Vita e opere
Il poeta che Dante nomina in Purgatorio, XXVI, 94 (“son Guido Guinizzelli e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo“) è presentato dai canzonieri antichi come “Messer Guido Guinizelli di Bologna” .
L’avo di G. è ricordato negli atti semplicemente come “dominus Magnanus”, senza tracce di relazione con la famiglia de Magnanis; di lui si sa che fu procuratore del Comune nel 1229 (Savioli, p. 91) e membro del Consiglio di credenza nel 1234 (ibid., p. 151) e 1250 (Antonelli, p. 38).
“Domino Guinicello filio Magnani” è nominato in un atto del 1226 (Orioli, p. 168) come testimone alla vendita di un Digestumnovum; la capacità di testimoniare implica che Guinizzello avesse in quell’anno più di venticinque anni, fosse nato insomma prima del 1201. Nel 1229 Guinizzello era membro del Consiglio del Popolo (Savioli, p. 92); appare poi con la qualifica di iudex in atti del 1235 (una sentenza: in Orioli, p. 168), 1239 (Savioli, p. 179), 1262 (ibid., p. 380). I discendenti di Magnano avevano case nella “cappella” di S. Benedetto di Porta Nuova e poderi nei territori, fra loro confinanti, di Ceretolo (“in curia Ceretoli”) e Casalecchio (“in curia Casalicli de Reno”): documenti del 13 nov. 1268, 21 ag. 1269, 3 genn. 1277, ecc.; di Guinizzello si conosce anche, da un atto dell’11 genn. 1269, una casa “in platea maiori” (attuali via d’Azeglio – piazza Maggiore lato ovest – via Indipendenza), dove almeno fino a quella data abitò anche Guido.
Dalla prima moglie, Ugolina di Ugolino da Tignano, Guinizzello ebbe Giacomo, nato intorno al 1219, G. e Bartolomea; sposò poi, come si è detto, Guglielmina di Ugolino Ghisilieri, da cui ebbe Uberto, che morì prima del 1292, e Vermiglia, vivente nel 1292: il chiarimento di questi dati si deve ad A. Antonelli.
G. è già nominato come teste in un atto del 20 nov. 1265, relativo all’attività paterna: “Martinus Rosellus dixit promisisse domino Guiniçello condam domini Magnani ire cum eo et esse ad potestariam Narni, a kal. januarii proximis venturis […] presentibus d. Guidone filio d. Guiniçelli etc.”. Nacque dunque prima del 1240; una data puramente indicativa, tenendo conto dell’età del fratello Giacomo, può essere il 1230. Contro l’ipotesi che G. poeta sia all’incirca coetaneo di Guittone d’Arezzo non vale l’obiezione (Contini) che il primo rivolga al secondo l’appellativo “padre” (nel sonetto O caro padre meo, de vostra laude), comunque spiegabile con lo stato del destinatario, dal 1265 circa membro dell’ordine dei frati gaudenti, e con la sua autorevolezza di maestro.
Come il padre Guinizzello, G. apparteneva al mondo dei legisti.
Il 12 ag. 1269 i tre figli più grandi di Guinizzello, forse per dissensi con lui, si fecero riconoscere “licentia posse contrahere et pacisci tanquam patres familias” (Zaccagnini, 1915, p. 427); il 15 dic. 1272 Guglielmina abbandonò la casa maritale. La separazione si può spiegare con motivi politici (i Ghisilieri erano geremei, ossia guelfi), come suggerisce Antonelli, o con più tristi fatti personali: qualificato “mentecattus” in un documento del 22 nov. 1274, Guinizzello morì prima del 20 maggio 1275 (data in cui un documento menziona “Ubertus quondam Domini Guinicelli banitus et rebellis Communis Bononiae pro parte Lambertaciorum”: Fantuzzi, p. 347); fu sepolto in S. Colombano (cfr. il testamento di Vermiglia, 22 genn. 1292, da cui risulta anche che Guglielmina, ancor viva nel 1287, era morta e ricongiunta col marito nella tomba).
G. aveva frattanto sposato Beatrice della Fratta e nel 1270 preso dimora in via di Portanova, “nel quartiere dove s’affollavano nelle loro scuole i grammatici”; dal matrimonio nacque Guiduccio.
Sconfitta la parte lambertazza, G., Giacomo e Uberto furono inclusi nelle liste dei ribelli, con le rispettive famiglie. I documenti studiati da Antonelli sembrano però indicare che G. fu effettivamente condannato al confino solo nel 1276, l’anno stesso della sua morte, avvenuta prima del 14 novembre; resta dunque soltanto una minima apertura cronologica per un eventuale esilio di Guido. La notizia del confino a Monselice, contenuta in un registro non datato ma probabilmente del 1277 o di poco posteriore, si riferisce a Guiduccio di Guido, a Giacomo e Uberto di Guinizzello e ad altri membri della consorteria.
Le pur scarse notizie sulla vita di Guido Guinizzelli Magnani aggiungono qualche tratto significativo alla figura del poeta. L’appartenenza alla nobiltà potrebbe suggerire – in tempi di legislazione antimagnatizia (dal 1248) – una lettura più sottile dei famosi versi “Dis’ omo alter: / Gentil per sclatta torno…” (Al cor gentil, vv. 33-34), ossia una rivendicazione della “gentilezza” individuale contro i vincoli di “schiatta”, intesi in buona come in cattiva parte. Ma il dato più importante è senza dubbio l’appartenenza di G. al mondo degli uomini di legge, che vuol dire continuità di ordine sociologico, quindi culturale, fra G. e gli antecessori “siciliani”.
Prescindendo dall’indefinibile “partecipazione” a S’eo trovasse pietanza, il corpus poetico di G. comprende cinque canzoni e quindici sonetti.
Il tema proprio di G. è il “fino amore”, l’amore perfetto, con i suoi tormenti e le sue delizie che incessantemente trascolorano gli uni nelle altre: “la natura mia me mina / ad esser di voi, fina, / così distrettamente innamorato / che mai in altro lato / Amor non mi pò dar fin piagimento: / anzi d’aver m’allegra ogni tormento” (Madonna, il fino amor ched eo vo porto). L’amore nobilita, ma la presenza dell’amata getta l’amante nello smarrimento; del noto paradosso G. tenta una spiegazione addirittura ontologica: “Madonna, da voi tegno ed ho ‘l valore; / questo m’avene, stando voi presente, / ch’e’ perd’ogni vertute: / che le cose propinque al lor fattore / si parten volentero e tostamente / per gire u’ son nascute” (ivi; cfr. Dante, Convivio, IV, XII 14: “lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé […] essa anima massimamente desidera di tornare a quello”). La celebrazione della donna ha una solida base “siciliana”, ma un sentimento ben più limpido di come la bellezza “appaia” in forma di luce, nell’attimo irripetibile: “Ben è eletta gioia da vedere / quand’apare ‘nfra l’altre più adorna, / che tutta la rivera fa lucere / e ciò che l’è d’incerchio allegro torna; / la notte, s’aparisce, / come lo sol di giorno dà splendore, / così l’aere sclarisce” (Tegno de folle ‘mpres’, a lo ver dire); e di come l’interiorità dell’amante ne riesca perturbata e commossa: “Di sì forte valor lo colpo venne / che gli occhi no’l ritenner di neente, / ma passò dentr’al cor, che lo sostenne / e sentési plagato duramente” (ivi).
Dal suo più vero modello, che è Guido Delle Colonne, iudex da Messina, G. ritrae il gusto per la similitudine inconsueta, ben articolata, e ora nutrita con letture “scientifiche” non banali. Ecco il magnete: “In quella parte sotto tramontana / sono li monti de la calamita, / che dan vertud’all’aire / di trar lo ferro” (Madonna, il fino…) e il fulmine: “Madonna, audivi dire / che ‘n aire nasce un foco / per rincontrar di venti; / se non more ‘n venire / in nuviloso loco, / arde immantenenti / ciò che dimora loco” (Donna, l’amor mi sforza). Il massimo sviluppo di questa tecnica è in Al cor gentil, dove l’amore viene definito per similitudini tratte da: ars venandi (vv. 1-2); teoria della luce (5-10, 39-40); scienza de lapidibus (11-20, 28-30); fisica generale (21-27); dottrina della nobiltà (31-38); teologia (41-50). Tanto impegno è prodotto da G. nell’intento di superare la netta contrapposizione – che Guittone aveva rilanciato dopo la cosiddetta “conversione” – fra esperienza d’amore e perfezionamento morale. Con “originalità assoluta” (Roncaglia, 1967), G. scopre una legge fisica (“né fe’ amor anti che gentil core, / né gentil core anti ch’amor, Natura“) dietro l’antica massima per cui “probitas sola quemque dignum facit amore” (Andrea Capellano).
Madonna splende negli occhi dell’amante come Dio splende nelle intelligenze angeliche; il poeta prevede che Dio lo rimprovererà per tale raffronto blasfemo e se ne scusa in anticipo col fatto che Madonna ha “d’angel sembianza”. Il motivo, peraltro, ci riporta direttamente al Guittone cortese: “ch’angel di Deo sembrate in ciascun membro” (son. Donque mi parto); la donna non è qui collocata realmente in connessione col soprannaturale (come nella Vita nova), e l’audacia del paragone sta piuttosto nella natura sessuale del beato compimento che ella “dar dovria” all’amante devoto (vv. 47-50), come Dio “al primero”, cioè istantaneamente, dà beatitudine alle intelligenze celesti che gli obbediscono. Anche in II, G. tiene il punto: “Dar allegranza amorosa natura, / senz’esser l’omo a dover gioi compire, / inganno mi simiglia” (vv. 13-15); è molto probabile, come suggerisce Sanguineti, che sia questa la lussuria letteraria di cui il G. dantesco si va purgando.
A tal riguardo, non aggiunge poi molto il son. XVII, Chi vedesse a Lucia un var capuzzo, con la terzina: “Ah, prender lei a forza, ultra su’ grato, / e bagiarli la bocca e ‘l bel visaggio / e li occhi suoi, ch’èn due fiamme de foco”. Le rime in uzzo (capuzzo: Abruzzo:tuzzo: mozzo ⟨ *muzzo) segnalano nettamente un livello stilistico “comico”, che si dovrebbe riportare al modello fiorentino di Rustico Filippi (cfr. son. Volete udir vendetta smisurata?, con le rime Acerbuzzo: Giovannuzzo: puzzo: Cambiuzzo). Allo stesso livello si pone XVIII, Volvol te levi, vecchia rabbiosa, che si può confrontare col famoso Dovunque vai con teco porti il cesso, di Rustico: ma G. non è tanto interessato al singolo dettaglio obbrobrioso, quanto alla forza complessiva dell’immagine: “Ché non fanno lamento li avoltori, / nibbi e corbi, a l’alto Dio sovrano, / che lor te renda? Già se’ lor ragione. / Ma tant’ ha’ tu sugose [‘marce’] carni e dure, / che non se curano averti tra mano”.
Niente di specifico si può dire sulle modalità con cui le rime di G. giunsero nelle mani degli innovatori fiorentini; ma sostanzialmente immotivata appare l’ipotesi di Petrocchi (“è concesso inferire che fu proprio D[ante] a trasportare nel pieno del 1287, di Bologna in Firenze, il canzoniere guinizzelliano”): non soltanto sappiamo che Dante leggeva un G. toscanizzato, cioè all’incirca il G. dei grandi canzonieri (cfr. De vulgari eloquentia, I, XV 6); ma il “primo” Cavalcanti era già, consapevolmente, un cultore di Guido. I due soli testi di Cavalcanti ammessi nei canzonieri arcaici, la ballata Fresca rosa novella e il sonetto Biltà di donna, pur nel loro gusto sicilianeggiante sono già caratterizzati dalla frequenza dei sintagmi guinizzelliani.