L’arte può salvare il mondo.
LA FILOSOFA DELLA MATERIA – Ilaria Muggianu
03 Marzo 2015 per La Donna Sarda
Lo scalpello di Stefania Sergi crea il medesimo prodigio di universalizzazione che la Deledda plasmava con la penna.
Seppure si parla dell’inquietudine dell’animo sardo è tutta l’umanità a sentirsi rappresentata. Stefania Sergi, cinquantaduenne di Barumini, fluttua tra poesia e arti visive con il preciso obiettivo di allargare metaforicamente il senso della materia, e come spesso accade l’esplosione artistica sfocia in mille rivoli espressivi.
Antologie, dipinti, sculture, body art, murales, premi: un turbinio ininterrotto di ricche esperienze, quelle di Stefania, che denotano la femminilità sarda.
«Mi diverte il fatto che nonostante abbia vissuto in diverse parti d’Europa e ora in Toscana, io dovunque sono chiamata ‘la Sarda’. Non posso non fare i conti con il fatto che il sentimento d’identità permei profondamente la mia arte.
Il mio universo simbolico è perennemente teso a vivere la mia sardità e a farla incontrare a chi non la conosce».
Stefania appena maggiorenne, costretta da un’insaziabile fame d’arte, lascia il cuore della Marmilla per assaporare il fervore della Neue Wild Art Art, l’arte di ispirazione naturalista che in Germania la investe frontalmente e si riverbera ancora oggi tra le pagine di “Incantos” (Confine Editore), distillato letterario della matura poliedricità dell’artista, che propone la sua visione universalistica dei rapporti, sereni o tormentati, intessuti durante l’esistenza. Legami umani intesi come fili del destino.
Il filo, l’espressione materica per eccellenza. Se trattato con materna pazienza genera tessuti robusti, manti che danno calore e copertura, ma se strappato con violenza genera rotture irreparabili, molto spesso però origine di resiliente vita nuova.
I fili, così come i rapporti umani, danno significato all’esistenza anche sotto le specie di nodi insoluti. È questa l’idea metafisica che muove l’arte della gemma di Barumini: «Incantos è nato quando ho provato con il mio corpo, in una performance, a legarmi con dei fili agli alberi, alla terra, alle case.
Ho testato su di me, con la mia vita, attraverso le linee dei miei confini, impedimenti, doveri, lutti, conflitti, trasformando tutto in catarsi spirituale e nascita nuova».
Donna e madre, Stefania propone la sua percezione di legame spaziale e temporale con la terra d’origine attraverso uno sguardo sensuale sulla realtà femminile, non per questo meno nitido e obiettivo sul reale, anche nelle liriche che obbligano il lettore alla meditazione e ad un’ulteriore riflessione sulla visività.
Riflessione su libertà e solitudine,partendo da quei fili che generano nodi, che sono contrasto ma anche unione che rafforza e forma eternamente la donna di ogni tempo che trae fecondità dalla sua fragilità aperta al filo del dialogo.
Alberto D’Atanasio – INCANTOS
(Docente di Storia dell’Arte ed Estetica dei Linguaggi Visivi)
Tra le contraddizioni che hanno caratterizzato ogni epoca poche hanno raggiunto il paradosso come in questa che viviamo a poco più di dieci anni dall’inizio del terzo millennio.
Oggi si ha una disponibilità dei mezzi preposti alla comunicazione e all’elaborazione di dati che non ha precedenti. Si può disporre di possibilità straordinarie per comunicare in tempo reale, scambiare idee, pensieri, progetti come mai era accaduto prima.
Persino la catalogazione dei dati, la redazione cronografica e cronologica degli eventi e dei documenti hanno avuto un cambiamento e un miglioramento sia tecnico che per la fruibilità della consultazione senza precedenti. Ciò che solo quindici anni fa sembrava futuribile o mera retorica da fantascienza è divenuta, in pochissimo tempo, realtà e consuetudine.
Migliaia di file immagazzinati in biblioteche elettroniche, banche dati cui si può accedere da qualsiasi parte del mondo, senza spostarsi, comodamente da casa. Tuttavia questa grande quantità d’informazioni non sembra abbia formato in meglio le coscienze degli uomini. I progressi sul piano delle comunicazioni sono ogni anno sorprendenti, ma la conoscenza più accurata di fonti, che in parte erano occultate in archivi segreti, non ha permesso poi agli uomini di imparare dal passato.
L’uomo non riesce a fare memoria della storia, né ad imparare sulla scorta degli effetti consequenziali a scelte politiche scellerate che si ripercuotono direttamente sul presente. L’uomo è più bravo, piuttosto, a replicare guerre, violenze, conflitti e distruzioni. Niente sembra poter cambiare una genia patriarcale, evidentemente misogina, capace di accrescere una cultura composta di economie inique il cui effetto è noto a tutti, un benessere per pochi i quali godono anche del superfluo e una povertà fino all’estremo per molti a cui, invece, è tolto anche il necessario, la dignità, i diritti, le speranze.
Ora di là da ogni retorica letteraria vana quanto tristemente ripetuta, reputo che sia necessario, quanto mai oggi, insistere perché possano essere svelate certe cosciente tetre, ipocrite che propongono idoli dal fascino penoso di Mastro Lindo o quei nuovi eroi dall’aura tronfia e opulenta dei reality.
Nella cultura ellenica che costituì l’anima della civiltà romana, l’eroe e l’idolo erano personificazione di una bellezza radiante, emanazione di una bellezza trascendente capace di trasformare l’immanente, una bellezza che completava il “kanon e kalòs kagathòs” dell’ epoca Classica, perché il corpo diveniva l’involucro in cui la bellezza poteva irradiarsi ed emanare a chi guardava un senso assoluto di armonia etica ed estetica che artisti come Passitele e Skopas fissarono nel bronzo.
Le opere d’arte comunicavano concetti complessi nella restituzione strutturale, ma chiari nella percezione attraverso i simboli che l’artista costituiva con la forma e i colori. Il corpo era involucro in cui Psiche cominciava il suo percorso verso l’identificazione di Dea. Apuleio fu chiaro, lei era ponte, rimando a un’idea che pur nella sua trascendenza rendeva prezioso l’immanente. Non c’era il triste effimero del tutto e subito e le vacuità che asfissiano questi nostri giorni, c’era piuttosto un concetto semplicissimo ed importate; il tramandare alle nuove generazione una eredità fatta di emozioni, sentimenti e sensazioni che permettesse di vivere meglio i tempi a venire.
Le storie da raccontare avevano un senso e un’importanza fondamentale perché permettevano alle emozioni di identificarsi in qualcosa che formava gli animi a ideali precisi veri, in quanto, raffigurabili e rappresentati. È su questa riflessione che si regge la necessità della catarsi e l’essenza del termine “monito”. Il monito da cui nasce la radice etimologica di “moneta” voleva significare, prima d’ogni altro pensiero, il lasciare che un segno, un’indicazione che restasse a memoria di chi aveva avuto modo di possedere un’effigie che era rappresentata incisa o a rilievo di solito su metalli. È così che l’imperatore, il condottiero univa un popolo, che diveniva comunità grazie anche a un ideale che si poteva vedere sintetizzato su una moneta o una medaglia.
Ma il monito era anche la preghiera che era riassunta con le stesse modalità tecniche, affinché fosse una dea ad avere memoria di chi lasciava o lanciava la moneta o la medaglia al di là del cancello che chiudeva la cella. Il motivo era che lo spirito potesse aver memoria e cura di un uomo o che fossero protetti i figli lontani, l’amore partito per la guerra o esaudire una supplica perché una speranza diventasse realtà.
È questo il senso di molte statue e icone ancora oggi venerate, cioè rese belle da chi le pregava. Erano figure di quella bellezza radiante caratteristica di Venere appunto, la dea madre della bellezza, la quale donava lo “status optumus” per presentarsi davanti a un dio raffigurato in modo da generare quel dialogo catartico che permetteva alla bellezza di effettuare un moto circolare, dall’uomo verso il dio e dal dio verso l’uomo.
Così mentre si venerava si veniva venerati e resi quindi più belli, in armonia. Si usciva dal tempio o dal tempo della preghiera o del sacrificio diversi da come si era entrati. È questa l’essenza stessa in cui veniva concepita la contemplazione. Venere, la dea che secondo gli scritti di Esiodo e poi quelli di Pausania il Periegeta, generò Eros, il dio dell’innamoramento e poi Anteros, il dio che dona l’amore che non muore mai,l’amore corrisposto che dura per sempre; Anteros è colui che permette a Eros di essere consapevole e di amare una umana: Psiche, che per amore dell’Amore verrà trasformata in dea.
Il femminile è stato fin dai primordi la chiave di lettura del trascendente, varco tra l’immanente e il trascendente.
Persino la genesi raccontata da Esiodo narra che fu Gaya fatta scaturire da Chaos che trasformò ogni cosa creata in Cosmo la somma perfezione, l’armonia; e sempre secondo il poeta di Ascra fu Gaya a generare la Grande Madre e quindi gli dei che poi popolarono l’Olimpo.
È un quadro complesso quello degli dei, inconcepibile in termini di pura ragione e anzi, in quei termini non può essere riferito proprio per sua natura. Però è anche vero che il femminile, le donne, l’arte e le opere d’arte possono aiutare a capire certi misteri e che se teologie così particolari come quelle monoteiste e cristiane sono durate millenni fino a permeare e a dare risposte in quest’epoca irta di contraddizioni, è perché certi misteri attendono all’animo superando le normali regole della logica e soddisfano invece un bisogno di ordine diverso: emotivo, affettivo in una parola d’Amore.
È così che a mio parere si può scrivere o narrare del fare arte di Stefania Sergi e in particolare dell’opera Incantos. Stefania è una di quelle artiste che non esegue per un bisogno interiore, istintivo ed estemporaneo, frutto di una situazione più personalistica che personale, ogni sua opera e frutto di una ricerca che la coinvolge totalmente. È come se il suo tempo vissuto e quello che vive altro non sia che l’espressione di un eco che si ode nel divenire del tempo che viene.
L’opera è il monito è la sua effigie che ferma Crono e lo trasmuta in memoria perché l’oblio non abbia a nascondere la verità, il vero che si rivela attraverso l’opera. Il fare arte di Stefania è la parafrasi dell’opera L’Allegoria del trionfo di Venere di Agnolo Bronzino, conservato da metà ‘800 a Londra nel National Gallery, in questo quadro il tempo non permette all’oblio di calare il suo pesante velo sulla verità. In questo contesto la scultura “Incantos” assume un valore alto, di estremo valore sociale perché questa scultura ha rimandi precisi, di cui l’artista ha la consapevolezza fin da quando l’idea era solo ispirazione.
Nel titolo di scorge la terra natia, lì sono le radici di Stefania è la sua fanciullezza e l’adolescenza. È una bimba già donna quella che in Sardegna riusciva a vedersi, come solo le donne sanno fare, già nel tempo a venire, e da donna, quest’artista rimarrà legata alla memoria delle sue radici, impreziosendo la sua essenza di bimba.
La costituzione materica dell’opera, nella sua postura, corrisponde invece, a una dea che per la Grecia del V secolo a.C. era denominata Kore. Non si sa di preciso a cosa fossero preposte queste figure votive, la tesi più accreditata dal mondo scientifico storico artistico è che queste dee fossero tramite tra gli umani e il Dio a cui veniva rivolta la lode o la supplica.
Un tramite, una sorta di ponte tra l’immanente e la trascendenza divina. La sembianza è del tutto simile alla vergine di medjugorie. Ora sia ben chiaro che chi scrive non vuole fare alcuna analisi né speculazione teologica, ciò che s’intende chiarire è un percorso semiologico e avvicinarsi a una lettura iconografica, storico-artistica che può aver senso solo delle raffigurazioni, null’altro. Le Korai erano, sicuramente avvocate degli uomini, offrirono per questi sacrifici e doni perché fossero graditi a Dio.
Erano venerate perché il venerante potesse, riceve l’effusione della venerazione del Dio. Ciò che è certo è che questa donna è tramite e monito perché la comunità possa far memoria delle manifestazioni di Dio e non abbia a smarrirsi nel tempo e nei tempi.
La scultura di Stefania ripercorre questo concetto e l’ha fatto divenire percorso che inizia nella costituzione strutturale dell’opera. L’interno è di polietilene che è unito con grande conoscenza tecnica al ferro e poi avvolti nella tela di canapa che è resa rigida dal composto di gesso e acqua.
Stefania ha ripercorso l’idea stessa che fu di un grande scultore, Umberto Boccioni che con grande genialità, nei primi decenni del XX secolo, voleva che le sue sculture fossero fatte nella costituzione e restituzione estetica dagli stessi componenti usati dalla Sergi.
La stessa scultura “Forme uniche della continuità nello spazio” Boccioni la concepì e realizzò in legno colle e gesso la versione in bronzo che contempliamo nelle monete da 20 centesimi, lui non solo non l’ha mai pensata ma è evidente che era ciò che aveva escluso.
Come alla Sergi Boccioni interessava che il concetto fosse visibile e restasse a memoria per la forma e per la restituzione estetica dell’opera finita. Incantos, è stata poi sagomata così come prevedevano le norme descritte da Cennino Cennini.
La forma è stata lisciata in modo che l’impasto composto da polvere di ceramica, acqua e colla di coniglio, avesse una evidente omogeneità. Non sono solo espedienti di laboratorio questi fin qui descritti, non è mera tecnica, quello che quest’artista compie è un vero e proprio percorso che porta a generare la forma che per genealogia sono Chaos e che diventano Cosmo con quel tocco di Gaya di quel Femminile del quale la Sergi ne è raro esempio. Se il percorso verso la conoscenza e la manifestazione del mistero è una sorta di rito allora la creazione di Incantos di rito si tratta.
L’opera è stata intrecciata da un filo, molto resistente, un’unica piccola corda tirata e annodata in ogni sua parte. Il filo simboleggia la storia di ogni uomo, di ogni essere vivente. L’intreccio che si dipana sulla superficie della figura è l’arazzo dove la istoria si legge e dove trova il suo senso in quel femminile che per ogni uomo che sa differenziarsi dal maschio, corrisponde alla Madre, ma anche alla Compagna, alla Figlia e alla Sposa.
I fili diventano anche capelli e copricapo, come nell’antica Venere di Willendorf, non serve che si percepisca lo sguardo perché l’anima, in questo caso, si esprime nella prosopon, nella figura che diventa quella maschera con cui l’anima si manifesta. Straordinario è come l’intreccio diventi basamento e insieme gemma, conchiglia da cui la dea sorge e si allunga nello spazio in un chiasmo che è armonia antica e moderna. La struttura e il filo sono stati saldati, fusi insieme da un ultimo strato composto da resine e ceramica; in quest’ultima fase I fili diventano capelli che lasciano scoperti il seno e il braccio desto.
La parte destra simboleggia la razionalità che si mitiga con i sentimenti, il seno e il braccio destri nudi sono la razionalità che si deve vestire della parte attinente al cuore in modo che si formi e si contempli la ragione dei sentimenti. Altrimenti tutto diviene incomprensibile, e nessun suono raggiunge Armonia. È una simbologia molto usata in passato, Canova, che di simboli era esperto, nel celebre gruppo scultoreo di Eros che abbraccia Psiche fa sì che il dio dell’amore scenda a Risvegliare colei che sta per divenire dea, e in quell’abbraccio, in quel secondo bacio la mano sinistra di lui carezza il seno destro di lei perché la razionalità sia mitigata dall’amore, la mano destra invece le sostiene il capo.
Lei lo guarda e con le braccia descrive un cerchio, il simbolo supremo della femminilità e della vita che mai ha fine.
Tre alberi, tre veri bonsai di melograno sono posti all’interno del braccio destro teso verso l’interlocutore per cui l’albero risulta come naturalmente cresciuto sulla madre terra. Sono melograni, il melograno è un albero che rievoca l’infanzia dell’autrice, ma nella simbologia quest’albero è la femminilità che si apre, si sacrifica, si apre al mondo perché si abbia la piena conoscenza e la consapevolezza del vivere.
Il melograno è simbolo di un’altra Kore: la giovane Persefone che in virtù di sei semi di melagrana mangiati su invito dello zio Ade riuscì per sei mesi l’anno ad allontanarsi dagli inferi e ricongiungersi a sua madre Demetrea così da permettere alla terra di gioire della Primavera e dell’Estate. Il melograno resiste su terreni impervi aspri è la trasposizione di quella femminilità che non si piega né al tempo né ai tempi, è quella bellezza che affronta le ere e riamane stabile nonostante tutto e tutti. L’opera di Stefania Sergi non è soltanto una bella scultura in cui sono evidenti la genialità, lo stile e il compendio di un fare arte autentica e consapevole.
È anche, e direi piuttosto, una di quelle opere cui ci si affida perché possa generarsi quel moto circolare che rinnova e può far migliore l’osservatore. Io davanti alla Dea di Stefania Sergi ancora m’incanto così come farebbe un bambino. Come un viandante che si è fermato a ritrovar se stesso guardo la dea, una icona antica, o il Gohonzon, poi esco dal tempio, dall’edificio sacro o dalla mia casa e con più coraggio continuo il mio cammino.
Donato di Poce – Milano, 03.08.2015
Poeta,critico d’arte, fotografo, collezionista e teorico di “Taccuini d’Artista e Poetry Box”
LIBRI D’ARTISTA E OLTRE:
I LIBRI/SCULTURA E LE SUTURE ESISTENZIALI DI STEFANIA SERGI
a Stefania Sergi il libro prima ancora d’essere un’idea scolpita nel cuore era un nido di sensi e di visioni che fluttuavano nell’anima” Donato Di Poce Prima di parlare del lavoro artistico di Stefania Sergi relativamente ai suo i libri-scultura, (che in un inconscio refuso dattiloscritto era diventato libro-sutura) è opportuna un accenno alla storia del Libro d’artista, declinato poi in libro-oggetto, prima e libro-scultura poi come nel caso di Stefania.
Se l’americano Ed Ruscha, che creò il pilastro della storia del libro d’artista: Twentysix Gasoline Stations, si contende con George Maciunas il focus Americano su questo media artistico, noi Italiani non possiamo fare ameno di pensare al “Depero futurista” meglio noto col nome di”Libro bullonato” come i Francesi sottolineano l’importanza di un libro come “Jazz” di Henri Matisse che l’artista si è disegnato e costruito da solo.
Certo è che dopo i libri trasgressivi dell’avanguardia russa degli anni Venti, i libri futuristi le esperienze di varie artiste, autrici di pagine verbo-visuali e pagine-oggetto, e dopo il libro tattile di Marcel Duchamp del 1947, sembra che il silenzio sia calato su questo tipo di sperimentazioni delle avanguardie artistiche del‘900. E’ soltanto negli anni Sessanta-Settanta che riappare il “libro d’artista”, mal’attenzione si sposta sempre piu’ verso scatole, teche, contenitori, e a questa vasta tipologia aderiscono gruppi come Fluxus, Pop Art, Arte Povera, Concettuale, Scrittura visuale ecc.
Alla parola scritta subentrano l’arte verbo-visuale e la poesia visiva e gli artisti pongono in relazione la parola,l’immagine e l’oggetto. Sostituiscono il testo con materiali vari (carte, cartoni, ferro, legno, vetro, cere ecc.), e nasce così una nuova comunicazione con linguaggi diversi, grafici e materici, opere verbo visive, “taccuini d’artista” e “PoetryBox” ( vedi www.taccuinidartista.it).
Un atto creativo che produce relazioni, contatti, poesia totale. L’artista interpreta il proprio libro e vi trasferisce pensieri, interrogativi, riflessioni con la forza della materia, con la plasticità della struttura, con la diversità della forma, con la sensibilità del segno, del colore, dei materiali, dando vita ad una poetica che mette in discussione la scrittura a favore di elementi non convenzionali proposti/imposti con l’alfabeto del visivo” e di particolari caratteristiche in grado di documentare un differente e nuovo comportamento estetico.
Dagli anni Novanta in poi c’è stata una rinascita del libro d’artista, dopo la pausa degli anni Ottanta. Finita quella stagione, il libro è tornato ad essere una presenza costante nel lavoro degli artisti. Si introducono le nuove tecnologie, la possibilità di lavorare a un libro in modo autonomo, in modo assolutamente indipendente rispetto a prima. L’artista è ora in grado di pensarlo, disegnarlo, stamparlo, costruirlo, scolpirlo…
E arriviamo così al lavoro recente di Stefania Sergi, scultrice e performer di origini Sarde ma residente da anni dopo un’esperienza tedesca ad Arezzo. Ecco spiegate forse le origini artistiche e la sua fusione di arcaico, espressionismo, mito rinascimentale, poesia che caratterizzala sua opera scultorea(citiamo su tutte le opere Incantos e Legami Slegami) e in particolare i suoi innovativi e poetici libri-scultura.
A cominciare dai titoli, (libro inchiodato; libro sfogliato; libro rilegato; libro semi-nato etc…) Stefania svela le sue doti poetiche(è anche autrice di tre libri di poesia) e la sua passione per l’oggetto libro. Non più vissuto o interpretato tipograficamente o concettualmente, ma nelle sue mani il libro diventa il vero oggetto e soggetto artistico, il libro viene pensato, plasmato e scolpito con le sue mani, eppure diventa un medium artistico e concettuale formidabile.
Ogni suo lavoro a tema, diventa riduttivo chiamarlo scultura e diventa riduttivo chiamarlo libro, in quanto è un nucleo semantico e una matrice significante,una scatola magica di messaggi, emozioni, idee.
Sono dei libri-sutura tra un mondo ferito e una bellezza inconclusa, un ponte dialettico per legàmi d’amore, un messaggio ecologico per una cultura e un mondo ecosostenibili.
Un ritorno all’uomo, ai suoi gesti primari (accarezzare, plasmare, legare), una danza della leggerezza ritrovata nel cuore ma scolpita nella materia, quasi a sottolinearne il desiderio d’eternità il desiderio d’incanto.
Il suo mondo poetico è fatto di legàmi, di fili che annodano e legano visioni e le intricate pagine della vita, a volte inchiodate alle loro responsabilità altre volte consegnate alla leggerezza di un gesto di semina, di annotazioni di legami con il sacro.
Infatti spesso nei suoi lavori di legno o di bronzo, compare una patina bianca, quasi fosse una nevicata d’incanto o un respiro d’eternità che si posa sulle pagine e sulle cose…
L’opera dal titolo libro aperto, è una tavola di nuovi alfabeti possibili e aniconici, in cui i segni tracciano relazioni con macchie di colore, sembra più un reperto archeologico del futuro che una pagina Mesopotamica o Egizia, che ricorda esiti simili di un’altra grande protagonista del libro-scultura come Fernanda Fedi.
Un’altra opera che colpisce per le sue caratteristiche mitologiche e ironiche insieme è Libro Facebook, in cui tra le pagine del libro semiaperto si scorge una maschera Nuragica con chiodi fermacapelli dall’atteggiamento ieratico e sornione insieme. Scolpire il libro(pezzi unici e irripetibili), diventa per Stefania Sergi (come in Fernanda Fedi e Carmela Corsitto, Oki Izumi) esperienza creAttiva totale, progettuale e creativa insieme, operazione concettuale e manipolatoria, estatica e simbolica in cui la materia diventa la trama di nuovi significati, il tramite di nuovi messaggi evocativi, il mantra di un tessuto estetico aptico che va oltre le esperienze tattili dei libri oggetto e di certo manierismo verbo-visivo di troppi epigoni delle avanguardie.
Nasce da queste opere una poetica del libro come casa-natura, come nido esistenziale, distruggente poesia e immediata empatia. Sono libri da non leggere, ma da abitare, da toccare, accarezzare e custodire nel giardino dell’anima.
La sua operazione estetica non è di elaborazione-manipolazione di opere preesistenti, che ha occupato gran parte delle esperienze di molti artisti dagli anni 60 agli anni 80, né tantomeno la negazione del paradigma classico della scrittura( libri illeggibili di Munari o i libri cancellati di Isgrò), ma creAzione poetiche ex-novo, rimandi al suo nodo poetico da sciogliere insieme e catturare forse il sogno poetico della parola di farsi forma, corpo vivo dell’eterno, da inchiodare alle pagine fluttuanti della realtà e ricordarci che il libro oltre a parole e immagini, ha in sé il dono della poesia, e con una poesia dedicata a uno dei suoi libri scolpiti ci congediamo…e vi lasciamo al suo incanto… SEMI-NATO
Giorgio Torricelli – Toscana 2014
Curatore editoriale
L’artista Stefania Sergi ha un percorso di maturità creativa che la identifica in quella forma di “arte sensibile” che si confronta sempre con la parola scritta.
E’anche autrice di due libri di poesia a dalle sue liriche germogliano come lei scrive “gocce di sole sulla pelle deserta”che si legano tra di loro come fossero densi fili che traggono forza dalla memoria, ma anche dalle scelte di vita.
Della sua vita che mette insieme la forza di chi guarda sempre “dentro le cose”, nell’umanità delle cose. La sua è una storia artistica compiuta, una maturità del segno che si snoda in oltre venti anni di attività, periodo nel quale ha realizzato mostre personali e collettive fra Germania, Roma, Arezzo e altre città italiane e proprio Arezzo è dove ha scelto di vivere adesso, la città murata di Vasari, come Siena e Lucca e la stessa Firenze ha una dimensione a “misura di artista”.
L’artista Sergi vive questo sentimento di ricerca e di legame con la storia, trasferendo la sua idea di passato come luogo abitato dai colori, dalle forme originali, dai segni tracciati con libera sequenza dei gesti più ispirati, perché ha sviluppato una dimensione internazionale , con mostre che lei ha realizzato nel corso degli anni utilizzando diversi materiali, fra i quali le tempere, i bronzi, il ferro, l’argilla, la ceramica e le terre varie.
Le opere che ha realizzato, insieme alle installazioni collocate nella sua terra d’origine la Sardegna, costruiscono un dialogo dei suoi ricordi ancestrali con la primordialità della storia dell’arte nella figurazione italiana, la sua cultura di artista è cosi in cammino e in continuo dialogo e confronto con i linguaggi dell’arte europea contemporanea.
Se la sua pittura narra la lucentezza delle forme invisibili, la scultura è invece la rappresentazione dei corpi e dei volti,non esiste nell’artista Sergi l’idea di fissità e distanza con chi osserva, c’è invece il bisogno di restituire il contatto perduto con l’opera e chi la guarda, la necessità quindi di far partecipare a questo gioco di scoperta e di sorpresa, a cancellare la “maschera divina” del personalismo,che tende spesso a far parte della cultura di ogni persona,qui viene invece riabilitato chi ama identificarsi con i segni e i colori di un arte che si colloca completamente nella modernità e nel sentimento di questo tempo.
E’un superamento in avanti di questo tempo immobile e anche della realtà specialmente nell’ultima sua opera di natura monumentale che è l’Incantos, una scultura realizzata in ceramica, utilizzando colle e fili, che nel suo profilo e nella dimensione di fronte, da l’idea di una effusione di sentimenti e di sensi amorosi, di grazia e di poetica che richiama la lucentezza e la trasparente dei marmi in Canova.
Anche il senso che esprime il movimento del braccio spostato in avanti e che si fissa nel tempo, dà l’idea che questa “figura poetica”nella sua tiepida naturalezza e bianchezza, può diventare un modello conclusus con un percorso ideale di riuscire a far vivere la scultura in spazi all’aperto e non più nel suo fisso isolamento, quasi fisico, ma può diventare la sentinella del bello di ogni città e di ogni storia locale.
In questa dimensione l’artista Sergi, come anche nell’opera Legami e Slegami riesce a soffiare “la sua affettività” dando a queste superfici,anche nei bronzi, più punti di osservazione e il senso compiuto di un’azione di figure in dialogo, ma anche di valore morale della figura seducente che si fà persona, quando crea una dimensione senza tempo nelle tonalità del bianco puro, proprio come accade nelle trasparenze del marmo antico.
Le sue figure danno l’idea di essere uscite dalle cavità perfette della sua Sardegna per indicare un percorso non più di attesa e non un solo pensiero, ma definiscono un’azione sotterranea e silenziosa che muove il mondo, quello dei “sentimenti” che anche nelle sue liriche come nella sua arte, offrono spesso una via d’uscita..” che a destinazione mi porti” La sua è quindi un’azione che risuscita le vite interiori di chi è spettatore ma sente che è coinvolto dalla “poesia” delle sue opere e proprio in quel momento si completala sua idea di trasmettere a tutti il grado della qualità”sensuale” del suo linguaggio che ci guida come il gesto del braccio dove spuntano alberi che prima non esistevano, l’Incantos è questa sintesi nell’osservazione dell’Origine nascono tutte le sue parole: Prendolievemente il corpo scrollole stelle sott’occhio finché tutto l’oscuro divino s’invola.
Marcia Theofhilo
(Poeta Antropologa, Candidata Premio Nobel letteratura 2014)
La scultura di Stefania Sergi si vive a fior di pelle in un alto grado di sentimento che ha una caratteristica della donna nella sua costituzione psicologica. Un dono profondo che marca la natura di chi sa proiettare su se stesso questo essere sconosciuto che è il mondo interiore che possediamo.
Il corpo rappresenta la singolarità di un essere, una goccia, il mare rappresenta per lei la vita, parte del suo stesso corpo. I dialoghi fra loro finiscono come un’onda lunga che si protrae mutando sensazioni, umori, colori.
E il linguaggio nasce assieme all’emozione dando spazio a momenti che fanno mancare il respiro. Tutte queste situazioni, questi eventi, si susseguono attraverso spazi di vita psicologica e interiore.
Se mi interrogo sulla ricerca estetica di questa opera è perché voglio entrare nel processo che nasce dalla poesia per raggiungere la scultura.
Tutti noi abbiamo bisogno di questa Artista per continuare a ricercare dentro di noi queste fonti, queste forze interne della nostra natura, è soltanto con lei Stefania può creare o meglio, sentirla.
Vito Benicio Zingales
(Scrittore, Regista, Sceneggiatore)
Incantos dei Re per Incantos – Nella parte più riparata del cuore, è un giardino così soave da incantare perfino il fiume di sangue che là vi scorre nel mezzo. In quella terra, il viaggiatore, come l’uomo alla cerca”, semina il suo grande sogno, distribuendo, entro i lati di quel perimetro fuggente, “memorie prossime”.
In quella terra germogliano, tra declivi di prudenza e salti di passione, i “vorrei del cuore”. Lì sono gli assembramenti del convincersi e il germinare dell’idea e lì trova spazio la pazienza del risalire.
Il viaggiatore, di questa terra, ne custodisce ogni sorta di seme, perché in ognuno di esso sa essere il trasfigurare della vita. Non so se avete mai fatto caso al“fruttato” vibrare della gioia, quando nell’animo, tale sentire, rilascia il sapore della “presenza”: si è mondo,suggeriva l’ateniese”, allo stesso modo con cui le cose sono e non sono insieme alla partecipazione dell’essere.
Questa terra non possiede le ragioni di un’apparenza e non risolve l’intermittente falce del “motivo”, non lega chiaroscuri d’orditi e non è lì a morigerare caos di trame. Non compiace alcuna divinità e non dosa pesi, tra l’eludere e il conformarsi ai venti della vita … questa terra si fa sposa alle necessità di chi muove l’umiltà dello slancio. “Non è tanto nel concepire il salto”, diceva mio padre, “ma essere spazio per il passaggio di quell’idea.
L’azione del salto mostra il possibile, l’idea di esso, ancor prima del salto, ne svela invece, il sogno”. Quando alzo gli occhi al cielo, per capire il vento, fermo, nel mezzo di uno spiazzo, tornano le parole del mio vecchio. E’ lì che sento la vita vibrarmi dentro e al di la’ di ciò che guardo. In quella circostanza, necessaria tanto al cammino, quanto al declinare della“lentezza”, immagino che da qualche parte nel mondo, lontana o prossima ai miei occhi, è Incantos dei Re”. Incantos trova posto nella parte più intima del viatico del pellegrino.
Incantos non è solo la pista oltre la fine o la rada dopo il mareggiare; in essa trova confine l’ultimo tra gli ultimi passi,quello che il viandante segna nel suo taccuino sentimentale, come l’ultimo azimuth: la distanza compresa tra il “tentativo dell’idea” e il farsi carne di quel medesimo tentare. La generante alchimia, prodotta da questo “ascendere verso”, provoca il “tumulto del diamante”, il definirsi di quel vertice sacro, da sempre agognato dal pellegrino in cammino. Per alcuni è la meta finale, per altri è la dislocazione perfetta: l’affermarsi dell’idea.
Quel dislocarsi parola, tra fili che tessono risvegli, e’ Incantos … una nuvola muliebre di pietra e di fili, di amanti e di figli. Incantos si eleva dalla terra, come terra, aspirando farfalla, verso moltitudini di cielo e inconfessabili clamori.
Dicono che sia stata levigata da una donna e da un lupo e che la luna, osservandone la dispotica bellezza, le abbia disegnato un cuore per invigorirla di”sangue”. Dicono che sia perfetta. Raccontano che sappia amare.
Il viaggiatore esperto sa che tra crepuscolo e buio, è un “soffio di uce”. In quella frazione di tempo collimano spazi di scelta così importanti da imporre, anche al più navigato maratoneta delle altezze, il granito della calma.
Basterebbe quell’improvvido esitare per precipitare tra le braccia dell’errore e di sotto non vi sarebbe alcuna rete di protezione per sostenere il dramma dell’urto: un’equazione per due incognite … la più difficile,visto l’imprevedibile scarto tra il salgemma della superbia e la letalità della menzogna.
Dentro questo spazio, tra il consueto delle distanze e il ridondare del quotidiano, è la folgore dell’inatteso:il salto … Incantos.
E il salto giunge nelle cose del cuore subito dopo aver compreso che non esiste “sacra distanza” tra i meridiani del mondo, se non ci si fa distanti da se stessi. L’”umiltà dello slancio” ci crea terra e spazio, allo stesso modo con cui il vento disegna nel cielo le prerogative dell’eterno. Incantos e’ “il tumulto del diamante” e come ogni viaggiatore, io la cerco da sempre. So che c’è. Si dice che in essa siano la pace e l’”oro di uno slancio”.
Incantos e’ una donna … la meraviglia del lupo. La terra che cerco.