Nacque a Venezia nel 1254.
Suo padre, Nicolò di Andrea, del quale non si conosce la data di nascita, esercitò per lungo tempo la mercatura a Costantinopoli, assieme al fratello Matteo. Risiedeva, in Venezia, probabilmente nella contrada di San Severo; non è noto il nome della moglie. Il padre e lo zio di Marco si trasferirono verso la fine degli anni Cinquanta a Soldaia, nell’attuale Crimea, donde partirono, probabilmente nel 1260 o 1261, per un viaggio attraverso l’Ucraina alla volta dell’Oriente sino alla corte di Kubilai, il Gran Khan dei Mongoli, il cui impero si estendeva dalla Cina al Volga.
Il viaggio si protrasse per più di otto anni, per cui solo nel 1269 essi riuscirono a tornare a Venezia. Essendo nel frattempo morta la prima moglie, Nicolò si risposò con Fiordelise Trevisan, dalla quale ebbe Matteo. Tuttavia né lui né il fratello Matteo (che aveva sposato una certa Marta, dalla quale non ebbe figli) sarebbero rimasti a lungo nella loro città: il fascino dell’Oriente costituiva un richiamo fortissimo, e inoltre essi avevano assunto l’impegno di tornare alla corte di Kubilai accompagnati da esperti teologi e con l’olio delle lampade del Santo Sepolcro per farne dono alla madre dell’imperatore, cristiana di rito nestoriano. Kubilai infatti aveva mostrato interesse per la cultura occidentale e ai Polo sembravano dischiudersi suggestive prospettive di stabilire contatti con un mondo pressoché sconosciuto e, quel che più conta, ricchissimo.
Decisero pertanto di ripartire portando con loro il diciassettenne Marco (vissuto, sino ad allora, nella casa avita, dapprima con la madre e successivamente da solo). Aveva così inizio un’avventura straordinaria che avrebbe assunto, e ancor oggi conserva, i tratti della leggenda.
Marco Polo, il padre e lo zio lasciarono Venezia nella primavera del 1271 alla volta di Acri, in Palestina, dove ottennero udienza dal legato apostolico Tebaldo Visconti, cui esposero le richieste di Kubilai che non avevano potuto inoltrare al papa, in quanto la S. Sede era vacante da tempo. Raggiunta Laiazzo, sul golfo di Alessandretta, i Polo vennero a sapere che nel frattempo proprio Visconti era stato eletto papa; pertanto tornarono ad Acri, dove Gregorio X non solo approvò il progetto, ma affidò loro due suoi inviati con lettere e doni per Kubilai. I veneziani ripartirono dunque per Laiazzo, dove però i due religiosi li abbandonarono, ritenendo troppo pericolosa l’impresa.
L’attivismo sin lì dimostrato dai Polo appare la necessaria premessa per il grande balzo che si accingevano a compiere verso un mondo praticamente ignoto. Alla loro energia vanno però sommate altre doti: innanzitutto il coraggio, poi il desiderio di conoscere e la disponibilità all’approccio con il diverso, ad allacciare positivi rapporti con etnie, religioni e culture differenti, talora lontanissime da quelle europee e levantine che essi conoscevano. Di questa eccezionale impresa, che si sarebbe protratta per ventiquattro anni, l’unica fonte a disposizione degli studiosi è il Milione, il resoconto lasciato da Marco Polo. Una testimonianza insostituibile e quindi preziosa, ma nella quale – va detto subito – è impossibile distinguere la realtà dalla fantasia, che certo dovette rappresentare una forte tentazione per l’uomo che molti anni dopo, in un carcere genovese, ne avrebbe affidato il racconto alla penna di un compagno di prigionia.
Lasciata la Cilicia, i Polo iniziarono il lungo cammino ripercorrendo regioni che Nicolò e Matteo avevano già visitato nell’ultimo tratto della loro precedente avventura, inoltrandosi nell’Anatolia. Ovviamente l’itinerario che percorsero non fu il più breve, ma il più sicuro, attraverso strade praticate dai mercanti locali; ecco perché piegarono a sinistra portandosi a Iconio (Konya), già sede di un sultanato turco e allora frequentata soprattutto da mercanti genovesi; di lì giunsero a Cesarea (Kayseri), dove per la prima volta Marco Polo incontrò l’etnia selgiuchida, nomadi semplici e rudi, che diversamente dai cugini ottomani avevano conservato gli antichi costumi.
Il Milione è avaro di date, così come di riflessioni personali o indicazioni concernenti il padre e lo zio: l’attenzione di Marco Polo è tutta rivolta a descrivere i Paesi e i popoli che incontra, in particolar modo i prodotti e le ricchezze di quelle genti; pertanto è impossibile ricostruire la cronologia del suo itinerario, se non a grandi linee. –
Fu probabilmente nel 1272 che i veneziani, aggirato il lago di Van, si inoltrarono nelle alte terre della Grande Armenia, sovrastata dal monte Ararat, dove la tradizione biblica diceva essersi posata l’arca di Noè.
L’interesse di Marco, tuttavia, non guarda al passato, non più di tanto almeno; lo attrae soprattutto il succedersi della realtà che scorre davanti ai suoi occhi: anche se non si dedicherà mai al commercio, il suo spirito è pur sempre quello del mercante. Esemplare, a questo riguardo, la stringata notizia che fornisce riguardo a una sorgente che non lontano da Baku, nell’attuale Azerbaigian, versa un liquido oleoso «in tanta abbondanza che se ne possono caricare cento navi alla volta: olio non usabile come alimento, ma buono per ardere» (Milione, cap. 21 della versione Bertolucci Pizzorusso): è il petrolio, che quelle popolazioni, così come altrove, nei deserti persiani, i pastori nomadi usavano la sera per scaldarsi, e che Polo consegna alla cultura occidentale ricorrendo all’immagine, a essa familiare, delle navi mercantili. Di qui deriva, quale necessario corollario, la sua costante attenzione a descrivere la geografia dei luoghi; di qui, anche, il rilievo dato alla presenza cristiana in terre tanto lontane, nelle diverse forme delle eresie praticate dai nestoriani e dai monofisiti, oppure nei riti siriaci, mandei e armeni.
A leggere il Milione si rimane colpiti dalla diffusa permanenza di questi nuclei in regioni così remote e circondate da popolazioni islamiche e buddiste, ma non si può escludere che Marco Polo ne abbia enfatizzato la presenza per fornire ai futuri viaggiatori un messaggio rassicurante.
Da Cesarea la carovaniera volgeva a sud, fino a Erzerum e di lì a Tabriz, in Persia, importante snodo dove confluivano le mercanzie provenienti dall’India, e poi a Qazvin, non lontano dall’attuale Teheran. Erano le terre ov’erano fiorite le civiltà più antiche, dai sumeri agli assiri, ai persiani sino alla straordinaria impresa di Alessandro Magno. Marco, si è detto, non ebbe una cultura storica, ma la sua innata curiosità lo spinse ad ascoltare, e riferire, brandelli dei racconti più o meno fantasiosi che gli vennero narrati, per poi soffermarsi su quella che non era ormai se non l’immagine sbiadita di una grande capitale: Baghdad, in decadenza dopo la conquista mongola del 1258. Eppure per il veneziano essa era ancora una grande e illustre città; una forzatura forse causata dal ricordo di un centro che aveva visto fiorire gli studi di astronomia, negromanzia, geometria e, a un tempo, dalla suggestione delle storie romanzesche contenute nelle Mille e una notte, che fin da piccolo aveva udito nei racconti dei mercanti veneziani reduci dalla Siria.
I Polo proseguirono il loro cammino nel nord dell’Iran fino a Saveh, scorrendo ai piedi della catena montuosa che separa i deserti persiani dal mar Caspio; percorsero così la vallata dello Shah Rud, sopra la quale si erge l’Alamut, l’impervia rupe dove la leggenda collocava la sede del ‘grande veglio della montagna’.
Nella trasposizione fornita da Marco, era costui, da quasi due secoli, il capo degli Ismailiti, una delle tante derivazioni scismatiche dell’Islam che aveva dato vita a una setta gerarchicamente organizzata, retta da un capo che otteneva dai suoi affiliati obbedienza assoluta tramite la somministrazione di sostanze stupefacenti. Si trattava dell’hashish, donde il nome di ‘assassini’ con cui i seguaci del ‘veglio’ sono definiti nel Milione.
La suggestione di miti e credenze nate in quei luoghi si rinnova a Saveh, dove Marco Polo racconta di aver visto la tomba dei tre Re Magi – Melchiorre, Baldassarre e Gasparo – secondo una tradizione forse alimentata da una precedente religione, quella di Zarathustra (Zoroastro), che presentava non poche affinità con quella cristiana.
Il ricordo delle antiche civiltà e la forza dei loro precetti religiosi risultano tuttavia quantomeno sfumati nel comportamento degli attuali abitanti, che il veneziano descrive come crudeli, inclini alla violenza e dediti al taglieggiamento dei mercanti che percorrono le loro terre, eccitati a far ciò, oltre che dalle droghe, dal vino che consumano bollito, pensando in tal modo di aggirare un fondamentale precetto islamico.
I pericoli (della fatica Marco non parla mai) non fermarono comunque il cammino dei Polo, che da Saveh proseguì sino a Kerman e di lì a Bam, oasi suggestiva e bellissima isolata nel deserto. Allora i veneziani piegarono a sud; il motivo di questa diversione da un itinerario che in linea retta li avrebbe portati verso la Cina, sta nella scelta di raggiungere Hormuz, il porto sull’oceano Indiano fra il golfo Persico e quello di Oman, onde continuare il viaggio per mare. Qui però trovarono un clima infernale, con temperature che toccavano i 50 gradi e un vento fortissimo da cui le donne si riparavano ponendosi sul viso una maschera di cuoio rigida e dal naso allungato sino a coprire la bocca, assai simile alla bauta così diffusa a Venezia nei secoli successivi; soprattutto però fu la cattiva condizione delle navi a scoraggiarli. Inoltre qui appresero che i porti della Cina non erano sotto il controllo di Kubilai, per cui decisero di riprendere l’itinerario terrestre. Dopo quasi un mese, accodandosi probabilmente a qualche carovana di mercanti, erano di nuovo a Kerman; proseguendo in direzione nord-est entrarono nell’Afghanistan, piegando poi più decisamente a nord fino a Sheberghan, non lontano dal Turkmenistan e dall’Uzbekistan, dove i tre viaggiatori ebbero modo di ritemprarsi gustando i meloni più buoni del mondo, come annota Marco. Quindi toccarono quella che oggi conosciamo come Mazar-i-Sharif, dove si trova il ricostruito mausoleo del califfo Alì, del quale però Marco Polo non fa parola, essendo stato distrutto qualche decennio prima da Gengis Khan. Erano giunti ormai nelle terre alte dell’Asia, segnate da catene montuose disposte in senso orizzontale, il che rendeva il percorso ancora più impegnativo; quelle montagne si susseguivano ininterrotte, digradando dal tetto del mondo, i massicci del Karakorum e, più a est, dell’Himalaya. Dopo aver raggiunto Balkh, l’antica Battriana dove Alessandro aveva sposato Rossane, che allora non conservava altro se non le vestigia diroccate della prospera città distrutta dai mongoli di Gengis Khan mezzo secolo prima, i veneziani si inoltrarono ancora a nord, fino a Samarcanda.
Vi giunsero dopo un lungo cammino in lande poverissime, dominate da un pronipote di Gengis Khan, Khaidu, che alimentava la guerriglia contro i mongoli di Kubilai, il cui impero era minato dalle spinte centripete di vari regni formalmente vassalli, ma riottosi a riconoscere l’effettiva autorità del governo centrale. Fu questo, da allora e per molto tempo, il principale pericolo che rese insicuro il viaggio dei veneziani e che venne a sommarsi con le abituali fatiche del percorso. Da Samarcanda si apriva però, per buona sorte dei Polo, la fertile valle dell’Amu-Darja, al termine della quale si inoltrarono nel Badakhstan, regione di cui Marco elogia l’aria purissima, l’abbondanza di carni e frutta, il carattere socievole degli abitanti. L’attenta descrizione, ricca di dettagli, che egli lascia di quei luoghi si deve al fatto che i tre viaggiatori vi sostarono per un anno intero, a causa di una non precisata malattia del giovane Polo.
Estremamente parco di notizie riguardanti sé stesso, il padre e lo zio, egli non fornisce dettagli sul male che lo colpì; è probabile che si trattasse di febbri dovute agli strapazzi della spossante attraversata dei deserti persiani e delle montagne afghane; neppure si sa in quale arco cronologico collocare la lunga sosta forzata, forse nel 1273 o 1274, poiché il Milione riporta pochissime date e senza ordine progressivo, sicché non resta che ricavarle approssimativamente dal contesto generale del viaggio.
L’itinerario compiuto dai veneziani è incerto, dopo che essi ebbero lasciato alle loro spalle i luoghi che avevano percorso i macedoni di Alessandro, poiché le denominazioni geografiche attuali sono ben diverse da quelle che si trovano nel Milione; è probabile peraltro che i Polo siano passati attraverso il Turkestan cinese e poi l’altopiano del Pamir, a nord del Karakorum; quindi la terribile attraversata del deserto di Gobi, che richiese varie settimane, dopo di che giunsero finalmente nei domini del Gran Khan, presso la catena degli Altai, dove venivano seppelliti i sovrani mongoli. Toccata Xining, i viaggiatori erano arrivati alle propaggini della Grande Muraglia, cui però Marco Polo non dedica una sola parola.
Questo silenzio potrebbe apparire sconcertante ai nostri occhi, se non tenessimo presente che, sino all’avvento al potere dei Ming (1368), non esisteva un’unica struttura del futuro complesso architettonico, ma solo alcune linee fortificate di modeste dimensioni. Si aggiunga a ciò la scarsa sensibilità del veneziano per i monumenti e le vestigia del passato, eccettuate quelle legate al mondo classico o alla tradizione religiosa cristiana e musulmana.
I Polo arrivarono alla corte di Kubilai, nella sua residenza estiva di Shangdu (la Ciandu del Milione), a nord di Pechino (Cambaluc), nel maggio o giugno 1275, dopo un viaggio durato tre anni e mezzo.
I due fratelli gli consegnarono le lettere pontificie e l’olio santo per la madre, scusandosi per non aver potuto presentargli i sacerdoti e i teologi richiesti. Il Gran Khan rivide volentieri i veneziani; era nel pieno della maturità e Marco poteva avere allora ventun anni; quel giovanotto entrò presto nelle simpatie dell’imperatore, che ebbe modo di ammirarne la predisposizione per le lingue e l’abilità nel trattare con le persone. Pertanto Kubilai gli affidò qualche incarico, dapprima di scarsa importanza, poi di sempre maggior rilievo, quale fu la missione nello Yunnan, non lontano dall’Indocina, attorno al 1277; il ritorno avvenne attraverso lo Shan-si, di cui Marco loda l’ottimo vino, dono del Fiume Giallo.
La regione non distava molto dalla costa del Mar della Cina, e infatti egli riporta notizie sulla grande isola che sorgeva oltre quel mare; è Cipangu, il Giappone invano ambito da Kubilai, che per due volte ne tentò l’invasione. Il lungo itinerario di Marco Polo nella via del ritorno lo portò a lasciare il bacino del Fiume Giallo per giungere in quello del Fiume Azzurro (Yang-tse-kiang); per far ciò dovette superare le catene montuose disposte parallelamente che segnano il paesaggio cinese, condizionandone in parte la storia: ogni vallata, infatti, porta al mare e per passare dall’una all’altra è necessario valicare dei monti, sicché ognuna si presenta come una realtà diversa e autonoma. Questo percorso richiese parecchio tempo, e questo diede modo a Marco di descrivere, indulgendo a una salace digressione, il singolare comportamento degli abitanti, soliti offrire le loro donne al forestiero, convinti di ingraziarsi in tal modo gli dei. Ancora, il Milione offre una quantità di notizie, sulle pagliuzze d’oro presenti nei fiumi, sui prodotti della terra e dell’allevamento, sulle monete, talune delle quali stampate su pani di sale.
Probabilmente era il 1280 quando Marco poté far ritorno a Pechino e riferire a Kubilai le informazioni che attendeva sui Paesi di recente sottomessi, ossia quello che sino allora era stato l’impero Sung.
Il veneziano sapeva ben poco della Cina e poteva avere venticinque anni: vien da chiedersi allora come abbia potuto conquistarsi la stima e la fiducia di Kubilai. Poiché il Milione non fornisce spiegazioni, si può supporre che l’imperatore abbia voluto attingere a una fonte diversa da quelle abituali, onde avere un quadro più completo del suo regno; a questo proposito va inoltre osservato che gli incarichi appoggiati a Marco Polo riguardavano soprattutto l’economia piuttosto che la politica: o meglio, l’economia e il fisco, ossia i dazi, le risorse naturali o indotte, con particolare attenzione al monopolio del sale, un settore commerciale che – non si dimentichi – aveva fatto, e faceva, la fortuna di Venezia; e qui egli poteva valersi dell’esperienza del padre e dello zio.
Ancora, per comprendere meglio l’interesse di Kubilai a raccogliere informazioni sul settore meridionale dei suoi domini, non ben consolidati, occorre tener presente il contesto: nell’aprile 1279 era morto l’ultimo imperatore cinese della dinastia Sung, che regnava sul Paese detto Mangi (a sud del Catai), per cui non vi erano più ostacoli all’affermarsi del potere mongolo; l’anno seguente (1280) Kubilai tentava nuovamente, invano, di invadere il Giappone; infine nel 1281-82 scoppiavano dei tumulti nella stessa Pechino.
Negli anni successivi la pressione mongola si esercitò soprattutto in Cambogia e nel Vietnam, e probabilmente nel 1284 Marco Polo venne aggregato a un’ambasceria inviata nell’isola di Ceylon, famosa per le gemme che in essa si trovavano, in particolar modo le perle; in seguito (probabilmente nel 1285 e 1288) il veneziano fu in Indocina, su cui, come pure nella vicina Birmania, si appuntavano le mire di Kubilai; fu anche per tre anni governatore della città di Jangiu (oggi Yang Zhou), ultima roccaforte Sung, che i Polo avevano contribuito a conquistare nel 1283 (Milione, cap. 142 nella versione Bertolucci Pizzorusso); egli però non precisa in quale periodo ricoprì tale carica, mentre lascia largo spazio alle continue guerre e rivolte che rendevano instabile l’impero.
Frammezzo a queste vicende i Polo avevano trovato modo di arricchirsi, e molto a detta di Marco; inoltre Kubilai era ormai vecchio (era nato nel 1215), per cui la sua eventuale morte avrebbe reso difficile il ritorno in patria dei veneziani, una volta privi del lasciapassare imperiale. La loro permanenza in Cina durava ormai da diciassette anni: l’occasione per rimpatriare si presentò nel 1290, quando in Persia l’ilkhan (il re mongolo, vassallo dell’impero) Arghun, che era rimasto vedovo, chiese al cugino Kubilai di fornirgli una moglie; si trattava di rinsaldare un’alleanza politica e la scelta dell’imperatore cadde su una bellissima diciassettenne, la Cocacin del Milione. Poiché il lungo viaggio doveva svolgersi per mare, i Polo ottennero di aggregarsi all’ambasceria nuziale, tanto più che Marco era appena tornato da una missione in India, pertanto doveva conoscere il porto più adatto dove imbarcarsi alla volta di Hormuz.
La spedizione partì dall’attuale Quan Zhou quasi certamente all’inizio del 1292; tre mesi dopo le quattordici grandi giunche che accompagnavano la principessa toccarono le isole della Sonda e poi Sumatra. I veneziani erano muniti delle tavole d’oro che imponevano ai sudditi di Kubilai di prestare aiuto a chi le esibisse; inoltre l’imperatore aveva affidato loro lettere per i principali monarchi cristiani e, soprattutto, per il papa. Ciononostante il viaggio di ritorno si sarebbe rivelato tormentato, protraendosi per più di tre anni.
A Sumatra, anzitutto, la spedizione fu costretta a fermarsi sei mesi, a causa dei monsoni; poi fece rotta per Ceylon, quindi toccò la costa del Malabar, nell’India occidentale e infine Hormuz, probabilmente alla fine del 1293. La scorta della principessa che giungeva nello scalo persiano era però poca cosa rispetto all’imponente convoglio che aveva lasciato Quan Zhou; come non bastasse, a Hormuz i veneziani trovarono cattive notizie: Arghun era morto e la successione al trono si presentava difficile, tanto più che era morto anche Kubilai: la principessa Cocacin finì pertanto per andare sposa al figlio maggiore di Arghun, Gaikhatu.
A questo punto la missione dei veneziani poteva dirsi conclusa ed essi ripresero il cammino percorrendo in parte l’itinerario dell’andata; da Hormuz si portarono a Tabriz, quindi, attraverso l’Armenia e la Georgia, giunsero a Trebisonda, capitale dell’impero greco dei Comneno ed emporio ben frequentato dai mercanti italiani.
Benché il Milione non faccia parola sul deplorevole evento, è noto dal testamento di Matteo (1310) che buona parte delle ricchezze dei Polo finì nelle mani dei funzionari di Giovanni II Comneno; dopo di che i veneziani ebbero il permesso di imbarcarsi alla volta di Venezia, via Costantinopoli e Negroponte.
Rividero la loro città nel 1295, dopo ventiquattro anni di assenza.
Sul rientro, sulle accoglienze che i familiari e i compatrioti riservarono loro si è molto esercitata la fantasia degli storici; quel che è certo, è che i Polo si servirono delle superstiti ricchezze per acquistare una grande casa a S. Giovanni Grisostomo, non lontano da Rialto, ancor oggi in parte visibile in quella che si chiama Corte del Milion.
Furono anni intensi, e non sempre facili, quelli che seguirono il loro arrivo a Venezia: nel 1294 era scoppiata la seconda guerra con Genova, nel 1297-98 ci fu la serrata del Maggior Consiglio; l’8 settembre 1298 la squadra di Lamba Doria inflisse una dura sconfitta ai veneziani, nelle acque di Curzola, e fra i prigionieri che furono condotti a Genova ci fu anche Marco Polo.
È probabile che questi fosse imbarcato come sopracomito (comandante) in una galera forse armata dagli stessi Polo, il che spiegherebbe perché la prigionia del veneziano non risultasse troppo severa; fu anche breve, visto che i prigionieri vennero rimessi in libertà il 28 agosto 1299.
La tradizione vuole che in carcere Marco dettasse a un compagno di prigionia, Rustichello da Pisa, i ricordi della sua impresa (sembra certo trattarsi di ricordi, benché non siano mancati studiosi, cfr. la Bibliografia sotto riportata, che hanno posto in dubbio il fatto che Marco si sia recato davvero in Estremo Oriente, data l’assenza del suo nome fra gli annali della dinastia Yuan e nella stessa letteratura cinese). Rustichello non era un grande scrittore, si dedicava soprattutto al rifacimento di romanzi cavallereschi in lingua d’oïl, donde i titoli con i quali venne inizialmente conosciuto il Milione: Le devisement du monde e Le livre des merveilles.
Su quest’opera, che conobbe subito una straordinaria fortuna soprattutto presso i mercanti, i viaggiatori, i geografi (ma non solo: nel 1307 Thibauld de Cepoy, inviato di Carlo di Valois, figlio del re di Francia, ricevette in dono a Venezia – pare dallo stesso Marco – una copia del Milione), la bibliografia è a dir poco nutrita, anche perché i centoquaranta codici che riportano l’opera presentano varianti notevolmente difformi, non di rado inclini a innovare, potenziando quegli elementi fantastici che facilmente potevano far presa sul lettore. Ma anche a voler far la tara a immotivate digressioni, non si dimentichi che Marco Polo fu il primo europeo a percorrere in tutta la sua estensione il continente asiatico, per cui molti importanti mappamondi riportano i dati da lui narrati, a cominciare da quelli veneziani, e conservati presso la Biblioteca nazionale Marciana, di Andrea Bianco (1436) e di fra Mauro (1459), che seguono fedelmente gli itinerari e la toponomastica dei Polo, per giungere un secolo dopo alle grandi mappe presenti nella sala dello Scudo del Palazzo ducale di Venezia, disegnate da Giacomo Gastaldi dietro i suggerimenti di Giovan Battista Ramusio. Pertanto il Milione, con la descrizione delle favolose ricchezze dell’Oriente, colpì l’immaginario collettivo delle popolazioni europee e mediterranee e fu alla base della politica di esplorazioni attuata dai portoghesi nei secoli XV e XVI, per divenire poi libro di curiosità e svago, piuttosto che guida geografica, dopo la scoperta dell’America, che rappresentò un’alternativa nuova, e vincente, rispetto a quella che per secoli era stata la ‘via della seta’.
Quanto alla natura del libro, v’è chi ha ragionevolmente ipotizzato (Borlandi, valendosi della versione di Luigi Foscolo Benedetto) che Marco intendesse scrivere un manuale a uso dei mercanti, visto che solo i primi diciotto capitoletti dell’opera (per un totale di una decina di pagine) raccontano, per sommi capi, i viaggi dei Polo del 1261-69 e del 1271-95, mentre i restanti 216 capitoli descrivono i Paesi, i regni, le civiltà con le quali i veneziani vennero a contatto o delle quali ebbero notizia. Ancora, ben 109 dei 234 capitoletti complessivi seguono uno schema che ricalca da vicino la struttura dei testi di mercatura, badando soprattutto a indicare le distanze dei luoghi, le notizie etnografiche, le condizioni di sicurezza, la tipologia dei prodotti, il loro valore, la provenienza: il resto, ossia l’elemento fantasioso, i particolari sulla vita di Kubilai e della sua corte, sarebbe frutto della penna di Rustichello. Quanto al titolo Milione, sembrerebbe assodato trattarsi di un soprannome della famiglia, preesistente al libro; forse una corruzione da Vilione, cognome attestato in vari documenti coevi.
Se poco o nulla è noto di Marco Polo prima del viaggio in Oriente, qualche notizia in più riguarda gli ultimi anni trascorsi a Venezia. Sicuramente non entrò a far parte del patriziato: una grazia ottenuta nel 1302 per mancato adempimento fiscale lo definisce providus vir, titolo che si dava ai mercanti che godevano di buona reputazione, e infatti non ebbe cariche politiche.
Fra i tre protagonisti dell’impresa, il solo Matteo prese parte, sia pure in piccola misura, alla vita pubblica della sua città: il primo ottobre 1296 egli venne eletto fra i membri del Maggior Consiglio per il sestiere di Cannaregio (Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di R. Cessi, Bologna 1950, p. 360): non si era ancora verificata la cosiddetta ‘serrata’ del massimo organo costituzionale veneziano, che si sarebbe avuta poco più di un anno dopo, per cui tale elezione avrebbe potuto costituire il presupposto per un inserimento della famiglia Polo nei ranghi del patriziato, cosa che però non avvenne a causa della mancanza di figli maschi; né si ha notizia di ulteriori cariche pubbliche di Matteo.
Nel 1300, ormai quarantacinquenne, Marco contrasse matrimonio con la nobildonna Donata Badoer di Vitale, del ramo a S. Paternian, che gli portò in dote alcuni stabili nella vicina contrada di S. Salvador.
Dalla moglie ebbe solo femmine, tutte sposate a dei patrizi: Fantina a Marco Bragadin, Bellela a Bertuccio Querini, Moreta a Ranuccio Dolfin e in secondi voti a Tommaso Gradenigo. Diversamente dal padre e dallo zio (che nonostante l’età non più giovanissima e l’agiatezza verosimilmente conseguita, all’inizio del 1300 erano a Creta, dove con distinte operazioni e con soci diversi noleggiavano tre galere per commerciare a Cipro e nei porti siriaci), Marco Polo non esercitò direttamente la mercatura, limitandosi a finanziare talune iniziative dei familiari, quali il fratellastro Matteo e i due fratelli naturali Giovanni e Stefano. Nicolò li aveva avuti da una donna di nome Maria e vissero con lui in famiglia assieme ai figli legittimi, come Matteo ricorda nel testamento dettato il 31 agosto 1300, quando stava per recarsi a Creta probabilmente per continuare l’attività paterna. Abbastanza numerosi, infine, sono i dati concernenti la casa acquistata dai Polo a S. Giovanni Grisostomo, di cui Marco possedeva la parte rivolta verso S. Cancian per 10 carati su un complesso di 24; le notizie in proposito si desumono da una serie di liti che seguirono la sua morte.
Qui egli morì l’8 gennaio 1324, all’età di settant’anni; nel testamento, redatto quando non mancavano che poche ore alla fine, nominò commissari la moglie e le figlie, dispose di molti lasciti pii, liberò lo schiavo tartaro Pietro, lasciò eredi le figlie e dispose di essere sepolto nel monastero di S. Lorenzo. La tomba e i suoi resti, che furono posti nella cappella di S. Sebastiano, andarono distrutti in età napoleonica.