cielo, fa di lui non uno schiavo, ma un titano. E sarebbe parimenti errore considerare l’anelito dell’A. alla conquista di Dio, come estrema perfezione, limitato dai termini dogmatico cattolici in cui formalmente il suo Dio si concreta: quell’anelito risponde a una posizione dello spirito eterna, universale e incoercibile, la posizione da cui promanano i grandi sistemi di filosofia spiritualistica e le più alte religioni storicamente costituite, e che trascende i termini contingenti in cui a volta a volta si configura il concetto dell’Essere assoluto e perfetto. Se ci fermassimo alle forme dogmatiche in cui si concreta il Dio dell’A., ci sfuggirebbe il senso sublime e universale di quel suo anelito alla conquista di Dio, quel senso titanico-religioso che costituisce l’afflato e l’essenza della Commedia. L’aspetto fondamentale della fisionomia dantesca è, dunque, di apostolo ed eroe dell’ideale elevazione umana.