La caduta della dinastia sveva comportò lo spostamento del baricentro politico e poetico in Toscana. Alla corte si sostituiscono le città toscane, le quali diventano polo di attrazione delle esperienze precedenti e nello stesso tempo d’irradiazione di forme nuove: al cosmopolitismo della Magna Curia si sostituì un evidente municipalismo che si travasa nelle poesie degli autori siculo-toscani, sui quali peraltro sussistono notevoli incertezze di carattere anagrafico e cronologico. Non saremo lontani dal vero collocando intorno alla metà del secolo, successivamente alla morte di Federico ma ancor prima della morte di Manfredi, l’avvio di questa esperienza poetica.
In essa ai tradizionali motivi amorosi se ne affiancano altri che sono espressione della nuova coscienza cittadina e dei gruppi borghesi emergenti; in qualche caso la tematica politica assume un ruolo addirittura prevalente.
I nomi di questi rimatori nati in Toscana sono in genere meno celebri di quelli dei predecessori e le loro stesse biografie presentano larghissime zone d’ombra: Galletto Pisano, Compagnetto da Prato, Neri de’ Visdomini, Neri Poponi, Tiberto Galliziani, Lunardo del Guallacca, Betto Mettefuoco, Ciolo de la Barba, Folcacchiero, Bartolomeo Mocati, Caccia, Carnino Ghiberti, Petri Morovelli, Guglielmo Beroardi, Brunetto Latini, Bondie Dietaiuti, Maestro Francesco, Megliore degli Abati, Maestro Torrigiano, Ugo di Massa, Pucciandone Martelli, Inghilfredi, Arrigo Baldonasco, oltre a tantissimi anonimi. La produzione dei singoli è poco ricca e talvolta occasionale; ma considerate nel complesso, diramate nell’intera regione e non solo a Firenze, queste rime rappresentano uno snodo fondamentale nella storia della poesia che conduce a Dante Alighieri.
La copia che gli scribi toscani fecero delle poesie siciliane ne smeridionalizzò la lingua, adeguandola al toscano anche a prezzo della misura dei versi e della perfezione dello schema rimico.
La rima (e assenza di rima) tra due o più versi collegati è per noi la spia privilegiata per la valutazione dei fenomeni linguistici intrinseci ai processi della trasmissione: da un lato la presenza di sicilianismi (o meridionalismi) in sede finale di verso e garantiti dalla rima assicura che si tratti di forme originarie, dovute all’autore (sicilianismi in rima); dall’altro l’assenza di rima in forme come ora : cura; rena : fina; dire : avere : sospiri, che si registra nei testi tràditi dai Canzonieri, si potrà spiegare con la toscanizzazione operata dai copisti toscani, che hanno convertito nel proprio sistema linguistico gli originari *ura, *rina, *diri, *aviri (rime siciliane). Naturalmente codice per codice, autore per autore, componimento per componimento variano le soluzioni dei copisti: rime siciliane e sicilianismi in rima non si manifestano sempre nelle medesime occorrenze né il mero calcolo numerico dà risultati coincidenti nei diversi testimoni. E tuttavia, pur nella ovvia variazione della forma che caratterizza la tradizione manoscritta complessivamente considerata, le tendenze di fondo non cambiano: nei tre testimoni fondamentali esse sono analoghe, risultato di un medesimo processo culturale e storico (Coluccia 2010).
Questo discorso si applica alle poesie dei Siciliani prodotte all’interno o nei paraggi della corte sveva di Federico e di Manfredi: in esse forme toscane introdotte dai copisti convivono con forme siciliane e meridionali degli autori, che si mantengono grazie al carattere asistematico dell’operazione di copia. Esistono invece differenze sostanziali per le poesie dei Siculo-toscani, non tanto perché prodotte in epoca più vicina a quella in cui furono confezionate le raccolte manoscritte, ma soprattutto perché composte da autori toscani, aventi cioè la medesima lingua dei copisti. Di conseguenza, i tratti siciliani e meridionali in esse presenti vanno considerati una scelta intenzionale, dovuta al peso della tradizione precedente, consapevolmente accettata e imitata; e le forme toscane non andranno, come per i Siciliani, attribuite ai copisti ma potranno essere considerate originarie, purché garantite dalla rima (toscanismi in rima, con verosimile coniazione).
Oltre agli elementi di fonetica e di morfologia, anche il lessico di provenienza isolana e meridionale costituisce una componente significativa e sintomatica della poesia siculo-toscana, non irrilevante neppure sotto il mero profilo quantitativo. Alcuni sicilianismi che i poeti nati in Toscana riprendono dai Siciliani paiono configurarsi come veri e propri tecnicismi di questa poesia, cui talvolta arride una certa fortuna, anche oltre gli ambiti originari: abento «quiete, requie, tranquillità»; abentare «aver quiete»; dia f. «giorno»; ecc.
Colpisce la quantità di meridionalismi che, usati dai primi Siciliani, entrano a far parte del patrimonio della nostra lingua letteraria: si pensi alla frequenza della terza persona del perfetto in –ao (infiamao, levao, innamorao), a un tipo come saccio «so», al condizionale che prosegue il piuccheperfetto latino (Giacomo da Lentini: soffondara, gravara; Rinaldo d’Aquino (?): finèra; Carnino Ghiberti: amara, portara; Bondie Dietaiuti: sembrera; Bonagiunta: parlara, toccara, degnara, portara, sembrara, adoblaran; Guittone: canpara, portara, conportara, desportara, amara, convenera, credera; Dante addirittura: satisfara Par. XXI, 93). Di genesi analoga e di diffusione più fortunata (giunge sino alla lingua poetica ottocentesca) è fora «sarebbe» ma anche «sarei».
La lingua dei testi siciliani e siculo-toscani documentata nei canzonieri (quella che anche Dante leggeva) si presenta come un intarsio a forme coesistenti, in cui il siciliano (o la varietà meridionale) convive senza difficoltà apparenti con la componente toscana.
A questi ingredienti si affiancano in quantità cospicua altri di diversa matrice, provenzale e latina. L’utilizzazione di fonti diverse permette ai rimatori di aumentare il ventaglio delle scelte formali a loro disposizione, costruendo uno strumento comunicativo composito ma perfettamente funzionale. Attraverso esperimenti di questo tipo si pongono le basi di quell’italiano poetico che nel Trecento avrebbe trovato una compiuta sistemazione in Petrarca e si sarebbe rivelato in grado di caratterizzare l’intera diacronia linguistica della nostra poesia.