Shoah

Memoria Storica

Le persecuzioni in Polonia

Nel dibattito internazionale riguardante gli autori non tedeschi dell’Olocausto, la Polonia occupa un posto particolare, determinato, tra l’altro, dai seguenti fattori. Prima del 1939 in Polonia viveva la maggioranza degli ebrei d’Europa, più di 3.000.000 di persone, una comunità che equivaleva a oltre il 10% della popolazione nazionale complessiva. Gli occupanti tedeschi costruirono in territorio polacco tutti i campi di sterminio in cui gli ebrei, polacchi ed europei, furono eliminati. Più della metà di tutte le vittime dell’Olocausto perse la vita in territorio polacco e circa la metà delle vittime dell’Olocausto era costituita da ebrei polacchi. Inoltre la Polonia pagò il prezzo di vittime tra la popolazione non ebraica proporzionalmente più alto in confronto alle altre popolazioni coinvolte nella Seconda guerra mondiale. A perdere la vita durante l’Olocausto non furono solo i circa 3 milioni di ebrei polacchi, ma anche fino a un milione e mezzo di persone di etnia polacca, per lo più civili e non solo a causa del terrore tedesco, ma anche di quello sovietico. All’inizio, tuttavia, dopo la sconfitta e l’occupazione della Polonia, il terrore tedesco non prese ancora di mira in primo luogo gli ebrei polacchi, bensì l’intellighenzia polacca, considerata la promotrice della resistenza anti-tedesca similmente a quanto accadeva nelle regioni polacche occupate dai sovietici. Il momento che segnò il cambio di trattamento nei confronti degli ebrei polacchi fu rappresentato dall’attacco tedesco all’URSS. Nelle regioni della Polonia orientale, fino ad allora occupate dai sovietici, si verificarono pogrom e fucilazioni di massa, soprattutto a danno di ebrei. I pogrom furono particolarmente intensi nel territorio dell’odierna Ucraina occidentale; vi parteciparono soprattutto ucraini, ma anche polacchi. Tuttavia questi eccessi si rivolsero in parte anche contro i polacchi. 

Le regioni della Polonia nordorientale, precedentemente occupate dai sovietici, più precisamente intorno alle città di Bialystok e di Lomża, furono anch’esse colpite da un’ondata di violenza antiebraica che fece migliaia di vittime. Qui si giunse in decine di località a eccessi di violenza. A questo proposito vanno distinte due diverse fasi della violenza. La prima iniziò subito dopo il ritiro dei sovietici e fu rivolta verso individui ben precisi: ebrei o polacchi accusati di collaborazionismo con gli occupanti sovietici o di complicità nelle stragi perpetrate dai sovietici. Centinaia di persone furono seviziate, percosse a morte o consegnate ai tedeschi e fucilate. Gli autori delle violenze erano molto spesso polacchi, vittime del terrore sovietico: prigionieri sfuggiti ai russi o detenuti scarcerati dai tedeschi, parenti di deportati o di giustiziati, oppure membri del movimento clandestino antisovietico, molto attivo in questa regione. A questa ondata di violenza ne seguì un’altra più sanguinosa. Essa prendeva ora di mira tutti gli ebrei, compresi donne, bambini e anziani. In molte località della regione, ad esempio a Jedwabne, venivano compiute in modo pianificato azioni di sterminio indirizzate contro intere comunità ebraiche. Tali azioni erano ispirate e organizzate da commando mobili delle SS e in alcune località furono condotte da mano polacca. Altrove la partecipazione polacca si “limitava” al rastrellamento e alla sorveglianza delle vittime ebraiche, mentre l’uccisione materiale tramite fucilazione veniva effettuata dai responsabili tedeschi. Centinaia di polacchi presero parte a queste azioni omicide; nella sola Jedwabne furono circa quaranta. 

Dopo alcune settimane l’ondata di violenza si placò e gli invasori tedeschi passarono alla persecuzione e all’eliminazione sistematica degli ebrei, in modo simile alle restanti regioni orientali. Seguirono la ghettizzazione, gli espropri, i lavori forzati e, infine, l’eliminazione nelle camere a gas del campo di sterminio di Treblinka. L’aggressione militare tedesca all’URSS ebbe come conseguenza una radicalizzazione della persecuzione contro gli ebrei, che condusse allo sterminio totale anche nei restanti territori polacchi occupati dai tedeschi. Fu del settembre 1941 la decisione di eliminare gli ebrei del Warthegau (la regione attorno a Poznań e Lodź), mentre a ottobre si pianificò lo sterminio degli ebrei del Governatorato generale (la cosiddetta “azione Reinhard”). Il piano di annientamento prevedeva il massacro degli ebrei non tramite le fucilazioni di massa, come nelle regioni orientali occupate, ma tramite gassazione in fabbriche di morte appositamente costruite. I tedeschi realizzarono tali strutture nella Polonia occupata. Il campo di sterminio di Kulmhof entrò in funzione nel dicembre 1941, quello di Bełżec nel marzo del 1942, il campo di Sobibór nel maggio 1942, mentre quelli di Treblinka e Auschwitz nel luglio 1942. 

A partire dal dicembre 1941 gli invasori tedeschi cominciarono a eliminare gli ebrei polacchi nei campi di sterminio. Le operazioni si svolgevano prevalentemente in questo modo: massicce forze delle SS e di polizia circondavano un ghetto o un quartiere ebreo. Esse conducevano fuori dalle abitazioni gli ebrei, radunandoli nel luogo di raccolta. Durante tali operazioni gli eccessi erano la norma: le vittime venivano bastonate e uccise, soprattutto quelle che tentavano la fuga, opponevano resistenza o le persone “non idonee al trasporto”, come i malati costretti a letto o i vecchi. Si verificarono anche stupri di donne ebree. Nel luogo di raccolta avveniva la selezione degli “abili al lavoro” e degli “inabili al lavoro”. Gli “abili al lavoro”, in primo luogo lavoratori giovani e qualificati, potevano restare nel ghetto o venivano inviati in un campo di lavoro, dove svolgere appunto lavoro forzato. Tutti gli “inabili al lavoro”, bambini, donne e anziani, venivano caricati nei convogli predisposti e trasportati in uno dei campi di sterminio, dove si procedeva alla loro eliminazione. 

In tutte queste operazioni gli autori tedeschi delle deportazioni si affidavano normalmente a forze proprie, cioè personale delle SS e di polizia, e a formazioni da loro istituite, composte da stranieri, come soprattutto gli “uomini di Trawniki” (v. sopra). Non di rado fornivano cooperazione attiva anche i membri dell’amministrazione civile e i soldati della Wehrmacht. Anche la polizia ebraica dei ghetti, soprattutto nei ghetti più grandi come quello di Varsavia, doveva prestare la propria collaborazione. Nelle località con comunità ebraiche più piccole, invece, per rastrellare le vittime ebree venivano impiegati anche poliziotti polacchi della cosiddetta “polizia blu”, i membri del “servizio edile” [Baudienst ], delle amministrazioni comunali e del corpo volontario dei vigili del fuoco. Nel Governatorato generale i giovani polacchi erano reclutati in forma coatta per il servizio edile: dal 1943 il rifiuto di prestare lavoro forzato per gli occupanti tedeschi fu punito con la pena di morte. 

Le forze locali, nella Polonia sotto occupazione tedesca, svolsero quindi un ruolo subordinato nell’ambito delle deportazioni nei campi di sterminio, per il fatto stesso che nella maggioranza dei casi il coinvolgimento era forzato (per i membri del servizio edile) oppure disposto da ordini superiori (nel caso della polizia blu o dei polacchi appartenenti alle amministrazioni comunali). Questo, tuttavia, vale solo parzialmente nel caso della caccia alle vittime fuggitive. A partire dall’estate 1942 si ebbero fughe in massa dai ghetti. Migliaia di ebrei tentarono di salvarsi dall’imminente deportazione nei campi di sterminio cercando l’aiuto degli “ariani”. Gli occupanti tedeschi, di contro, procedevano con grande rigore: essi infliggevano pene draconiane a tutti coloro che tentassero in qualsiasi modo di aiutare gli ebrei; per costoro e per le loro famiglie era prevista la pena di morte, generalmente eseguita subito sul posto, in modo da scoraggiare tutti i potenziali soccorritori. Dall’altra parte i tedeschi resero obbligatoria la collaborazione dei cittadini nella cattura degli ebrei e dei fuggitivi, e se da un lato l’inosservanza dell’obbligo veniva punita, dall’altro ai collaboratori erano promesse ricompense. In questo modo gli invasori tedeschi crearono condizioni a dir poco “paradisiache” per qualsiasi individuo predisposto al crimine: ormai vessare e consegnare gli ebrei non solo era permesso, ma diveniva addirittura un obbligo di legge. Non pochi dunque nella Polonia occupata erano disposti a fare ciò, già solo per la prospettiva di vantaggi materiali. È molto difficile calcolare quanto fosse grande il numero di costoro e la loro percentuale rispetto alla popolazione complessiva. Nel caso di Varsavia si presumono tra i 4000 e i 5000 gli abitanti polacchi che assunsero un atteggiamento attivo nella caccia agli ebrei nascosti: una percentuale compresa tra il quattro e il cinque per mille della popolazione polacca di Varsavia. 

Pochi studi si sono finora occupati delle modalità in cui si svolgeva la caccia ai fuggitivi nelle campagne. È comunque certo che vi presero parte polacchi, alcuni costretti con la forza, altri volontariamente. Contadini polacchi, ad esempio, dovettero partecipare a vere e proprie battute di caccia agli ebrei nascosti nei boschi. Singole persone denunciarono alle autorità tedesche gli ebrei clandestini. Non accadeva di rado che gli ebrei nascosti fossero derubati e uccisi. Marek Jan Chodakiewicz calcola che, nel periodo compreso tra la primavera del 1942 e l’estate 1944, nel distretto di Janów Lubelski, a ovest di Lublino, circa 1000 ebrei avevano tentato la fuga. Approssimativamente 400 di questi furono scoperti durante cacce all’ebreo o durante azioni antipartigiane, e sottoposti a “trattamento speciale” [sonderbehandelt ]; più di 300 ebrei furono uccisi da banditi comuni, da partigiani comunisti e non e da collaborazionisti polacchi. D’altra parte vi furono anche molti cittadini che, a rischio della propria vita, aiutarono i perseguitati. Per questo motivo, molti di essi vennero uccisi dai tedeschi con tutta la loro famiglia. 

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