Letteratura medievale Testi

Guittone d’Arezzo

Vita e opere

Nacque in un anno imprecisabile tra il 1230 e il 1240 a Santa Firmina, un piccolo villaggio sulle propaggini del monte Lignano, poco distante da Arezzo, presso il cui Comune il padre, Viva di Michele, svolgeva l’ufficio di camerlengo. La famiglia, economicamente agiata, aveva origini più probabilmente borghesi che nobiliari; della madre non sappiamo nulla, se non che G. fu forse il suo unico figlio.

Sono state formulate varie ipotesi attorno all’inconsueto nome “Guittone”: esso potrebbe derivare o dal vezzeggiativo Guittoncino, oppure da “guitto”, che significa sporco, vile e spilorcio. A una quaestio circa il nome sembrerebbero alludere, in effetti, alcuni componimenti, che ironicamente esaminano la congruenza tra res e nomen: un certo mastro Bandino ricusa come non veritiero il riferimento a “guitto” per il “leal Guittone” (sonetto 29, v. 1, ed. Egidi, p. 153); nell’invettiva contro il giudice Ubertino lo stesso G. si dice vero “guittone” per aver dato troppo credito al giudice (sonetto 209, v. 2, ibid., p. 252); nella tenzone con un messer Onesto, infine, G. ammette d’aver “guittoneggiato” e che il suo nome è “ontoso e vile” (sonetto 234, vv. 10, 13, ibid., p. 264).

Della prima formazione di G. nulla conosciamo di certo. In una lettera, databile prima del 1286 e indirizzata a Marzucco Iscornigiano (degli Scornigiani), “assessore” (ossia giudice) del podestà di Arezzo nel 1249, G. ricorda d’aver “picciul garzone” aiutato il padre nel suo lavoro (Lettere, n. XVIII, ed. Margueron, p. 200). L’espressione non sembra riferirsi ai tempi, ma ai modi di tale servizio: designerebbe, infatti, l’ufficio di misero aiutante svolto da G., piuttosto che la giovane età. Dalla stessa lettera e dalla menzione dell’assessorato di Iscornigiano, inoltre, taluni ritengono necessario spingere la data di nascita di G. fino al 1240.

Durante tutta la giovinezza G. viaggiò spesso: sicuramente fu a Pistoia, presso la corte dei conti Guidi di Romena, dove scambiò alcuni versi con il giullare Guidaloste, a proposito del quale, inoltre, ebbe modo di indirizzare un’epistola al conte Guido Guidi (Guido Pace). Nessun documento testimonia la sua frequenza di un corso di studi universitari; altrettanto ignoto è il nome di un eventuale maestro, ruolo che il padre non sembra abbia potuto assolvere; G. si accostò dunque probabilmente come autodidatta ai classici e alle letterature romanze.

Egli, del resto, poteva trovare in Arezzo un centro di assoluta preminenza culturale nella Toscana del tempo: la città, infatti, disponeva di uno Studium generale, i cui ordinamenti, tra i più antichi d’Europa, risalivano al 16 febbr. 1255, ma è verosimile che già all’epoca Arezzo godesse di un prestigio culturale adeguato. Punto di riferimento ineludibile per chi volesse intraprendere gli studi umanistici era il maestro di retorica Bonfiglio, la cui attività ad Arezzo è attestata con sicurezza tra il 1258 e il 1259; presso di lui, come altri della sua generazione, G. potrebbe aver appreso i fondamenti tecnici della poesia, saldando quel vincolo tra sperimentazione letteraria e perfezionamento retorico e metrico che sarebbe approdato a una personale ricerca stilistica.

A partire dagli anni Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta G. si dedicò alla stesura di sonetti erotici, nei quali dominano stilemi e lessico dall’evidente ascendenza provenzale, elaborati in prevalenza secondo la tecnica del trobar clus, che egli trapiantò in Toscana non senza il tramite delle sperimentazioni attive alla corte siciliana di Federico II, imponendosi ben presto come l’erede toscano delle due tradizioni: l‘assolutezza d’Amore, la devozione incondizionata alla donna, la fedeltà al sentimento sono i motivi dell’amor cortese ricorrenti nei suoi versi, su cui permane la tonalità scura della sofferenza d’amore.

Gli 86 sonetti del codice Laurenziano, pubblicati da L. Leonardi, costituiscono il nucleo della poetica cortese assimilata da G., tanto da delinearsi come i momenti lirici di un vero e proprio canzoniere, che egli, forse sull’esempio delle razos e delle vidas provenzali, volle organizzare in forma di racconto. Nel canzoniere si distinguono momenti narrativi diversi, che sono altrettante occasioni per rinnovare la tradizione provenzale. Il sentimento d’amore procede tra speranza e disperazione, soggetto alle varie reazioni della donna, che riceve il senhal “gioia”. L’imprevisto esito felice della relazione dà luogo al distacco contemplativo dell’amante dal suo oggetto, producendo un canto di lontananza; chiude il canzoniere la tenzone con la donna che, divenuta villana, stabilisce, consumato lo scambio di qualche sonetto, di non più corrispondere.

Nell’ideare questo itinerario G. intendeva mostrarne piuttosto l’esemplarità che la veridicità, ma un tale progetto, di matrice trobadorica, ingenerava una diffrazione del punto di vista, attraverso cui rielaborare, innovandolo profondamente, il rituale cortese, già disseminato, del resto, di esperienze paradigmatiche e refrattario all’autobiografismo. Pur nell’assenza di riferimenti autobiografici, l’io lirico assume con G. una più riconoscibile individualità e si cala in una realtà sociale e politica già ampiamente trasformata dall’avvento della borghesia: nella rappresentazione scompaiono, così, i tratti aristocratici che erano propri del modello. 

Le canzoni d’amore per così dire “extravaganti” sembrano soggiacere in modo più consistente al modello cortese della fin’amor, senza che questo implichi, tuttavia, la rinuncia al carattere intrinsecamente sperimentale dell’esperienza poetica guittoniana. I momenti centrali dell’itinerario spirituale più tipico del trovatore, al contrario, sono ripresi all’interno di una consapevole operazione di riuso, elaborata in chiave retorica e comunicativa. L’architettura prosegue senza soste lungo queste direttrici, fino a strutturarsi in un decalogo dell’amor cortese, destinato a chi aspiri a divenire “fino” amante e a ripararsi dalla follia d’amore: l’aspetto didattico diviene così comunicazione di un’essenziale filosofia pratica. 

Quanto agli aspetti formali, è stato attribuito a G. il merito d’avere stabilito anche in Italia l’uso provenzale della tornata, o commiato. Tra i generi provenzali più rivisitati da G. spiccano l’enueg (casistica delle “noie”), il plazer (casistica dei “piaceri”), il devinalh (concatenazione di affermazioni contraddittorie), il planh (compianto funebre).

Si fa risalire alla morte del padre un cambiamento radicale nella vita di G., anche se ormai si esclude che egli sia stato costretto a sostituire il genitore nell’ufficio di camerlengo. Della sua ultima giovinezza conosciamo pochi altri momenti salienti: tra i 25 e i 30 anni sposò una donna di Arezzo, dalla quale ebbe tre figli, i quali erano ancora in tenera età nel 1265, essendo l’ultimogenito, Dano, nato intorno al 1260.

Pur non pervenendo a incarichi pubblici, G. si dedicò ancor giovane alla politica: conservando una posizione autonoma, egli scelse la parte dei guelfi, dove militava probabilmente anche il padre.

L’impegno politico cadeva in un periodo difficile per Arezzo, città dal territorio vastissimo, la cui influenza politica era tuttavia da tempo declinante. Nel decennio 1230-40 i magistrati aretini al governo della città avevano perduto l’appoggio imperiale, senza riuscire a procurarsi la protezione della Chiesa. La nomina del vescovo nel 1248 aggravò ulteriormente la situazione: il nuovo titolare della diocesi, Guglielmino degli Ubertini, membro di una nobile famiglia ghibellina, mirava all’alleanza con Firenze, città dalla quale i ghibellini, sostenuti da Federico II, avevano intanto bandito gli avversari. Morto Federico, costoro furono richiamati e, dopo un breve periodo di pace, bandirono a loro volta dalla città le principali famiglie ghibelline. Nel 1256 Arezzo, infine, si alleò con Firenze, ma già tre anni più tardi, nel 1259, l’alleanza s’incrinò.

Arezzo preparava, infatti, un attacco contro Cortona, cui G. si oppose strenuamente, prevedendone pericolosi riflessi sull’alleanza con Firenze. Egli si proclamava risolutamente contrario all’iniziativa militare e fautore, per contro, di un ritorno alla pace, anzitutto entro le mura cittadine. Con il suo dissenso G. riuscì però solo a inimicarsi i concittadini, che vedevano l’azione, al contrario, come un’occasione di riscatto. Arezzo, dunque, attaccò nottetempo Cortona, avendone immediatamente la meglio. La reazione di Firenze non si fece attendere: sentendosi indirettamente minacciata, nel febbraio dello stesso 1259 assalì il castello di Gressa, possedimento del vescovo di Arezzo.

I fatti avevano perciò ampiamente confermato le più infauste previsioni di G.: l’offensiva contro Cortona s’era rivelata addirittura rovinosa per Arezzo. Nella città nulla era rimasto come prima e non vennero a mancare per G. ulteriori motivi di delusione e risentimento verso i concittadini. La decadenza morale sia nella vita pubblica sia in quella privata, il venir meno dell’ideale di giustizia, il dilagare della corruzione che avevano costituito, nel progresso degli anni, le ragioni del distacco dalla comunità cittadina furono aggravate dalle conseguenze di quell’inutile assalto. Egli scelse dunque volontariamente la via dell’esilio. 

G. affidò a una canzone-sirventese, Gente noiosa e villana (XV, ed. Egidi, pp. 31-35), il resoconto delle ragioni personali di quella risoluzione, sistemate in una minuta cronaca storico-politica. Dal congedo si ricava che suo primo rifugio fu una località sita fuori della Toscana. Con accenti nostalgici, Arezzo è raffigurata in preda alla guerra; vi regnano villania e ingiustizia ma nondimeno, ristabilite ragione e pace, G. dichiara di desiderare il ritorno. Contro la sua città non pronunciò mai parole di definitiva condanna, conservando, al contrario, un profondo affetto per essa e per i suoi abitanti (si veda per esempio la lettera XXVII, ed. Margueron, p. 281).

Nel 1260 culminò la tensione tra le fazioni in lotta per il predominio sulla Toscana; anche Arezzo venne coinvolta. I ghibellini fuorusciti da Firenze, riunitisi a Siena, chiesero aiuto a Manfredi, il figlio di Federico II, che inviò, sotto il comando del conte Giordano, 900 cavalieri tedeschi.

Lo scontro con Firenze si svolse il 4 sett. 1260 a Montaperti: qui i ghibellini riportarono il loro più grande successo militare e i maggiori centri toscani entrarono così sotto il loro controllo. Due anni più tardi, divenne podestà di Firenze Guido Guidi (Guido Novello), cognato di Manfredi. Tutta l’anomalia della posizione aretina emerse all’indomani della battaglia, quando il vescovo si ritrovò tra i vincitori ghibellini in una città che era stata alleata della sconfitta Firenze; divisa al suo interno, Arezzo si avviò alla decadenza. 

La notizia della disfatta guelfa raggiunse G. lontano da Arezzo, ma già rientrato in Toscana: per un periodo egli soggiornò a Pisa, dove poteva contare sull’aiuto di numerosi conoscenti, tra i quali il già ricordato Guido Novello. La loro amicizia era destinata a consolidarsi nel tempo: proprio sul finire del 1266 G. gli avrebbe indirizzato una canzone con cui si offriva nella veste di consigliere e lo incoraggiava a ripagare con la stessa moneta un torto ricevuto.

Dopo Montaperti G. compose un altro sirventese, Ahi lasso! or è stagion de doler tanto (XIX, ed. Egidi, pp. 41 s.), in cui deplorava come dramma irreversibile la sconfitta della potente Firenze, baluardo del partito guelfo. La personificazione della città si reduplica in combinazioni foniche dominate da figure etimologiche, contribuendo ad amplificare lo stile tragico: l'”alta Fior sempre granata” (v. 5) d’apertura diventa “sfiorata Fiore” (v. 16); in chiusa, G. pronuncia un malinconico auspicio di rinascita, “Fiorenza, fior che sempre rinovella” (v. 93). Di poco posteriore alla canzone è la celebre epistola agli Infatuati miseri Fiorentini sul medesimo tema, nella quale, peraltro, i Fiorentini non sono più tali, “ma desfiorati e desfogliati” (XIV, ed. Margueron, p. 158).

Quanto ad Arezzo, egli ne raffigurò la decadenza morale in una delle sue più celebri canzoni politiche, Ahi, dolce terra aretina, composta, secondo Pellizzari e Tartaro, prima della morte di Manfredi, tra il 1262 e il 1265, secondo Margueron tra il 1285 e il 1288. Con questi versi G. individuava la causa della rovina nel comportamento degli stessi Aretini, che avevano consegnato a un “non stante e strano”, ossia a uno straniero, le sorti della città (XXXIII, v. 131, ed. Egidi, p. 93). L’incertezza sulla data di composizione è oggettiva: le amare conclusioni sull’incapacità di Arezzo di trovare pace e alleanze sicure caratterizzarono tutto il ventennio successivo a Montaperti, segnato dall’ambigua politica del vescovo. Questi, morto Carlo d’Angiò nel 1285, appoggiò i ghibellini e, dopo aver riportato un’iniziale vittoria contro i guelfi fiorentini al Toppo, condusse Arezzo al più grande disastro politico e militare nella storia della città: nella battaglia di Campaldino del 1289, cui prese parte anche Dante, Arezzo venne duramente sconfitta dall’alleanza tra Firenze e Siena.

In seguito al rivolgimento dell’assetto politico aretino dopo Montaperti maturò in G. la scelta di aderire, intorno al 1265, all’Ordine dei cavalieri di S. Maria gloriosa (“milites beatae Virginis Mariae”, o Milizia della Vergine). Fino in tempi recentissimi, si è imposta l’idea che G. fosse stato protagonista di una vera e propria conversione, cui riconnettere, quanto a questioni di poetica, la bipartizione dell’opera guittoniana in rime amorose e rime ascetiche e morali, tramandata dal canzoniere Rediano (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Rediano, 9), la principale silloge manoscritta delle sue rime pervenutaci.

Invero, l’eclissarsi del tema erotico a vantaggio dell’impegno didattico-morale appare tratto distintivo di un numero cospicuo di rime, molte delle quali presumibilmente tarde, come pure dell’epistolario.

Ciò, tuttavia, potrebbe non essere una consapevole elezione tematica imposta dai rigori di un ascetismo che lo stato di “miles beatae Virginis Mariae” non comportava necessariamente; piuttosto, potrebbe riflettere un rinnovato, forse più incisivo, impegno sociale. Elementi politici, morali e religiosi, del resto, convivevano nello stile di impianto didattico che G. aveva coltivato fin dagli esordi.

L’Ordine prescelto da G., religioso e cavalleresco insieme, ebbe carattere laicale e un’accentuata propensione politica, lontana dal fervore mistico contemporaneo: G. non divenne clericus, ma uno dei “crestian cavaleri” (XL, v. 32, ed. Egidi, p. 109). Allo stato degli studi i “milites beatae Virginis Mariae” costituivano una pia confraternita, i cui membri agivano, anche ricorrendo alle armi, in difesa della fede cattolica.

I “milites beatae Virginis Mariae” nacquero nel 1260, per iniziativa di alcuni nobili emiliani, tra cui il bolognese Loderengo Andalò; la regola, stilata da fra Rufino Gorgone di Piacenza, ottenne, probabilmente con alcune rettifiche che miravano ad accentuarne il carattere di istituzione religiosa, l’approvazione di papa Urbano IV il 23 dic. 1261. Potevano aderirvi solo i nobili che avessero anche la dignità di cavalieri, condizione, questa, che doveva essere sempre osservata: chi non era cavaliere doveva essere insignito del titolo da un confratello. Di fatto, l’Ordine raccolse i membri dei nascenti patriziati cittadini e non li trasformò in sacerdoti, ma in “milites” al servizio dell’ortodossia.

La posizione sociale di G. era dunque compatibile con tali requisiti; non costituiva impedimento, inoltre, il suo stato civile: potevano entrare tra i “milites beatae Virginis Mariae”, infatti, anche i coniugati, cui era riservato il diritto di risiedere nel proprio domicilio. Come ai conventuali – erano così denominati i confratelli, chierici e laici, non coniugati che invece dimoravano in convento – anche a costoro era imposto, oltre a qualche pratica ascetica, di astenersi dal ricoprire cariche pubbliche e di preservarsi immuni da eresia e usura. Con la loro promissio facevano voto di obbedienza e castità coniugale ed erano tenuti a recarsi in convento mensilmente e a partecipare ai capitoli, generali e provinciali. L’Ordine militare era suddiviso in province, amministrate da un priore provinciale. Se si deve prestar fede all’erudito settecentesco D.M. Federici, già nel 1267 G. aveva acquistato la dignità di provinciale, verosimilmente per la provincia di Toscana: ciò comportava compiti di direzione e controllo sulle articolazioni territoriali, come i conventi, le chiese e le case, aperti sin dai primordi nelle principali città, prime fra tutte Firenze e Pisa. Ad Arezzo, l’Ordine possedeva un monastero fuori le mura, in una località denominata Fonte Veneziana, mentre Pisa era sede dei novizi.

Molta parte dell’epistolario di G. testimonia una fase di vera e propria propaganda per l’Ordine (sicuramente perseguono questo scopo le epistole XIII, che prende spunto dalla vestizione di alcuni novizi, e XV, dedicata a un non meglio identificato Simone). Al tempo in cui G. divenne cavaliere cristiano sono fatti risalire tutti i componimenti che abbiano temi diversi dall’amore carnale; si tratta di sonetti e canzoni dai quali emergono molti dei temi propri alla Milizia: la condanna dell’eresia; il compiacimento per aver abbandonato il “secol malvagio” (XLIV, v. 2, ed. Egidi, p. 116) e il “mondano piacer” (sonetto 174, ibid., p. 234); la centralità della pace; l’elogio della castità.

Ancora all’ambito morale rinviano i componimenti in cui G. rimpiange il tempo trascorso tra i vizi ed esorta gli amici a perseguire il bene. La celebrazione del vero amore contro l’amore carnale, coltivato in gioventù, culmina nel Trattato d’amore, una sequenza di 11 componimenti brevi, quasi tutti sonetti, con i quali G. dipinge la follia d’amore, “dogliosa morte” (sonetto 242, v. 1). Appartengono al gruppo, inoltre, una corona di sonetti dedicata alle virtù e ai vizi e le canzoni dedicate a Gesù, a Maria e ai fondatori degli ordini mendicanti. Valida come documento della missione del cavaliere cristiano secondo G. è la canzone O ver virtù, vero amore (XXIX).

La condotta immorale di molti confratelli finì col deludere le aspettative di un autentico rinnovamento. La consuetudine con il lusso e, più in generale, la prevalenza delle cure terrene sull’originaria missione resero i membri dell’Ordine invisi a tutta la comunità di fedeli, come palesa l’appellativo ben noto di frati gaudenti, diffuso sin dagli esordi.

Quanto alla fama di ipocriti, attestata nel canto XXIII dell’Inferno di Dante, essa derivò dall’opera di pacieri che Loderengo Andalò e il confratello Catalano di Guido di donna Ostia furono chiamati dal papa ad assolvere, nelle vesti di rettori di Firenze. Nel 1266 i due rettori, che avevano assunto comportamenti ambigui, furono allontanati dalla città lasciando nei Fiorentini un ricordo funesto, di persone inaffidabili e, appunto, ipocrite.

In quella circostanza G. manifestò a Loderengo stima e devozione, dedicandogli la canzone Padre dei padri miei e mio messere (XL, ed. Egidi, pp. 108-110): nell’esprimere profonda solidarietà G. lo supplicava di volergli ancora prestare opera paterna.

Se, dunque, G. poteva contare sull’affettuosa protezione di Loderengo, la canzone O cari frati miei (XXXII, ibid., pp. 83-89), composta nello stesso 1266, mostra invece chiari segni di un’improvvisa crisi. Egli rimprovera ai confratelli d’aver perduto di vista il vero bene e di “gaudere / ov’è gran despiacere” (vv. 93-94) e tenta di difendersi dalle accuse e dalle ingiurie che ne ha ricevuto: rivendica come giusta la decisione di abbandonare i tre figli ancora piccoli (v. 92) e insieme con essi tutte le dolcezze della vita mondana, per dedicarsi interamente a Dio; scelta che i confratelli giudicavano folle. Dai toni e dai contenuti della canzone si può ipotizzare che solo in un secondo tempo G., spinto dalle delusioni, scegliesse una vita religiosa più radicale: quando abbandonò moglie e figli, egli presumibilmente divenne conventuale rimanendo laico.

Testimoni della crisi appaiono anche alcune lettere, nelle quali G. riversa l’appassionata predicazione dei doveri di ogni buon frate: perseguire l’unico bene dimorante in Dio, abbandonare i transitori beni mondani.

Composto per la maggior parte in questi anni, l’epistolario di G., uno dei massimi esempi di prosa letteraria di questo genere, offre poche altre informazioni biografiche: i nomi dei corrispondenti e i toni con i quali G. si rivolge loro consentono a malapena di tracciare un quadro delle relazioni intrattenute con i contemporanei, ma poco si prestano a precisarne i tempi e le circostanze meno occasionali. Oscuri permangono inoltre i destinatari di alcune missive: o perché ai nomi non corrispondono profili a noi noti, o perché lo stesso G. volle lasciarli celati dietro sigle. Non è escluso che, in questi ultimi casi, egli volesse produrre modelli di lettere, utili a fini didattici e rigorosamente scanditi secondo la ripartizione tradizionale: salutatio, exordium, narratio, petitio, conclusio.

Le lettere si prestano a scopi didattici sia per quanto concerne l’impianto retorico e metrico (ars dictandicursus) sia per la scelta dei temi, per lo più di carattere morale. La prima, in particolare, indirizzata a un certo Gianni Bentivegna, che gli chiedeva ammaestramenti di vita, sintetizza la personale filosofia morale di G., segnata da una forte vena religiosa. Scopo delle Scritture e di ogni scienza naturale e morale è fuggire il male e seguire il bene, ma è necessario saperli riconoscere. La vita, secondo G., è un interminabile perfezionamento morale, nel quale si può progredire attenendosi ai precetti cristiani.

Le questioni attorno alle quali insorge l’esigenza d’una lettera sono spesso indicate in modo sommario nella salutatio, dove G. inserisce anche qualche informazione circa i rapporti con il destinatario. Dalla sintetica enunciazione si passa in breve all’esposizione dell’argomento: G., accantonando ogni forma di prosa intimistica, predilige la trattazione di stampo sillogistico, sorretta opportunamente dalle auctoritates più accreditate, classiche e cristiane (tra cui Aristotele, Cicerone, Seneca, Agostino, Boezio). Il motivo occasionale lascia il posto, così, a un serrato argomentare dottrinario e morale, tanto che molte delle epistole prendono l’aspetto di sermoni, dove una lingua concreta e realistica modella sentenze astratte dal colore metafisico (Segre). Il solido impianto retorico è funzionale al docere e al movere: la persuasione prevale così sulle concatenazioni logiche del discorso. Quanto agli argomenti trattati, si distinguono lettere consolatorie, epidittiche, deliberative, politiche. Non manca, infine, qualche missiva di circostanza che, pur priva di intenti didattici, ricorre a citazioni colte.

La “sottiglianza” delle rime, l’essere insieme nei contenuti ardue e gravi e nella forma ricercate fino all’oscurità, torna, fatta qualche eccezione, anche nell’epistolario, commisto, forse senza un progetto nitidamente delineato, di prosa e versi. Nel costruire il periodo, G. si richiama alla prosa rimata volgare, che a sua volta discendeva dalla latina, per far proprio un ideale di simmetria e tradurlo in una sorta di musicalità ricercata per mezzo della tecnica retorica e timbrica insieme. Parallelismi, antitesi e altri costrutti logici e retorici compongono un virtuosistico gioco di forme, ritmicamente scandito in clausola.

Lo stile prosastico guittoniano ebbe qualche imitatore: Meo Abbracciavacca, Dotto Reali e un certo Teperto (Tiberto Galliziani); il suo modello fu, infine, non ininfluente anche sulle scelte retoriche della generazione successiva, dove ancor vivo è il ricorso alla prosa ritmica, pur snellita nel corredo retorico.

Sappiamo da alcuni atti che nel 1285 G. si trovava nei dintorni di Bologna, a Ronzano, per trascorrervi un periodo non breve. Qui Loderengo, subito dopo l’esilio da Firenze, si era ritirato in un convento, nei cui pressi, in zona Genestre, il 3 apr. 1285 G. acquistava una vigna. A legare G. alla locale comunità di frati è il testamento di suor Iulitta, moglie di frate Bonaventura da Savignano, rogato il 23 maggio 1285: G. compare, insieme con il figlio Dano, come testimone. Sul finire di luglio un’altra vigna nei dintorni veniva ceduta dallo stesso Bonaventura da Savignano a Loderengo: nell’atto G. viene menzionato come acquirente precedente.

Qualche anno più tardi il nome di G. ricompare in terra toscana. Al 7 sett. 1293 risale, infatti, l’atto rogato nel chiostro di S. Michele dell’Ordine camaldolese in Arezzo da un notar Bonavia, con il quale G. definiva l’entità e la destinazione di un cospicuo donativo a favore dei camaldolesi. Le 200 libbre pisane che egli intendeva elargire a partire dal 1° genn. 1294, e che costituivano solo parte del suo patrimonio, dovevano servire per la fondazione del monastero ed eremo di S. Maria degli Angeli di Firenze; a loro volta, i camaldolesi si impegnavano a corrispondere a G. un vitalizio annuo per un ammontare di 8 libbre pisane, pena l’esborso di 100 libbre per ogni eventuale inadempienza.

L’atto riveste un particolare significato per la vita di G.: ai camaldolesi, infatti, i gaudenti avevano sottratto il possesso di un’abbazia, il cui trasferimento venne confermato da un processo. Con quell’atto, dunque, G. attestava la sua autonomia dalle posizioni dell’Ordine. 

Dopo quella data non ci è rimasta altra notizia di G., che probabilmente non sopravvisse per più d’un anno alla donazione. Una lettera (VIII, a frate Alamanno) ci informa sullo stato di salute precario di G., colpito a più riprese da una “infermitade” (ed. Margueron, p. 103).

Federici deduce da un necrologio stilato nel convento camaldolese di S. Cristina (poi Beata Lucia), nei pressi di Bologna, la data presunta della morte di G., il 21 ag. 1294 (Annales Camaldulenses, 45), sulla cui attendibilità permane qualche dubbio; resta ignoto il luogo del decesso, tradizionalmente identificato in Firenze.

La sua fortuna nei secoli è in gran parte debitrice del verdetto dantesco, che lo relegò al di là del dolce stil novo, alfiere di una poesia municipale, ancorché aperta allo sperimentalismo di marca provenzale.

Era soprattutto nella lingua che Dante identificava il maggior ostacolo all’elezione di G. tra i maestri della generazione precedente: egli, infatti, “numquam se ad curiale vulgare direxit” (De vulgari eloquentia, I, xiii, 1), non seguiva cioè la “librata regula”, la misura nel dire, e, quanto a lessico e costrutto, persisteva nel “plebescere” (ibid., II, vi, 8); per il linguaggio plebeo e lo stile smodato, dunque, G. poteva esser venerato solo dagli ignoranti. Le accuse mosse da Dante nel Purgatorio (XXIV, vv. 55-62) per bocca di Bonagiunta Orbicciani da Lucca vanno ben oltre la questione stilistica: G., insieme con Giacomo da Lentini e lo stesso Bonagiunta, non aveva attinto ispirazione dal sentimento d’amore, inteso come esperienza assoluta, spirituale e intellettuale. 

Prima dell’affermarsi dello stil novo, il magistero guittoniano, nondimeno, fece scuola. Dante stesso, attraverso il personaggio di Guido Guinizzelli, dovette riconoscere che molti antichi avevano apprezzato G., “di grido in grido pur lui dando pregio” (Purgatorio, XXVI, v. 125), finché non vinse il vero affermato da più persone, ossia l’uso poetico moderno: G., in questo caso, veniva relegato tra gli antichi.

Ma anche gli stilnovisti si nutrirono degli insegnamenti guittoniani, e Dante fu tra questi. A recargli omaggio tra i nuovi poeti fu proprio Guido Guinizzelli: dedicandogli il sonetto Caro padre meo, certamente non senza una retorica formularità, esprimeva l’alta considerazione del sapere e della disciplina morale del maestro, cui si rivolgeva per riceverne consigli di tecnica poetica. Con il sonetto Da più a uno face un sollegismo (XLVII) un altro grande moderno, Guido Cavalcanti, mosse a G. l’accusa di poca originalità e di eccessi nell’uso retorico. Tra i guittoniani di maggior rilievo e di professata fedeltà spiccano i nomi di Dante da Maiano, uno dei corrispondenti delle tenzoni dantesche, di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati.

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