L’Italia durante il Fascismo e le persecuzioni razziali
(fonte: Enciclopedia Americana sulla Shoah)
Nell’ottobre del 1922, il Re Vittorio Emanuele III affidò al capo del Partito Fascista, Benito Mussolini, l’incarico di Primo Ministro.
Nel corso dei sette anni successivi i Fascisti crearono e consolidarono una dittatura a partito unico, ma ciò nonostante Mussolini non riuscì mai a creare una dittatura di tipo assoluto in quanto, da un lato, la Monarchia rimase indipendente dal Partito Fascista e il Re continuò, almeno in teoria, ad essere il comandante in capo delle forze armate; e dall’altro, nonostante Mussolini fosse il leader indiscusso del Partito Fascista, la sua funzione rimase nominalmente soggetta all’approvazione del Gran Consiglio del Fascismo.
Nel 1933, la comunità ebraica italiana, una delle più antiche d’Europa, contava circa 50.000 membri. Gli Ebrei avevano vissuto in Italia per più di duemila anni e all’inizio degli anni Trenta si potevano considerare pienamente integrati nella cultura e nella società del paese.
L’antisemitismo era relativamente poco presente tra gli Italiani. Nonostante poi vi fossero alcuni fanatici antisemiti tra i capi del Partito Fascista, come ad esempio Achille Starace e Roberto Farinacci, il Fascismo italiano non prestava particolare attenzione all’antisemitismo e fino al 1938 gli Ebrei furono liberi di iscriversi al Partito Fascista. In parte a causa delle pressioni provenienti dalla Germania Nazista e in parte preoccupato che la sua “rivoluzione” non fosse percepita come “reale” dalla popolazione italiana, il regime Fascista decise di promulgare una serie di leggi antisemite all’inizio del 1938.
Quelle leggi riguardavano sei settori:
- La definizione di chi dovesse essere considerato Ebreo;
- La rimozione degli Ebrei dai posti statali, incluse le cattedre delle scuole pubbliche;
- Il divieto di matrimoni tra Ebrei e non Ebrei;
- Il congedo forzato degli Ebrei dalle forze armate;
- L’incarcerazione degli Ebrei di altre nazionalità;
- La rimozione degli Ebrei dai mass media.
Nonostante i termini forti usati sui giornali, le autorità italiane non furono sempre rigorose nell’applicare le leggi razziali e a volte interpretarono in modo assai ampio le clausole che permettevano loro di fare delle eccezioni.
Anche nei campi di internamento, gli Ebrei di altre nazionalità che vi erano stati rinchiusi, vissero in condizioni accettabili: alle famiglie venne permesso di rimanere unite e nei campi vennero organizzate scuole, attività culturali e altri eventi sociali. Ciò nonostante, per molti membri di una minoranza ebraica fortemente integrata che aveva buoni rapporti con i vicini non Ebrei, così come con i colleghi di lavoro o i soci in affari, l’insulto morale e gli svantaggi economici reali creati dalla discriminazione deteriorarono molto la qualità della vita, spingendo migliaia di Ebrei italiani ad emigrare tra il 1938 e il 1942, principalmente verso il continente americano.
L’ITALIA ENTRA A FAR PARTE DELL’ASSE
Avendo aderito ufficialmente all’Asse nel 1939, l’Italia dichiarò guerra alla Gran Bretagna e alla Francia nel giugno del 1940, entrando così nella Seconda Guerra Mondiale a fianco della Germania.
Il regime Fascista sperava di creare un nuovo Impero “Romano” che incorporasse tutti i paesi del Mediterraneo e si spingesse fino all’Africa Occidentale e Orientale e nel cosiddetto Levante (Siria e Libano). L’Italia invase la Francia nel giugno del 1940 e nello stesso mese, in seguito all’Armistizio di Vichy, occupò una stretta striscia di terra al confine tra Francia e Italia.
Nell’autunno dello stesso anno, l’Italia attaccò la Grecia e dalle sue basi in Libia (che l’Italia aveva sottratto all’Impero Ottomano nel 1911) invase l’Egitto allora sotto l’influenza britannica. L’Italia, però, subì alcune disastrose sconfitte in entrambe le campagne e quindi, nella primavera del 1941, la Germania fu costretta ad inviare le sue truppe, conquistando la Grecia e la Jugoslavia e cacciando dalla Libia le forze britanniche.
Nella primavera del 1941, all’Italia venne riconosciuta, come zona d’occupazione, la costa adriatica della Jugoslavia e della Grecia e parte del territorio interno. Nonostante l’alleanza con la Germania, il regime Fascista rispose in modo ambiguo alle richieste tedesche di concentrare e deportare nei centri di sterminio della Polonia occupata dai Tedeschi gli Ebrei che risiedevano in nelle zone di Jugoslavia, Grecia e Francia occupate dalle forze italiane. Le autorità militari italiane in genere si rifiutarono di partecipare all’uccisione in massa degli Ebrei, o di facilitarne la deportazione dall’Italia o dai territori occupati; i leader Fascisti, inoltre, non volevano e non potevano forzare la questione.
Le zone occupate dagli Italiani erano quindi relativamente sicure per gli Ebrei. Tra il 1941 e il 1943, migliaia di Ebrei fuggirono dai territori occupati dai Tedeschi in quelli occupati dagli Italiani in Francia, Grecia e Jugoslavia. Le autorità italiane trasferirono persino in Italia 4.000 rifugiati Ebrei, che furono poi incarcerati nel meridione e sopravvissero alla guerra.
LA CADUTA DI MUSSOLINI E LA RESA DELL’ITALIA
In generale, la popolazione italiana non approvava né l’alleanza con la Germania né la guerra. Le sconfitte militari italiane, la dipendenza dalle armi tedesche e il fallimento dell’offensiva dell’Asse in Egitto nell’estate e autunno del 1942 avevano minato ulteriormente la legittimità del Partito Fascista. Il collasso del fronte in Nord Africa – che culminò con la resa dell’Asse a Tunisi il 13 maggio 1943 – e il successo dello sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio indussero il Gran Consiglio del Fascismo a votare la sfiducia a Mussolini, il 25 luglio 1943.
Il Re Vittorio Emanuele III usò il voto del Consiglio come scusa per far arrestare Mussolini e nominare Primo Ministro il Maresciallo Pietro Badoglio, che era stato un generale e un fascista. Pur confermando ufficialmente la fedeltà dell’Italia all’Asse, in agosto Badoglio iniziò segretamente i negoziati che portarono a un accordo per il cessate il fuoco con gli Alleati il 3 settembre, in contemporanea con lo sbarco degli anglo-americani nel sud Italia. L’8 settembre 1943, Badoglio annunciò la resa incondizionata agli Alleati.
I Tedeschi, che da tempo nutrivano sospetti sull’atteggiamento dell’Italia, occuparono rapidamente la zona centrale e settentrionale della penisola, così come le zone fino ad allora controllate dagli Italiani in Jugoslavia, Grecia e Francia. Reparti di paracadutisti delle SS liberarono Mussolini e lo misero a capo della Repubblica Sociale Italiana (RSI) con sede a Salò, nel nord Italia, e naturalmente alleata della Germania. L’occupazione tedesca dell’Italia mutò radicalmente la situazione dei 43.000 Ebrei che vivevano nella parte settentrionale del paese. I Tedeschi, infatti, crearono velocemente la struttura – costituita da SS e agenti di polizia – che avrebbe dovuto, tra l’altro, occuparsi della deportazione degli Ebrei italiani ad Auschwitz-Birkenau.
I CAMPI E LE DEPORTAZIONI NELL’ITALIA OCCUPATA
Nell’ottobre e nel novembre 1943, le autorità tedesche rastrellarono gli Ebrei a Roma, Milano, Genova, Firenze, Trieste e altre città nel nord Italia. Essi aprirono poi dei campi di transito, amministrati dalla polizia, dove concentrare gli Ebrei prima della deportazione: uno a Fossoli di Carpi, circa 12 chilometri a nord di Modena, uno a Bolzano, nel nordest, e un altro a Borgo San Dalmazzo, vicino al confine con la Francia.
In generale queste operazioni ebbero un successo limitato, in parte grazie al fatto che spesso le autorità italiane e il Vaticano avvertirono in tempo gli Ebrei delle intenzioni dei Tedeschi, e in parte per la scarsa volontà da parte degli Italiani, incluse le autorità di polizia di Salò, di partecipare direttamente alle retate o anche solo di collaborare alla loro riuscita.
Ad esempio, dei circa 10.000 Ebrei che risiedevano a Roma i Tedeschi riuscirono a deportarne meno di 1.100. Dai campi di transito del nord Italia i Tedeschi comunque deportarono ad Auschwitz-Birkenau 4.733 Ebrei, dei quali solo 314 sopravvissero. Le autorità tedesche deportarono 506 Ebrei in altri campi: Bergen-Belsen, Buchenwald, Ravensbrück e Flossenbürg. La maggior parte di questi prigionieri era costituita da Ebrei residenti in Libia, alcuni di nazionalità britannica e francese. Le autorità italiane avevano trasferito questi Ebrei dalla Libia all’Italia nel 1942 e perciò essi caddero in mani tedesche nel settembre 1943.
Gli Ebrei libici costituirono la maggior parte di coloro che vennero mandati a Bergen-Belsen (su un totale di 396). Si pensa che tutti gli Ebrei mandati a Bergen-Belsen, inclusi quelli provenienti dalla Libia, siano sopravvissuti. Le autorità tedesche deportarono anche ad Auschwitz 328 Ebrei dal campo di Borgo San Dalmazzo – dopo averli fatti passare per il campo di Drancy – dei quali solo 10 sopravvissero, e altri 1.820 provenienti da Rodi e da Kos, dei quali se ne salvarono 179.
A Trieste, nel 1943, era stato nominato comandante della Polizia e Alto Ufficiale delle SS il General-Maggiore Odilo Globocnik, già comandante dell’Operazione Reinhard (la quale prevedeva l’eliminazione di tutti gli Ebrei risiedenti all’interno del cosiddetto Governatorato Generale, nella parte di Polonia occupata dai Tedeschi) e i Tedeschi deportarono circa un quarto della popolazione ebrea che risiedeva nella città prima della guerra. Inoltre, le SS e la polizia crearono il campo di transito e di concentramento Risiera di San Sabba, vicino a Trieste, dove torturarono e uccisero 5.000 persone, la maggior parte delle quali era costituita da prigionieri politici.
Nell’autunno e nell’inverno a cavallo tra il 1943 e il 1944, utilizzando volontari italiani e slovacchi – sotto il controllo di personale militare non nominato ufficialmente ma appositamente selezionato e addestrato nel campo di Trawniki, in Polonia – le SS e gli agenti di polizia di Trieste concentrarono a San Sabba circa 1.200 Ebrei, la maggior parte proveniente da Trieste stessa, e ne deportarono poi 1.122 ad Auschwitz e 55 a Ravensbrück e Bergen-Belsen. Di coloro che furono inviati ad Auschwitz, soltanto 85 riuscirono a sopravvivere.
In tutto, i Tedeschi deportarono 8.564 Ebrei dall’Italia e dalle zone occupate dagli Italiani in Francia e nelle isole di Rodi e di Kos, la maggior parte ad Auschwitz; degli oltre ottomila deportati, solo 1.009 fecero ritorno. Inoltre, i Tedeschi fucilarono 196 Ebrei sul suolo italiano, la metà dei quali nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, nel marzo del 1944. Altri 100 circa morirono nei campi di transito, o in prigione, oppure mentre si trovavano sotto custodia della polizia, in tutto il paese.
Più di 40.000 Ebrei però sopravvissero all’Olocausto in Italia. Alla fine dell’aprile 1945, i partigiani comunisti catturarono e uccisero Mussolini e la sua amante, Clara Petacci, mentre le forze tedesche ancora presenti in Italia si arresero agli Alleati il 2 maggio 1945. Nonostante alcune vendette sommarie venissero tollerate nell’immediato dopoguerra, le autorità italiane processarono pochi tra coloro che avevano collaborato con i Tedeschi, anche tra quelli che avevano partecipato alla Repubblica di Salò. Soltanto negli ultimi 10 o 15 anni* le autorità italiane si sono rese disponibili a condurre una serie di processi, ma solo contro funzionari nazisti tedeschi o personale ausiliario di etnia tedesca.
Nel 1977, un tribunale italiano condannò gli ex ufficiali delle SS Karl Priebke e Karl Hass rispettivamente a quindici e dieci anni di prigione per il ruolo avuto nel massacro delle Fosse Ardeatine, avvenuto nel marzo del 1944. Recentemente, nel 2007, le autorità italiane hanno processato Michel Seifert, Ucraino di etnia tedesca, dopo la sua estradizione dal Canada, con l’accusa di omicidio commesso durante il servizio prestato per i Tedeschi nel campo di transito di Bolzano.