Shoah

Memoria Storica

L’OPINIONE DI David Bankier SULLA CONOSCENZA DEGLI STERMINI

La mancanza di una dichiarata opposizione alla persecuzione degli ebrei spiega largamente perché così tanti cercarono deliberatamente rifugio dalla consapevolezza del genocidio e tentarono di rimanerne il più possibile all’oscuro, giacché ciò salvava la loro coscienza. Conoscere i fatti generava senso di colpa in quanto chiamava in causa la responsabilità, e molti credevano di poter conservare la loro dignità rifuggendo l’orribile verità. Questa deliberata fuga nella sfera privata e nell’ignoranza non salvaguardò l’opinione pubblica dall’essere consapevole dei crimini del Terzo Reich. Le notizie sulle fucilazioni di massa e sulle gassazioni trapelavano nel Reich, accrescendo la preoccupazione circa le conseguenze degli atti criminali dei nazisti. 

Quel che afferma Bankier, in altre parole, non è tanto il fatto che i tedeschi potevano essere all’oscuro degli stermini, quanto semmai che non volevano sapere. La tendenza a evitare o reprimere notizie fastidiose rappresenta indiscutibilmente un fenomeno molto comune ed è, logicamente, applicabile all’atteggiamento della maggior parte dei tedeschi in relazione al destino degli ebrei. Si tratta di un’interpretazione non facilmente dimostrabile o confutabile. Le notizie erano sì palesemente disponibili, ma come dimostrare che i tanti tedeschi posti di fronte a esse capissero la loro importanza o negassero la loro credibilità, le reprimessero o le ritenessero una possibilità e non, tuttavia, una certezza? 

Malgrado le diverse possibilità, la risposta più plausibile a questa questione ancora aperta mi pare essere la seguente: in primo luogo, le notizie erano ampiamente disponibili, come mostrato dalle testimonianze riferite. In secondo luogo, le notizie non venivano ignorate per parecchie ragioni. Come abbiamo visto, la popolazione discuteva in proposito, e se le discussioni avvenivano a Minden, avevano luogo in molte parti del Reich. In terzo luogo, una serie di eventi noti alla maggioranza dei tedeschi non potevano non condurre a conclusioni obbligate sul destino degli ebrei: nell’estate del 1941, le spietate uccisioni dei malati di mente erano già diventate di dominio pubblico; gli ebrei erano attaccati senza tregua dalla propaganda di stato e di partito come i supremi nemici che manipolavano il bolscevismo e la plutocrazia nella loro lotta sempre più cruenta contro il Reich. Nell’autunno di quell’anno, le pubbliche diatribe antiebraiche di Hitler e Goebbels si fecero sempre più stridenti e le loro minacce di vendetta più virulente di quanto mai fosse avvenuto in precedenza. La deportazione di ebrei dal Reich verso l’Est avveniva alla luce del sole e poteva essere vista da tutti; costanti voci sulle uccisioni di massa di ebrei insieme a una cospicua quantità di dettagliati rapporti personali pervenivano nel territorio del Reich, all’interno del contesto complessivo appena menzionato. In simili circostanze, rimanere all’oscuro di questi indizi convergenti e delle informazioni connesse relative agli eccidi di massa era difficile. 

Come già abbiamo avuto modo di constatare, le reazioni contemplavano varie forme, dall’esplicita compassione per gli ebrei, alla paura di esprimere proprie opinioni, alla riluttanza a turbare l’ordine in tempo di guerra, a varie forme di razionalizzazione fino anche all’aperto sostegno dei crimini antiebraici e, in misura prevalente, all’indifferenza. Sottolineo ancora una volta esplicita compassione, benché limitata a casi sporadici, perché nello scenario sempre più fosco rivelato dalla ricerca storica non possiamo lasciarla cadere nell’oblio. A Minden, esauriti i commenti sulla deportazione degli ebrei della città, alcuni degli abitanti citati nel rapporto del Servizio di Sicurezza espressero il proprio dissenso, dichiarando che anche gli ebrei erano “figli di Dio”. Eppure, fu l’indifferenza al destino degli ebrei a prevalere, quell’indifferenza che per sua stessa natura non veniva registrata dai diaristi. 

Consideriamo il secondo opuscolo clandestino distribuito all’inizio di luglio del 1942 dal gruppo di resistenza Rosa Bianca, nel quale è ricordato l’assassinio di circa 300.000 ebrei in Polonia. Questi studenti di Monaco aggiunsero subito una presa di distanza: qualcuno potrà dire che gli ebrei “meritano il loro destino”, ma allora cosa pensare del fatto che “l’intera gioventù aristocratica polacca è stata sterminata”?. In altre parole, questi militanti nemici del regime erano ben consapevoli che l’uccisione di massa degli ebrei non avrebbe sconcertato tutti i lettori del volantino e che i crimini commessi contro i cattolici polacchi non potevano essere taciuti, soprattutto in Baviera. Non possiamo generalizzare sulla base di questo esempio, ma solo suggerire che per molti tedeschi lo sterminio di massa degli ebrei non costituiva motivo di reale turbamento. 

L’essere a conoscenza di enormi massacri è altra cosa dall’essere consapevoli dell’annientamento totale, ma la differenza tra queste due posizioni è così radicale come molti storici sembrano suggerire? La conoscenza di Auschwitz costituisce davvero la questione decisiva? In termini di protesta contro la criminalità di massa o della sua accettazione, non possiamo, mi pare, tracciare una linea di separazione invalicabile tra la consapevolezza dell’eccidio di centinaia di migliaia di vittime, tra cui i propri vicini, e quella del totale sterminio di un intero popolo. Giova ricordare a questo punto che le informazioni relative ai centri di sterminio erano probabilmente più precise di quanto non si sia pensato fino a poco tempo fa. Sybille Steinbacher ha recentemente dimostrato che ogni estate centinaia di donne si recavano in visita dai loro mariti che lavoravano come guardie del campo ad Auschwitz e vi rimanevano per lunghi periodi di tempo. Inoltre, la popolazione tedesca del Reich insediata ad Auschwitz si lamentava dell’odore prodotto dai crematori sovraccarichi. 

La diffusa indifferenza della popolazione tedesca non sollecita interpretazioni inconsuete, come quella dell’“antisemitismo eliminazionista” di Daniel Goldhagen per esempio (un’interpretazione che, a mio parere, è troppo monocausale, astorica e priva di sfumature). La disparità di fondo riscontrabile in termini di trattamento nei confronti dei membri della comunità tedesca, la Volksgemeinschaft, e degli “altri” è di per sé sufficientemente illuminante. I costanti rigurgiti della propaganda antiebraica e il perdurare di varie forme di tradizionale antisemitismo alimentarono senza dubbio questa percezione profondamente radicata degli ebrei come esseri appartenenti a una categoria umana quintessenzialmente diversa dai tedeschi. Tutti gli studi sull’antisemitismo tedesco, nelle sue diverse forme, e sull’antisemitismo in generale, sono fondati su questa distinzione di fondo e, in tal senso, i primissimi segni di una percezione negativa e ostile di una diversità ebraica nata all’interno del cristianesimo non potevano non gettare le necessarie (ma non sufficienti) premesse per l’emergere dei più vili stereotipi nazisti. Anche quando tentarono di difendere gli ebrei convertiti, i cosiddetti “giudeo-cristiani”, come venivano chiamati durante il Terzo Reich, le Chiese protestanti tedesche sentirono il bisogno di sottolineare le caratteristiche aliene dei convertiti. “La Chiesa attende tuttavia” – queste le parole che si leggono in un memorandum emesso dalla Chiesa protestante della regione del Baden in difesa degli ebrei convertiti – “che i nostri fratelli e sorelle cristiani di razza aliena compiano seri sforzi per abbandonare quelle caratteristiche ereditate dai loro padri che sono aliene ai tedeschi e per integrarsi nella nostra Volkstum tedesca. Nella vita pubblica sono tenuti a mostrare una saggia riservatezza, in modo che nessun ostacolo possa frapporsi all’esercizio dell’amore fraterno”. Per la stragrande maggioranza dei tedeschi, gli ebrei erano alieni nella migliore delle ipotesi. Per molti, finirono con l’essere visti come nemici che andavano estirpati. In tal senso, l’interrogativo posto da Otto Dov Kulka per scoprire se il comportamento della maggioranza sia interpretabile come indifferenza o piuttosto come supporto alle politiche del regime, deve essere sollevato, sebbene non possa che rimanere aperto.

In aggiunta a ciò, un fenomeno particolare deve essere preso in esame. Mobili, tappeti, vestiti, articoli domestici e perfino le case che appartenevano agli ebrei deportati si resero disponibili per i Volkgenossen meritevoli (quelli che erano destinati, nel gergo nazista, a divenire i membri della comunità razziale tedesca, N.d.A.). Inoltre, gli effetti personali potevano essere acquistati per pochi soldi negli Judenmärkte, i mercati ebrei, delle principali città, oppure venivano distribuiti dalla Winterhilfe (il soccorso invernale) spesso sprovvisti delle etichette originali che erano state rimosse. I benefici materiali accrescevano i vantaggi del silenzio di fronte agli eccidi di massa. Se si possa parlare in circostanze simili di una “normalità” della vita quotidiana sotto il Nazionalsocialismo è una questione controversa. Detto altrimenti, la complicità quotidiana della popolazione con il regime era nettamente più marcata di quanto sia stato a lungo creduto, per effetto della diffusissima consapevolezza e passiva accettazione dei crimini, come pure dei lauti profitti da essi derivanti. Una enorme repressione delle conoscenze, se esistette, ebbe luogo dopo il 1945 – e probabilmente in misura minore prima di allora. 

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