Le primissime e le ultime affermazioni politiche documentate di Adolf Hitler riguardano la “questione ebraica”. In una lettera scritta già nel settembre 1919, in cui compariva quella terminologia biologica che tanto frequentemente avrebbe impiegato in seguito, Hitler parlava delle attività degli ebrei sostenendo che producessero “una tubercolosi razziale tra le nazioni”. Affermava con enfasi che gli ebrei erano una razza, non una religione. L’antisemitismo come movimento politico, dichiarava, doveva basarsi sulla “ragione”, non sulle emozioni, e doveva condurre alla cancellazione sistematica dei diritti degli ebrei. Tuttavia, l’“obiettivo finale”, che poteva essere raggiunto solo da un “governo di forte unità nazionale”, doveva essere la “rimozione degli ebrei nella loro totalità” . Nel suo testamento politico, dettato alla vigilia del suicidio, con l’Armata Rossa ormai alle porte, Hitler dichiarava: “Non ho lasciato sussistere dubbi sul fatto che, se le nazioni d’Europa saranno trattate di nuovo come pacchetti d’azioni da questi cospiratori del denaro e delle finanze internazionali, sarà chiamata a risponderne anche la razza che è la vera colpevole di questa micidiale lotta: gli ebrei! Non ho poi fatto mistero che questa volta milioni di figli dei popoli ariani europei non avrebbero patito la fame, milioni di uomini adulti non sarebbero rimasti uccisi e centinaia di migliaia di donne e bambini non sarebbero bruciati nelle città e periti nei bombardamenti, senza che il vero colpevole, sia pure con mezzi più umani, espiasse la sua colpa” . Quasi ventisei fatidici anni separano le due affermazioni. Ma non si trattava di stratagemmi propagandistici: non v’è alcun dubbio che quelli di Hitler fossero profondi convincimenti sostenuti con fervore. Alla base vi era il legame, presente nella sua mente dall’inizio alla fine della sua “carriera” politica, tra la guerra e gli ebrei. In un terribile passaggio di Mein Kampf, Hitler espresse il convincimento che “il sacrificio di milioni di persone al fronte non sarebbe stato necessario se dodici o quindicimila di questi ebrei corruttori del popolo fossero stati sottoposti a gas tossico” . Non era un ordine per azioni future; ma questa idea non lo abbandonò mai.
Gli scritti e i discorsi di Hitler illustrano la straordinaria continuità di un limitato numero di idee di fondo immutabili, che gli fornivano la spinta interiore. Quali che fossero le bizzarrie degli opportunismi politici e i necessari aggiustamenti dell’attività propagandistica nel corso degli anni, queste convinzioni rimasero una costante dal momento del suo ingresso in politica fino alla morte nel bunker. È raro che un politico rimanga attaccato con tale tenacia a un nucleo centrale di idee per un periodo di tempo così lungo. Per quanto ripugnanti e basate su presupposti irrazionali, queste convinzioni formavano una base di argomenti che si radicava attorno a un nucleo di fondo e non lasciava spazio alla critica razionale: una sorta di concezione che possiamo legittimamente definire una Weltanschauung o ideologia . Questa visione si era già completamente consolidata non più tardi del 1925. Di fatto era costituita da non più di tre elementi base, ciascuno dei quali era più un obiettivo a lungo termine che un fine politico pragmatico a medio termine ed era fondato sulla premessa che l’esistenza umana fosse una lotta di razze: 1) l’affermazione dell’egemonia della Germania in Europa; 2) il conseguimento dello “spazio vitale” [Lebensraum ] per garantire le basi materiali del futuro della Germania a lungo termine; 3) la distruzione degli ebrei. Si trattava di una visione di salvezza per la Germania, un glorioso futuro che poteva essere raggiunto, come Hitler affermò più di una volta, solo attraverso una guida eroica. Dal 1924 egli era giunto a identificare quella guida in se stesso. I tre elementi della sua visione potevano inoltre essere conseguiti in un solo colpo con la distruzione dell’Unione Sovietica e lo sradicamento del “bolscevismo ebraico”. La guerra sul fronte orientale, che sarebbe infine iniziata nel giugno del 1941, era pertanto parte integrante di questa visione.
La Weltanschauung, tuttavia, era essa stessa la razionalizzazione di un sentimento più profondo e radicato in Hitler: una bruciante sete di vendetta contro chi aveva distrutto tutto quello che egli riteneva giusto. La guerra del 1914-18, la cui immensa carneficina Hitler aveva vissuto da convinto e valente soldato, fanatico sostenitore della causa tedesca, gli aveva fornito un obiettivo per la prima volta nella sua vita. Nel 1915, in una delle poche lettere che scrisse dal fronte, parlava dell’immenso sacrificio di vite umane che sarebbe valso a produrre, dopo la guerra, una patria “più pura e ripulita dalla influenza straniera” . Egli considerava quindi quell’enorme massacro non in termini di sofferenza umana, ma come finalizzato alla costituzione di una Germania migliore. Questo è il motivo per cui la notizia, inattesa per lui come per molti altri, della capitolazione della Germania nel novembre 1918, che lo raggiunse mentre era ricoverato a Pasewalk in Pomerania per ristabilirsi da una intossicazione da iprite, fu così profondamente traumatizzante. Hitler aveva identificato il proprio destino personale con quello del Reich tedesco e un acuto senso di umiliazione nazionale si fondeva ora con la sua infelicità personale. La bruciante amarezza e un odio viscerale, provati con rara intensità, riflettevano questa identificazione ed erano diretti ora verso quei nemici che egli aveva già cominciato a individuare anni prima come capri espiatori, responsabili inizialmente dei mali suoi e ora di quelli della nazione. Non poteva accettare il fallimento dell’esercito in cui egli stesso aveva combattuto: ne dovevano essere responsabili oscure forze di sedizione in patria. Benché non fosse nella posizione di realizzarlo, il desiderio di vendetta lo teneva avvinto con la forza di un’ossessione. Coloro che avevano minato il prestigio nazionale della Germania, riducendola a una tale vergogna, avrebbero dovuto pagare: questo era il fuoco che ardeva in lui e che non si estinse mai.
In piena coerenza con il suo modo di pensare, sin dall’inizio della sua “carriera” nel 1919, Hitler perseguì fanaticamente due scopi connessi: restaurare la grandezza della Germania e, così facendo, vendicare e restituire il disonore della capitolazione del 1918, punendo i responsabili della rivoluzione che ne era seguita e dell’umiliazione nazionale che si era manifestata pienamente nel Trattato di Versailles del 1919. Egli affermava ripetutamente che gli obiettivi potevano essere raggiunti solo “con la spada”, cioè con la guerra. Ai suoi occhi gli ebrei erano infatti responsabili dei crimini più orribili di tutti i tempi: ossia la “pugnalata alle spalle” del 1918, la capitolazione, la rivoluzione, le sventure della Germania. Nella sua percezione distorta gli ebrei erano i principali sostenitori del capitalismo a Wall Street e nella City di Londra, come del bolscevismo a Mosca; secondo la sua fede nella leggenda del “complotto ebraico mondiale”, essi avrebbero sempre ostacolato il suo cammino e costituito il nemico più pericoloso per i suoi piani: la logica conseguenza era, quindi, che la guerra doveva essere combattuta contro gli ebrei. Inoltre nella mente di Hitler era ugualmente logico che, quando quella guerra fosse stata riconosciuta come irrimediabilmente perduta, l’atto di sfida finale, doveroso da parte della Germania, l’ultimo atto di sacrificio necessario per espiare la vergogna e l’infamia inflitte dagli ebrei nel 1918, avrebbe dovuto essere la continuazione della lotta fino alla loro distruzione, con l’esortazione alle generazioni future a continuare la battaglia contro il popolo ebraico. La tenacia con cui rimase fedele alla convinzione dogmatica che fossero stati gli ebrei a causare la Prima guerra mondiale e che, nel caso il mondo fosse ripiombato in un’altra guerra a causa loro, sarebbero periti tutti, è veramente impressionante. Ripeteva questo sentimento continuamente in pubblico e in privato. Vedeva se stesso come il fautore della salvezza nazionale della Germania e quella salvezza sarebbe giunta solo con la distruzione del potere degli ebrei.
La pervicacia di Hitler nel suo obiettivo di “rimuovere” gli ebrei e il fatto che, durante gli anni della sua dittatura, gli ebrei furono effettivamente “rimossi”, venendo sradicati prima dalla Germania poi da tutta la parte dell’Europa occupata dai tedeschi attraverso una spietata persecuzione e da ultimo l’annientamento fisico, sembra offrire una risposta precisa alla questione del ruolo di Hitler nella “Soluzione finale”. Questo ruolo, tuttavia, è meno ovvio di quanto possa parere a prima vista. Mentre il suo costante odio personale verso gli ebrei può essere chiaramente dimostrato, il modo in cui si tradusse nelle politiche di persecuzione e poi di sterminio non è sempre facile da discernere. Lo stesso Hitler, in uno dei suoi monologhi in tempo di guerra, osservò: “Anche rispetto agli ebrei, sono dovuto rimanere a lungo inattivo”. Ciò era avvenuto per ragioni tattiche, naturalmente . Tuttavia anche senza lo stretto coinvolgimento di Hitler nella sua direzione, di fatto la politica antiebraica conobbe una continua radicalizzazione. Come ha evidenziato molto tempo fa uno studio di grande rilievo, “la figura di Adolf Hitler ha un profilo indistinto” . Questo fatto in sé ha dato origine a diverse interpretazioni tra gli storici. Da tempo, giustamente, vi è disaccordo rispetto al ruolo diretto di Hitler nella conduzione politica e circa l’interrogativo se la “Soluzione finale” seguì un piano di annientamento a lungo termine mosso da motivazioni ideologiche, o rappresentò piuttosto la conclusione di un processo di “radicalizzazione cumulativa” derivante da misure improvvisate ad hoc, non pianificate, e da barbare iniziative locali volte ad affrontare i problemi logistici causati proprio dalla politica antiebraica dei nazisti. La natura e la datazione di ogni ordine del Führer, e persino capire se un certo ordine fosse effettivamente necessario, sono stati e rimangono punti centrali del dibattito.
Il ruolo di Hitler secondo gli storici . Con poche eccezioni, tra cui in particolare lo studio pionieristico di Gerald Reitlinger e l’opera monumentale di Raul Hilberg , ricerche circostanziate sulle decisioni e le politiche di genocidio furono avviate solo negli anni Settanta e aumentarono progressivamente nei decenni successivi, soprattutto dopo l’apertura degli archivi nell’ex blocco orientale. Solo alla luce di queste ricerche è stato possibile valutare con maggiore precisione il ruolo svolto da Hitler nell’emergere della “Soluzione finale”: ancora oggi, dopo un’analisi esaustiva, molte cose rimangono peraltro oscure e controverse. I problemi di interpretazione sorgono dalla complessità e dalle lacune della documentazione frammentaria pervenuta, che riflette in misura considerevole sia il linguaggio offuscante delle alte gerarchie naziste, sia l’assai poco burocratico stile di governo di Hitler. Questi, infatti, soprattutto a guerra iniziata, dava grande importanza alla segretezza e all’occultamento, tanto che gli ordini riguardanti questioni delicate di solito erano impartiti verbalmente e solo quando fosse strettamente necessario.
Fino agli anni Settanta si riteneva generalmente che un singolo ordine diretto di Hitler avesse dato inizio alla “Soluzione finale”. Tale presupposto derivava da un approccio al Terzo Reich incentrato sulla figura di Hitler, che poneva forte enfasi sulla volontà, le intenzioni e le direttive politiche del dittatore. Questa tesi si accompagnava talvolta all’affermazione – sostenuta nell’influente lavoro di Lucy Dawidowicz – che Hitler avesse seguito un “grande disegno” o un “programma di annientamento”, riconducibile alla sua personale esperienza traumatica di fronte all’esito della Prima guerra mondiale, e la cui attuazione, nonostante gli occasionali e necessari aggiustamenti tattici, aveva atteso solo il momento opportuno, giunto nel 1941. Gerald Fleming, uno dei primi storici ad analizzare sistematicamente le prove del coinvolgimento di Hitler nell’attuazione della “Soluzione finale”, avanzò l’idea di un “piano strategico” per la realizzazione dell’obiettivo di Hitler risalente alla sua esperienza nella rivoluzione tedesca del 1918. I primi biografi di Hitler seguirono una linea simile. Un’ipotesi “psicostorica” circa questo obiettivo patologico fu proposta da Rudolph Binion, che interpretò l’ingresso in politica di Hitler come finalizzato a uccidere gli ebrei per vendicarsi della sconfitta della Germania, che egli inconsciamente associava alla morte della madre nel 1907, in cura presso un medico ebreo.
Una reazione a questa marcata centralità della figura di Hitler guadagnò terreno negli anni Settanta, dando vita a un approccio generale alternativo all’interpretazione del Terzo Reich, che prese il nome di “strutturalista” o talora “funzionalista”, in opposizione alla tesi “intenzionalista”. L’accento venne spostato dalla gestione personale della politica da parte di Hitler, alla frammentazione delle scelte politiche in un sistema di governo “policratico”, dai metodi amministrativi confusi e caotici, guidato da un “dittatore debole”, preoccupato soprattutto della propaganda e del mantenimento del proprio prestigio. Anche per quanto riguarda la politica antiebraica, gli approcci “strutturalisti” assegnavano minore importanza al ruolo dell’individuo – senza, naturalmente, mettere in dubbio l’antisemitismo paranoide di Hitler (indispensabile per la barbara persecuzione che portò al genocidio) o la sua responsabilità morale – per attribuirla invece alle “strutture” di governo del Terzo Reich e alle “funzioni” degli organismi rivali che compivano ogni sforzo per attuare “direttive di azione” odiose, ma espresse in modo impreciso. In un articolo fondamentale pubblicato nel 1977, dal quale prese avvio un dibattito che continua ancora oggi, Martin Broszat affermò che Hitler non aveva in nessun caso impartito un “ordine generale di sterminio totale”. Erano stati piuttosto i problemi sorti nell’intraprendere i piani di deportazione, a seguito dell’inatteso fallimento del tentativo di sconfiggere rapidamente l’Unione Sovietica durante l’estate e l’autunno del 1941, a spingere i satrapi nazisti nei territori orientali occupati a prendere l’iniziativa di uccidere gli ebrei nelle loro regioni. Dapprima, le uccisioni vennero approvate retroattivamente e solo gradualmente; dal 1942, si trasformarono in un programma complessivo di sterminio. Mancava, pertanto, un disegno a lungo termine per l’annientamento fisico degli ebrei d’Europa e non v’era stato alcun ordine specifico di Hitler.
In un importante saggio pubblicato nel 1983, Hans Mommsen presentò un’efficace argomentazione che rafforzava ulteriormente queste tesi. Mommsen ammetteva senza obiezioni la conoscenza e l’approvazione da parte di Hitler di ciò che stava avvenendo, ma considerava un ordine diretto di Hitler incompatibile con gli sforzi del dittatore nel prendere le distanze da una responsabilità personale diretta e sottolineava la sua riluttanza a parlare della “Soluzione finale”, perfino all’interno del suo ristretto entourage, se non in termini indiretti o in affermazioni propagandistiche. Secondo Mommsen il punto centrale dell’emergere della “Soluzione finale” non era da ricercarsi nell’attuazione della volontà di Hitler di sterminare gli ebrei, ma in iniziative burocratiche estemporanee la cui dinamica aveva dato il via a un processo di “radicalizzazione cumulativa” all’interno delle strutture parcellizzate dei processi decisionali del Terzo Reich.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando furono pubblicati i saggi programmatici di Broszat e Mommsen, la ricerca circostanziata sulle decisioni che diedero avvio alla “Soluzione finale” era ancora poco sviluppata. Nel frattempo, naturalmente, erano stati pubblicati importanti lavori, oltre a quello di Hilberg: tutti screditavano, senza possibilità di recupero, l’idea di un “grande disegno” di sterminio, ovvero di un progetto risalente al 1918. Yehuda Bauer, uno dei maggiori esperti israeliani dell’Olocausto, produsse una sintesi della revisione generale, indicando una serie di stadi di sviluppo nella politica antiebraica, tutti incentrati sull’idea immutata di eliminare gli ebrei dalla Germania, benché non basati su alcun programma di sterminio a lungo termine. Questo giudizio seguì alle due approfondite analisi della politica antiebraica di Karl Schleunes e Uwe Dietrich Adam, che indagavano le oscillazioni e le battute di arresto della persecuzione nazista, escludendo l’idea di una semplice strategia di attuazione di un piano di sterminio a lungo termine voluto da Hitler. Lungi dall’essere un percorso rettilineo, la strada per Auschwitz, secondo Schleunes, era stata alquanto “tortuosa”.
Direttamente stimolato dalle ipotesi di Broszat, agli inizi di una carriera che lo avrebbe consacrato uno dei maggiori esperti mondiali sull’Olocausto, Christopher Browning fu tra i primi storici a esplorare gli ostici e complessi documenti originali sui mesi cruciali del 1941 che videro l’affermarsi della “Soluzione finale” (con cui non si intende solo l’uccisione di massa degli ebrei in Unione Sovietica alla vigilia dell’Operazione Barbarossa, ma un programma per sterminare tutti gli ebrei d’Europa nelle aree occupate dai nazisti). Browning pose l’accento su una direzione centrale dello sterminio, respingendo l’enfasi posta da Broszat sulle iniziative locali confluite solo gradualmente in un programma, e ritornò a dare importanza a una decisione di Hitler che, come Hilberg e altri, egli collocava nell’estate del 1941. Vedeva un riflesso cruciale di questa decisione nel mandato consegnato da Göring a Heydrich il 31 luglio 1941, che gli ordinava di mettere a punto una “soluzione totale alla questione ebraica”. La novità dell’interpretazione di Browning, tuttavia, fu l’idea che Hitler avesse commissionato a Göring l’elaborazione di un piano per la “Soluzione finale” che avrebbe dovuto trovare conferma in seguito, ossia che da parte di Hitler si trattasse della prima parte di un ordine da eseguirsi in due tempi. Nei mesi successivi si assistette a una radicalizzazione a vari livelli e a un forte incremento nelle uccisioni degli ebrei. Vi era confusione, a tratti contraddizione, e parecchia improvvisazione. Ma nulla di tutto ciò era incompatibile, secondo Browning, con un mandato che ordinava di adoperarsi per lo sterminio degli ebrei e che risaliva al luglio precedente. Browning concludeva che nel tardo ottobre o nel novembre 1941, con la crisi dell’offensiva contro l’Unione Sovietica, Hitler approvò il “piano di sterminio che aveva commissionato l’estate precedente”. Nei numerosi e interessanti studi dettagliati che sono stati pubblicati su questo argomento dopo questo primo saggio, Browning non ha mai rivisto sostanzialmente questa interpretazione.
La datazione, così come la natura, di ogni decisione del Führer riguardo alla “Soluzione finale” era diventata ormai un problema interpretativo cruciale e fu dibattuta ampiamente in una importante conferenza a Stoccarda nel 1984. La maggior parte degli esperti che vi parteciparono, sebbene non tutti, ammise il fatto che ci dovesse essere stato un ordine del Führer, ma le interpretazioni sulla data di tale ordine (che tutti erano d’accordo nel collocare in un qualche momento del 1941) variavano considerevolmente. L’opinione dominante era che la decisione cruciale, vista principalmente come legata al mandato di Göring di estendere all’intera Europa la distruzione fisica degli ebrei che già infuriava in Unione Sovietica, fosse avvenuta in estate, quando la fine della guerra sembrava imminente. Alcuni, tuttavia, collocavano la decisione di Hitler non nella fase “euforica” dell’estate, ma nell’autunno, quando fu chiaro che la guerra in Unione Sovietica si sarebbe prolungata e quando la possibilità, precedentemente considerata, di deportare gli ebrei nel territorio sovietico era sfumata. Il problema della collocazione temporale delle decisioni di Hitler aveva acquisito un significato più vasto. Secondo l’interpretazione della fase di “euforia”, il Führer avrebbe progettato la distruzione degli ebrei da una posizione di forza, quando sembrava che avesse in pugno il trionfo finale. Si tendeva quindi a sostenere l’idea di una intenzione ferma di uccidere gli ebrei quando se ne fosse profilata l’opportunità. L’interpretazione alternativa sosteneva invece che si trattasse di una decisione presa per effettiva debolezza, quando le prospettive di vittoria erano diminuite e i problemi di una guerra protratta e dura stavano aumentando. Veniva pertanto suggerita l’idea di una reazione alle circostanze poi sfuggita al controllo, di una risposta all’incapacità di attuare la desiderata soluzione territoriale della “questione ebraica” deportando gli ebrei nelle desolate regioni artiche dell’Unione Sovietica e di una determinazione vendicativa a voler trionfare nella “guerra contro gli ebrei” persino se la vittoria finale nella guerra militare si fosse rivelata impossibile da conseguire.
L’idea che una decisione di Hitler dovesse essere collocata non nell’euforia delle attese di vittoria imminente di piena estate, ma circa due mesi dopo, quando la lunga guerra a est stava cominciando a rendere pessimista il dittatore, fu avanzata in modo assai convincente da Philippe Burrin verso la fine degli anni Ottanta. Contrariamente a Browning e ad altri, Burrin affermava – opinione nel frattempo condivisa anche da altri – che sarebbe stato un errore vedere nel mandato di Göring del 31 luglio 1941 il riflesso di un ordine fondamentale di Hitler per la “Soluzione finale”, ossia l’ordine di estendere il genocidio, che stava già avendo luogo in Unione Sovietica, a un programma di sterminio fisico di tutto l’ebraismo europeo. Piuttosto, secondo Burrin, il mandato di Göring ricadeva ancora nell’insieme di misure prese allo scopo di realizzare un insediamento territoriale a est, una volta che la guerra fosse finita. Tale mandato, stilato nell’ufficio di Heydrich per sottoporlo alla firma di Göring, era finalizzato a stabilire, in un contesto dove molte erano le istanze concorrenti, l’autorità del capo dell’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich sulla gestione di tutti i problemi che concernevano la soluzione della “questione ebraica”. La mancanza di chiarezza che evidentemente prevaleva ancora tra le autorità naziste nella tarda estate e nel primo autunno del 1941 significava, secondo Burrin, che nessuna decisione per la “Soluzione finale” era stata ancora presa. Egli affermava che un tale ordine, nel settembre del 1941, era sinonimo della decisione di deportare gli ebrei a est, presa irrevocabilmente da Hitler in un momento di pessimismo riguardo alla lenta avanzata in Unione Sovietica e alle crescenti prospettive di un lungo conflitto. Poco dopo la pubblicazione dello studio di Burrin, gli archivi dell’ex blocco orientale cominciarono a rivelare i loro segreti. Come previsto, non fu trovato alcun ordine scritto di Hitler riguardo alla “Soluzione finale”. La maggior parte degli storici aveva da tempo abbandonato la supposizione che fosse stato impartito un singolo ordine esplicito scritto; e anche ora non v’erano elementi a sostegno di quell’ipotesi. In realtà, da Mosca o da altri archivi dell’Europa dell’est erano arrivati pochi elementi a gettare nuova luce direttamente sul ruolo di Hitler nella “Soluzione finale”. Indirettamente, tuttavia, nuove prospettive sull’affermazione di un programma di genocidio fornirono rinnovate intuizioni sul ruolo dello stesso Hitler.
A trarre profitto dalle nuove opportunità di ricerca fu il notevole studio pubblicato da Götz Aly nel 1995 sulla connessione tra i piani nazisti di reinsediamento di centinaia di migliaia di oriundi tedeschi nei territori occupati della Polonia e i cambi di direzione della politica di deportazione degli ebrei. In una ricostruzione dettagliata delle decisioni di politica razziale nei territori orientali tra il 1939 e l’inizio del 1942, Aly riuscì a dimostrare che misure antiebraiche sempre più radicali furono il risultato della congestione prodotta dai brutali e irrealistici piani di reinsediamento delle autorità naziste. Aly concluse che non vi fu una singola decisione specifica di sterminare gli ebrei d’Europa. Piuttosto, similmente al concetto di Mommsen di un sistema di “radicalizzazione cumulativa”, ipotizzò un “lungo e complesso processo decisionale”, con alcuni notevoli picchi in marzo, luglio e ottobre 1941, e proseguito ancora in forma di una serie di “esperimenti” fino al maggio 1942. Hitler, secondo questa interpretazione, era confinato al ruolo di arbitro tra gerarchi nazisti rivali, i cui progetti per affrontare la “questione ebraica” avevano creato problemi insolubili. La tesi di Aly, secondo cui non sarebbe possibile collocare in un momento preciso la decisione di Hitler sulla “Soluzione finale”, ha ottenuto il sostegno di un certo numero di circostanziati studi di carattere locale sull’origine del genocidio nei territori occupati. Tra i risultati ottenuti vi è stata una maggiore comprensione di come, nei mesi critici dell’autunno del 1941, le autorità naziste regionali fossero ricorse sempre più radicalmente alle proprie forze e a iniziative locali per liberare dagli ebrei le aree di loro competenza. Mentre da Berlino provenivano segnali evidenti che indicavano l’avvicinarsi di una “soluzione” complessiva alla “questione ebraica” e spingevano le autorità naziste in loco ad adottare misure drastiche per risolvere le proprie difficoltà, le interpretazioni contrastanti degli obiettivi della politica antiebraica in questa fase sembrano implicare che una decisione fondamentale non era ancora stata presa. Furono avviati alcuni programmi di sterminio locale messi in moto da zelanti funzionari nazisti in stretto coordinamento con Berlino. Nel novembre 1941 iniziò la costruzione di un piccolo campo di sterminio a Bełżec, nel Distretto di Lublino del Governatorato generale, istigata dal capo delle SS dell’area, Odilo Globocnik, con lo scopo di liquidare gli ebrei di quella zona non idonei al lavoro. Nel Warthegau, la parte annessa della Polonia Occidentale, il capo della polizia regionale, Wilhelm Koppe e il Gauleiter [capo responsabile del distretto, N.d.T.] Arthur Greiser, fecero da intermediari con Berlino per installare dei furgoni a gas a Chelmno. Queste operazioni cominciarono all’inizio di dicembre con lo scopo di uccidere gli ebrei del sovraffollato ghetto di Lódź e di altre parti della regione, nell’ambito di un’attività di compensazione per l’afflusso di numerosi altri ebrei mandati a est con la prima ondata di deportazioni dal Reich. Ma le “soluzioni” locali, compresa la fucilazione degli ebrei appena arrivati dalla Germania nelle regioni baltiche durante l’autunno del 1941, non facevano ancora parte di un programma completamente formulato e complessivo. Una “Soluzione finale” stava ancora evolvendo, era ancora in fase “sperimentale”.
La ricerca aveva poi in qualche modo abbandonato le varie ipotesi intorno alla data della decisione di Hitler sulla “Soluzione finale”, suggerendo o affermando esplicitamente che tale decisione non era stata presa. Per una via diversa e sulla base di scoperte scientifiche più approfondite, si stava ritornando all’idea generale delle ipotesi programmatiche “strutturaliste” di Broszat e Mommsen dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Le loro conclusioni, tuttavia, erano lontane dall’essere universalmente accettate. L’enfasi posta sulle iniziative locali, le misure improvvisate, i “processi” non programmati che si sarebbero sviluppati fino a trasformarsi in un progetto di sterminio “senza autore” non convincevano molti storici. Alcuni studiosi, tra i quali spicca Christopher Browning, ritenevano che, nonostante gli indubbi progressi dovuti ai circostanziati studi di carattere regionale sull’origine del genocidio, il ruolo della direzione centrale della politica era stato sottovalutato. Anche il ruolo di Hitler sembrava comparire appena nelle nuove interpretazioni. Era possibile, o almeno plausibile che il più radicale degli antisemiti radicali non avesse avuto alcuna parte diretta nel plasmare le politiche finalizzate alla distruzione di quello che percepiva come il suo principale nemico? Come hanno dimostrato David Bankier e poi, in una magistrale ricerca, Saul Friedländer, anche negli anni Trenta Hitler si era occupato più attivamente e fino al più piccolo dettaglio di politica antiebraica, a differenza di quanto non emergesse soprattutto dal precedente lavoro di Karl Schleunes. Non era facile, tuttavia, ammettere che fosse rimasto al di fuori del processo decisionale proprio nel momento in cui l’obiettivo a lungo dichiarato di “rimuovere” gli ebrei stava trasformandosi in una realtà concreta. In una serie di importanti pubblicazioni Browning continuò anche a sostenere l’importanza di un ordine del Führer e a collocarlo (come aveva sempre sostenuto) nell’estate del 1941, il periodo dell’“euforia”. Non gli fecero mutare opinione le obiezioni rivolte a questa datazione, sebbene lo storico sottolineasse che non stava cercando di individuare una singola decisione, ma stava valutando “il momento in cui Hitler inaugurò il processo decisionale”: la prima mossa negli sviluppi che si sarebbero protratti nei mesi successivi.
Altri storici, anch’essi con l’intenzione di enfatizzare il ruolo diretto di Hitler nel guidare la politica verso una “Soluzione finale” voluta e pianificata, sono giunti a conclusioni diverse riguardo alla datazione di un ordine del Führer. Secondo Richard Breitman, “una decisione fondamentale di sterminare gli ebrei” da parte del dittatore risaliva già al gennaio 1941, ma aggiungeva che “se lo scopo e le politiche di base erano ora chiare, non lo erano i piani specifici”, che seguirono solo qualche tempo dopo con le prime decisioni operative in luglio. In altre parole, Breitman non ipotizzava una politica decisionale incisiva, piuttosto una dichiarazione di intenti. Tuttavia Hitler aveva a lungo sostenuto l’idea che un’altra guerra avrebbe causato la distruzione degli ebrei e, a questo punto, all’inizio del 1941, nel contesto di pianificazione dell’Operazione Barbarossa, la deportazione degli ebrei nei territori artici dell’Unione Sovietica, dove col passare del tempo si prevedeva sarebbero morti, si stava aprendo come una prospettiva realistica. È difficile sostenere che la decisione di Hitler nel gennaio 1941 andasse oltre l’idea definitiva, sebbene ancora vaga, della soluzione territoriale. Anche se implicitamente si trattava già di genocidio, le oscillazioni della politica dei mesi successivi vanno contro l’ipotesi che il gennaio del 1941 sia la data in cui Hitler prese la decisione della “Soluzione finale”.
Tovias Jersak avanzò invece una proposta completamente diversa riguardo alla data di un eventuale ordine di Hitler. Secondo Jersak, la firma della Carta Atlantica da parte di Roosevelt e di Churchill il 15 agosto 1941 (che significava la prossima entrata in guerra della Germania contro gli USA) costituì lo stimolo che spinse Hitler, in quel momento afflitto da un esaurimento nervoso e particolarmente insicuro per il fallimento della sua strategia per sconfiggere l’Unione Sovietica, a prendere la decisione fondamentale di distruggere fisicamente gli ebrei d’Europa. Jersak però probabilmente esagerava l’importanza della firma della Carta Atlantica: non è affatto certo che la Carta in sé sia stata sufficiente a fornire a Hitler la spinta per una decisione così importante presa, secondo l’interpretazione di Jersak, rapidamente e senza consultare nessuno. A Jersak rimangono, in realtà, solo speculazioni a sostegno della sua affermazione secondo cui Hitler aveva già preso la decisione quando incontrò Goebbels il 19 agosto e acconsentì alla proposta avanzata dal ministro per la Propaganda di costringere gli ebrei di Germania a indossare la stella di Davide cucita sugli abiti.
Un’altra interpretazione che ipotizza una decisione fondamentale da parte di Hitler di dare avvio alla “Soluzione finale” fu proposta da Christian Gerlach, secondo cui le differenze nel mettere in pratica le misure antiebraiche escludevano un ordine centrale specifico di Hitler nell’estate e all’inizio dell’autunno. Nonostante l’evidente aumento di azioni genocide, mancava ancora chiarezza sul trattamento da riservare agli ebrei del Reich deportati e le varie misure di liquidazione locali non erano ancora coordinate. Gerlach sosteneva che proprio il bisogno di ottenere chiarezza e coordinamento fosse alla base dell’invito che Heydrich rivolse agli organismi coinvolti nella Conferenza di Wannsee il 9 dicembre 1941 perché fornissero cifre significative. Poi ci furono i fatti di Pearl Harbour e l’incontro fu rimandato. Secondo l’interpretazione di Gerlach quando l’incontro infine ebbe luogo, il 20 gennaio 1942, Hitler aveva già preso la “decisione fondamentale” di uccidere tutti gli ebrei d’Europa. Nel contesto di una guerra che ora era divenuta globale, Gerlach considerava un discorso, tenuto il 12 dicembre da Hitler, a Reichsleiter [membri della dirigenza nazionale del partito, N.d.T.] e Gauleiter [i responsabili di distretto, N.d.T.], accompagnato da una serie di incontri privati con gerarchi nazisti nei giorni seguenti, equivalente alla “decisione fondamentale” di Hitler riguardo alla “Soluzione finale”. Indubbiamente gli argomenti che Gerlach offriva per un’ulteriore radicalizzazione della politica di sterminio nel dicembre del 1941 sono più che validi, ma è difficile immaginare che Hitler, il quale non parlava volentieri dello sterminio degli ebrei se non in termini molto generici anche con il suo più stretto entourage, avesse infine scelto di annunciare la “decisione fondamentale” di dare avvio alla “Soluzione finale” nel corso di una riunione con una cinquantina di gerarchi nazisti. Nessuno dei presenti fece riferimento in seguito a questo incontro come a qualcosa di particolarmente importante rispetto alla “Soluzione finale”. Anche Goebbels, il cui diario costituisce la fonte che documenta i commenti di Hitler, sintetizzò le affermazioni sugli ebrei in poche righe all’interno di un’estesa annotazione senza attribuire loro particolare importanza.
Una recente e meticolosa analisi delle complesse documentazioni relative ai processi decisionali sulla politica antiebraica tra il 1939 e il 1942 offre un’ulteriore variante. Florent Brayard colloca la data in cui Hitler ordinò di avviare la “Soluzione finale” come programma complessivo in un momento successivo rispetto a tutti gli altri storici, ovvero nel giugno 1942, subito dopo l’assassinio di Reinhard Heydrich a Praga. Al funerale di Heydrich, il 9 giugno, Himmler annunciò ai dirigenti delle SS che avrebbero completato l’“emigrazione” [Völkerwanderung ] degli ebrei entro un anno. Questo è l’elemento, deduce Brayard, che lega i commenti di Himmler alle documentate affermazioni draconiane di Hitler riguardo agli ebrei, relative più o meno a quel periodo, secondo cui la “Soluzione finale”, ossia il programma per lo sradicamento rapido e totale di tutti gli ebrei d’Europa, era stata avviata. Sembra forse più plausibile, tuttavia, considerare questo come l’ultimo di una serie di eventi che determinò un programma di sterminio di portata europea. L’autorevole studio di Peter Longerich sulle “politiche di annientamento”, in effetti, aveva già stabilito – un fatto, questo, ormai ampiamente accettato anche da Brayard – che un programma complessivo di sterminio degli ebrei d’Europa si fosse sviluppato in forma di processo incrementale, con una serie di spinte acceleratrici tra l’estate del 1941 e quella del 1942. Già nel marzo e nell’aprile del 1942, dimostrò Longerich, erano in corso di elaborazione dei piani per deportare gli ebrei dall’Europa occidentale verso est e per estendere gli eccidi in Polonia e nell’Europa centrale. L’assassinio di Heydrich probabilmente fornì l’impulso che diede una decisiva accelerazione a questo processo.
Sembra chiaro che, data la frammentarietà e l’incompletezza dei documenti, tutti i tentativi di stabilire il momento preciso in cui Hitler decise di mettere in atto la “Soluzione finale” saranno suscettibili di obiezioni. Molto dipende anche da cosa si intende come ordine del Führer: si tratta di una direttiva chiara e precisa, o soltanto di un “via libera” o di un “cenno del capo”? L’interpretazione muta anche a seconda che si consideri il processo decisionale relativo alla “Soluzione finale” come un continuum, con aggiustamenti e fasi di accelerazione nel corso di circa un anno, o che s’intenda identificare un momento in cui possa essere isolato un preciso salto in avanti che abbia determinato la decisione.
Peraltro, anche i resoconti strutturalisti o funzionalisti, in cui il ruolo di Hitler è minimizzato o marginalizzato, sembrano ugualmente insoddisfacenti. L’enfasi posta da Aly, per esempio, sul legame tra la congestione prodotta dai piani nazisti di trasferimento della popolazione e di reinsediamento degli oriundi tedeschi e la radicalizzazione della politica antiebraica, per quanto giustificata, non spiega perché il fallimento dei piani di deportazione portò al genocidio unicamente nel caso degli ebrei. Si ritorna allora a considerare direttamente il ruolo dell’ideologia, spesso minimizzato nelle ricostruzioni strutturaliste. Data la lunga tradizione antisemita, gli ebrei occupavano una posizione molto particolare nella demonologia nazista e nei piani di “pulizia etnica”. Gli ebrei erano stati i principali nemici ideologici dei nazisti sin dall’inizio e il loro sterminio nel 1941 era stato preceduto non solo da anni di crescente persecuzione, ma anche da ripetute affermazioni, da parte dei dirigenti nazisti e in particolare di Hitler stesso, che ne invocavano la “rimozione”. Si ritorna così a considerare Hitler e la sua influenza sul modus operandi del sistema di governo nazista. Sembra impossibile isolare un singolo ordine specifico del Führer riguardo alla “Soluzione finale”, nel quadro di una politica di sterminio che assunse la sua piena forma nel corso di un processo di radicalizzazione durato per un periodo di circa un anno. Al tempo stesso, molti fatti indicano che il programma di sterminio si sviluppò con il ruolo fondamentale e decisivo di Hitler. Per conciliare queste due affermazioni è necessario ricercare sia una serie di autorizzazioni segrete a provvedimenti radicali particolari (che possono essere dedotte solo da documentazioni indirette o secondarie), sia un certo numero di segnali pubblici o di “via libera” all’azione. Bisogna anche riconoscere che Hitler era il portavoce supremo e radicale di un imperativo ideologico che nel 1941 era diventato una priorità per l’intera classe dirigente del regime. In questo contesto dobbiamo ora considerare come Hitler aprì la strada verso il genocidio.