Nel marzo 1939 Hitler sollevò anche la questione di Danzica (dichiarata città libera dal trattato di Versailles ma rivendicata dalla Germania), e del corridoio polacco che isolava la Prussia orientale. Francia e Gran Bretagna decisero di appoggiare la Polonia, mobilitando gli eserciti.
Intanto, i ministri degli esteri italiano e tedesco avevano firmato il Patto d’acciaio (22 maggio 1939) con cui le due potenze si promettevano aiuto reciproco in caso di guerra. Invano Francia e Inghilterra tentarono di trovare una linea comune con l’URSS per isolare Hitler. Stalin, temendo le ambizioni tedesche sull’est europeo, siglò con Hitler un trattato di non aggressione (23 agosto) e un accordo per la spartizione della Polonia.
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L’Anschluss e la conferenza di Monaco
La deboli reazioni delle potenze occidentali e la politica di distensione (appeasement) praticata dalla Gran Bretagna del primo ministro Chamberlain indussero Hitler a occupare l’Austria (Anschluss, 12marzo1938). Ancora una volta le diplomazie europee non reagirono.
Pochi mesi dopo la Germania aprì una crisi internazionale per la questione dei Sudeti, in Cecoslovacchia, dove viveva una forte minoranza tedesca. Per risolverla, Mussolini, pressato da Chamberlain, indisse la Conferenza di Monaco (29-30 settembre 1938), cui partecipò anche la Francia, ma da cui fu esclusa la diretta interessata, cioè la Cecoslovacchia: le richieste di Hitler furono soddisfatte.
La Germania ebbe i Sudeti (1° ottobre), Polonia e Ungheria altre piccole porzioni di territori cecoslovacco.
Meno di sei mesi dopo (marzo 1939) Hitler infranse gli accordi di Monaco e occupò Praga costituendo il protettorato di Boemia e Moravia; la Slovacchia nominalmente indipendente, divenne un satellite della Germania.
L’Italia approfittò della situazione per occupare l’Albania (7 aprile 1939).
Il totalitarismo
Il concetto di totalitarismo riprende l’espressione “Stato totalitario” con cui si designava sotto il fascismo lo Stato corporativo. Con esso si definiscono i regi- mi antidemocratici sviluppatisi nel corso del XX secolo (Nazismo, Fascismo e Comunismo), caratterizzati dalla mancanza di controllo delle istituzioni rappresentative sul governo, dall’assenza di libertà di stampa e associazione, e dalla martellante mobilitazione ideologica delle masse attraverso una costante opera di propaganda politica. In sostanza, nello Sta- to totalitario esiste una sola volontà politica riconosciuta alla quale occorre conformarsi. Tutte le opposizioni sono eliminate anche violentemente dall’apparato poliziesco del regime. Inoltre, in esso vige la completa deresponsabilizzazione etica degli individui nell’esecuzione delle direttive del potere, mentre è portata all’estremo la contrapposizione frontale ai principi del pluralismo democratico liberale.
La guerra civile spagnola
La Repubblica spagnola, proclamata nel 1931, si trovò quasi subito in balia di partiti caratterizzati da una forte connotazione estremista. La destra governò nel 1934-35 reprimendo duramente alcuni scioperi. Un Fronte popolare com- posto da repubblicani, socialisti e comunisti, vinse invece le elezioni del 1936. Ma le posizioni anticlericali del nuovo governo suscitarono le proteste della coalizione sconfitta. Nel luglio 1936, dopo l’uccisione del leader di destra José Calvo Sotelo ad opera di simpatizzanti socialisti, le truppe del generale Francisco Franco di stanza nel Marocco Spagnolo insorsero. In breve la rivolta si estese a tutto il Paese dando inizio alla guerra civile tra franchisti e repubblicani. L’Italia inviò a Franco divisioni di volontari fascisti, la Germania massicci aiuti militari; l’URSS offrì invece il proprio sostegno ai repubblicani, coadiuvati da brigate internazionali di volontari. La sproporzione di forze a favore dei militari insorti e i profondi contrasti tra comunisti e socialisti portarono Franco alla vittoria (marzo 1939).
L’alleanza tra Germania e Italia ne uscì rafforzata (con il perfezionamento dell’Asse Roma-Berlino, esteso nel 1937 al Giappone), mentre la Francia era accerchiata da un blocco totalitario.
Sul finire degli anni ’20 i tentativi di stabilizzare politicamente
ed economicamente la repubblica di Weimar furono parzialmente vanificati dalla crisi scatenata dal crollo di Wall Street del 1929, i cui effetti, in termini
di recessione economica e disoccupazione, si fecero sentire rapidamente
su tutto il continente europeo. In Germania l’esasperazione di ampi strati
della popolazione fu sfruttata abilmente dal partito nazionalsocialista.
Dopo il fallito putsch di Monaco del 1923, Hitler aveva esposto nell’opera Mein Kampf (1925-27) le sue teorie: promuovere una rinascita spirituale tedesca basata sulla revisione del trattato di Versailles, fondare il Terzo Reich unificando tutti i territori europei con popolazioni tedesche (Grande Germania), superiorità della razza ariano-germanica e lotta all’ebraismo, inteso come capro espiatorio dei mali della società (da esso, secondo la concezione nazista, si erano generati il marxismo, il liberalismo e la democrazia). Nominato cancelliere nel 1933, Hitler procedette in tempi rapidi allo scioglimento
dei partiti (tranne quello nazionalsocialista), alla creazione di un forte apparato poliziesco e, attraverso una capillare opera di propaganda, all’organizzazione di un vasto consenso popolare attorno alla nuova ideologia.
Nel 1935 venne introdotta la legislazione antisemita, mentre l’economia
del Paese fu sottomessa alle esigenze di riarmo.
La crisi della repubblica di Weimar
Fallito il golpe del 1923 che lo aveva visto coinvolto, Adolf Hitler era stato arrestato; dopo aver scontato pochi mesi di detenzione, tornò all’attività politica per fare del Partito Nazionalsocialista Operaio (NSDAP), di cui era il capo o führer, una forza legale.
Nel frattempo la Repubblica di Weimar tentava di conso- lidarsi. Gustav Stresemann, titolare del dicastero degli esteri dal 1923 al 1926, guidò la politica della Germania verso la collaborazione internazionale (Trattato di Locarno, 1925) e all’ingresso nella Società delle Nazioni.
Sul piano strettamente economico gli Stati Uniti, per con- sentire alla Germania di pagare l’indennità di guerra (132 miliardi di marchi oro), offrirono ingenti prestiti attraverso il piano Dawes (1924). L’industria tedesca riprese così fiato. Il 28 febbraio 1925 morì il presidente Ebert (eletto nel 1919 a Weimar): gli successe il conservatore Hindenburg.
Ma proprio mentre il Paese sembrava aver imboccato la via della ripresa, lo scoppio della crisi economica mondiale del 1929 annullò gli effetti positivi dei piani per il pagamento delle riparazioni e riaccese le tensioni sociali, facendo salire i disoccupati a oltre sei milioni.
L’esasperazione suscitata in vasti strati della popolazione fu sfruttata politicamente dai nazionalsocialisti. Il partito nazista fece breccia soprattutto nella classe media. Alle elezioni del 1930 ottenne 107 seggi divenendo il secondo partito del Paese. Da allora ampliò la sua base elettorale tra i lavoratori industriali e gli impiegati statali grazie all’abile sfruttamento dei mezzi di comunicazione e propaganda, ma anche intimorendo gli avversari con la violenza delle SA (Sturmabteilungen), le cosiddette “camicie brune”, formazioni di tipo paramilitare create nel 1921 da Hitler. Alle elezioni del luglio 1932, con 230 deputati la NSDAP divenne il più forte partito del Reichstag. Il 30 gennaio 1933 il presidente Hindenburg offrì a Hitler il cancelliera- to: finiva la Repubblica di Weimar.
Il nazismo al potere
Il leader nazionalsocialista guidò fino alle elezioni del mar- zo 1933 un governo di coalizione conservatore. Il 14 lu- glio 1933, chiesti e ottenuti dal Parlamento tutti i poteri, il governo emanò una legge che faceva del Partito Nazio- nalsocialista l’unico partito della Germania: iniziò così la dittatura nazista. Fu quindi costituito un forte apparato po- liziesco, con la Gestapo (Geheime Staats-Polizei, polizia di Stato segreta) e le SS (Schutzstaffeln, guardia personale di Hitler), che si affiancarono alle SA. Quando le SA pretesero di sostituire l’esercito nazionale, costituendo di fatto un potere autonomo sottratto al controllo dello Stato, Hitler ne fece liquidare i capi (il 30 giugno 1934, la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli”). Il 2 agosto 1934 Hindenburg morì e Hitler fu proclamato cancelliere e presidente del Terzo Reich (dopo quello di Ottone il grande, nel X secolo, e l’impero tedesco proclamato nel 1871).
Prese così il via la definitiva nazificazione del Paese e l’iden- tificazione della Germania con il nazismo. Il nucleo centra- le dell’ideologia era costituito dal concetto di superiorità della razza ariana, che avrebbe dovuto dominare il mondo e asservire gli appartenenti ad altre razze. Il razzismo si tra- dusse quindi nelle Leggi di Norimberga (1935) che ridu- cevano i diritti civili, vietavano i matrimoni tra ebrei e non ebrei e avviavano la persecuzione antisemita. Un’accelera- zione della campagna antiebraica si ebbe con la “notte dei cristalli”: tra il 9 e il 10 novembre 1938, dopo l’assassinio di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un cittadino di origini ebraiche, in tutta la Germania vi furono devasta- zioni di proprietà ebraiche, assalti a sinagoghe e uccisioni. Nello stesso anno Hitler iniziò a esprimersi sull’esigenza di trovare una soluzione definitiva (la “soluzione finale”) al problema ebraico.
Altro aspetto determinante dell’ideologia nazionalsocia- lista era il führerprinzip (principio del führer), secondo cui la suprema istanza dello Stato era la volontà stessa di Hitler, a cui tutto, compresa la legge scritta, doveva essere subordinato.
La stampa e la cultura venne messa sotto controllo dal mi- nistro della propaganda Joseph Goebbels. Furono stabiliti concordati con la chiesa cattolica e con le chiese protestan- ti. Gli oppositori furono internati nei campi di concentra- mento. L’economia del Paese fu posta al servizio dello Stato che procedette a un forte riarmo in vista della conquista dello “spazio vitale” nei territori orientali.
L’alterazione del quadro internazionale
In ambito internazionale, l’avvento del nazismo segnò una prima crisi degli equilibri europei: nel 1933 la Germania si ritirò dalla Società delle Nazioni; nel 1934 Hitler favorì un tentativo di colpo di Stato filonazista in Austria (che fallì, ma in cui rimase ucciso il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss).
Morto Lenin, all’interno del partito comunista sovietico si sviluppò un’aspra lotta per la successione. Su tutti emerse Stalin, che nel giro di pochi anni riuscì a liquidare i principali fautori della rivoluzione d’ottobre e a imporre
il proprio potere personale. Forte dei metodi dittatoriali e polizieschi ereditati dal suo predecessore, Stalin accantonò le ambizioni di esportare
la rivoluzione nel resto del mondo e concentrò tutti i suoi sforzi nel porre
le basi di un poderoso sviluppo economico del nuovo Stato sovietico. Avviò quindi una collettivizzazione forzata dell’agricoltura, che comportò
lo sterminio della classe dei piccoli proprietari, i kulaki, e un processo di industrializzazione accelerata basata sui cosiddetti “piani quinquennali”, che davano la preminenza assoluta all’industria pesante. Per consolidare
la propria dittatura, negli anni ’30 lanciò una campagna di epurazione contro i “nemici del popolo”, nel partito, nell’amministrazione statale e nell’esercito. Gli oppositori furono eliminati fisicamente o rinchiusi nei campi di lavoro forzato, i gulag.
Stalin e il “socialismo in un solo Paese”
Con la morte di Lenin nel 1924 la guida dell’Unione So- vietica fu assunta da una direzione collegiale composta da Trotzkij, Kamenev, Zinov’ev e Stalin. Nel PCUS iniziarono però forti contrasti che portarono al potere il georgiano Iosif Vissarionovic Stalin (1857-1953), già assistente di Le- nin e segretario del comitato centrale.
Nato a Gori, in Georgia, nel 1879, in gioventù Stalin era stato istruito in un seminario ortodosso, ma ben presto si era dedicato all’attività rivoluzionaria e fu più volte arrestato dalla polizia. Eletto nel 1912 nel Comitato Centrale del partito bolscevico, aveva poi svolto un ruolo seconda- rio durante la Rivoluzione d’Ottobre. Nel nuovo governo sovietico insediatosi nel 1917 era quindi stato nominato commissario del popolo alle nazionalità.
Tra il 1922, quando ormai le condizioni di salute di Lenin si erano aggravate, e il 1924 assunse progressivamente il controllo dell’apparato del partito. Nel 1924 conquistò la segreteria generale del partito, prevalendo su Trotzkij, il suo avversario più forte, grazie a un’alleanza di potere con Zinov’ev, presidente del Comintern, e con Kamenev, vicepresidente del consiglio. Nel 1925, quando Zinov’ev e Kamenev passarono dalla parte di Trotzkij, Stalin si alleò con la corrente di “destra” del partito incarnata da Nikolaj Bucharin, convinto sostenitore della Nuova Politica Eco- nomica (NEP, varata da Lenin nel 1921). In opposizione alla tesi trotzkista della “rivoluzione mondiale permanente”, Stalin si fece così sostenitore della strategia del socialismo “in un solo Paese”, cioè della possibilità di costruire il socialismo in Unione Sovietica anche senza il diffondersi della rivoluzione nel mondo; il movimento comunista in- ternazionale doveva quindi porsi come obiettivo primario la difesa del nuovo Stato sovietico.
Il regime stalinista
Espulso Trotzkij dal partito nel 1927 (e dall’Unione Sovietica nel 1929), tra il 1928 e il 1929 Stalin sconfisse anche Bucharin e i suoi compagni, imponendo una brusca accelerazione al processo rivoluzionario interno e, contemporaneamente, al consolidamento del regime e del proprio potere personale.
Abbandonata la politica di alleanza con i contadini stabilita dalla NEP, varò il primo “piano quinquennale” (1928-32), che prevedeva l’industrializzazione accelerata del Paese e la collettivizzazione forzata delle terre. Furono istituiti i sovchoz, aziende agricole coltivate direttamente da dipen- denti e funzionari statali, e fattorie cooperative, i kolchoz, in cui i membri potevano disporre di piccoli appezzamenti per uso personale. La resistenza dei contadini a entrare in queste fattorie fu vinta con la massima brutalità, special- mente nei confronti dei contadini piccoli proprietari, i ku- laki: centinaia di migliaia di contadini furono incarcerati, milioni furono deportati, innumerevoli quelli passati per le armi. Di conseguenza si registrò un crollo della produzione agricola (solo negli anni ’50 si ritornò agli indici precedenti la Prima guerra mondiale). Tra il 1932 e il 1933 una carestiaprovocò, soprattutto in Ucraina, la morte di circa 5 milioni di persone.
In campo industriale il primo piano quinquennale portò alla nazionalizzazione del 99% delle fabbriche. Con il piano successivo (1933-1937) l’URSS fu dotata di imponenti apparati industriali nei settori minerario, energetico e dei macchinari, gestiti da uffici di pianificazione centralizzata secondo criteri esasperatamente accentrati. In questi anni la produzione industriale crebbe del 121%. Un terzo piano quinquennale, destinato a sfociare nella realizzazione effettiva del comunismo, non potè essere varato a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale.
Per sostenere lo sforzo di modernizzazione, che andava trasformando radicalmente la struttura sociale del Paese, l’URSS strinse una serie di patti di amicizia e di non aggressione con le potenze occidentali (adesione alla Società delle Nazioni nel 1934), mentre all’interno si accentuò il carattere personalistico (culto della personalità) e repressivo del sistema di potere stalinista: tra il 1936 e il 1939 ogni forma di opposizione e di dissenso, reale o potenziale, venne cancellata assieme a tutti i vecchi esponenti bolscevichi e a gran parte dei quadri dell’industria di Stato e dell’esercito (le cosiddette “purghe” staliniane).
Nei campi di lavoro forzato, i gulag (acronimo di Glavnoye Upravleniye Lagerej, Amministrazione generale dei campi di lavoro), già istituiti nel 1919 e riservati inizialmente ai contadini che si opponevano alla collettivizzazione forzata delle campagne, furono rinchiusi decine di milioni di op- positori politici e di membri di gruppi etnici sospetti.
IL sIsTema repressIvo sovIeTIco
Se già dal 1923 al 1929 Stalin usò mez- zi dittatoriali e polizieschi per rafforzare il potere nelle proprie mani, dopo i succes- si dei piani quinquennali (e conquistato l’appoggio di milioni di comunisti sovie- tici che vedevano in lui il “capo infallibi- le”) intraprese una strategia del terrore contro gli avversari politici. Nel 1934 fu emanato un decreto per cui l’intera fami- glia di un “nemico del popolo” (opposi- tore del regime) poteva essere arrestata. Sempre nello stesso anno, dopo l’assassi- nio del segretario del partito di Leningra-
do, Kirov, polizia e tribunali ebbero la fa- coltà di agire al di fuori della legalità. Nel 1935 fu nominata una commissione per annientare i “nemici” interni al partito. Zi- nov’ev, Kamenev e Radek furono fucilati dopo confessioni estorte con la tortura. Nel 1937 fu ordinata un’epurazione nel- l’esercito. Nel 1938 Stalin fece arrestare e condannare Bucharin. Nel 1940 un si- cario uccise Trotzkij a Città del Messico, dove si era rifugiato. I protagonisti della Ri- voluzione d’Ottobre erano stati completa- mente annientati.
A partire dal 1926 furono soppressi i giornali antifascisti, sciolti i partiti, vietato lo sciopero e riconosciuto il solo sindacato fascista; furono anche istituite apposite località di confino per gli oppositori. I parlamentari non fascisti vennero privati del mandato. Fu anche creata una polizia politica (OVRA, Opera Vigilanza e Repressione Antifascismo) e istituito un tribunale speciale per la difesa dello Stato, con esponenti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) come collegio giudicante. Fu restaurata la pena di morte.
Il consolidamento del regime e la creazione dello Stato totalitario non comportarono l’annullamento dello Statuto albertino, che formalmente rimase in vigore, bensì un progressivo svuotamento delle funzioni del Parlamento: il capo del governo rispondeva del suo operato esclusiva- mente al re e il potere legislativo era esercitato di norma dal governo.
Mussolini accentuò la struttura autoritaria delle istituzioni emarginando anche i “ras” fascisti e gli squadristi della pri- ma ora e riducendo il ruolo politico del Partito Nazionale Fascista.
La società civile fu controllata in ogni sua manifestazione e le forme di opposizione drasticamente represse, anche se, con il passare del tempo e il con il consolidamento del regime crebbe in modo significativo il consenso, mobilitato da un amplissimo ed efficiente apparato di propaganda.
La soluzione dell’annosa questione romana attraverso i Patti Lateranensi (firmati l’11 febbraio 1929, riconoscevano alla Santa Sede lo Stato della Città del Vaticano, regolavano i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa e stabilivano una convenzione finanziaria) avvicinò al fascismo molti catto- lici, anche se i rapporti con la Santa Sede furono spesso difficili.
Il Corporativismo
Il corporativismo è una dottrina che si propone di organizzare la collettività attraverso associazioni rappresentative degli interessi professionali (corporazioni) e di eliminare, attenuare o neutralizzare per mezzo dell’intervento dello Stato i conflitti sociali. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX si era sviluppato un corporativismo di ispirazione cattolica, caratterizzato da un forte spirito solidarista e interclassista e da un fonda- mentale rifiuto dell’individualismo delle dottrine liberali.
Tra gli anni ’20 e ’40, all’interno del regime fascista si affermò invece un corporativismo “dirigista”, i cui principi generali vennero enunciati nel 1927 dalla Carta del lavoro e istituzionalizzati tra il 1934, con la creazione delle corporazioni (che raggruppavano imprenditori e lavoratori delle diverse categorie), e il 1939, con l’istituzione della camera dei Fasci e del- le corporazioni. Il corporativismo fascista fornì l’esempio (opposto a quello della tradizione cattolica, secondo cui rappresentava potenzialmente una forma di anti-Stato) di associazioni professionali strettamente subordinate allo Stato e capaci al tempo stesso di farsi strumento di controllo politico.
La politica economica
In economia, al liberismo durato fino al 1925 successe l’interventismo statale a sostegno dell’industria. Nel 1927 venne rivalutata la lira (fu fissata a quota 90 la parità con una sterlina) e dopo la crisi del 1929 si avviarono grandi opere pubbliche. Per sostenere le imprese nacquero l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI, 1931,) e l’Istituto di Rico- struzione Industriale (IRI 1933). Dal 1934 fu avviata una politica economica autarchica, tesa a raggiungere una crescente indipendenza rispetto all’estero, riducendo le importazioni e aumentando le esportazioni.
L’ideologia fascista si consolidò in senso nazionalista, corporativo, ma anche ruralista e familista (con piani di boni- fica e una politica di espansione demografica): nell’esaltazione della novità dell’uomo fascista e della sua sintesi vitale attivista e volitiva furono così travasati i valori tradi- zionali della società borghese.
I primi passi in politica estera
Nel corso degli anni ’20 Mussolini perseguì una politica estera piuttosto cauta e di impostazione filobritannica. Nel 1924 il Patto di Roma con la Iugoslavia portò Fiume all’Italia mentre nel 1927 Mussolini impose sull’Albania una sorta di protettorato politico-economico.
Tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 l’Italia avviò un’azione diplomatica antifrancese nell’area danubiano- balcanica, appoggiando il revisionismo di Austria e Ungheria (sfociato nel 1934 nel cosiddetto Patto a Tre).
Il fascismo è stato l’elemento caratterizzante della storia italiana dagli anni immediatamente successivi alla fine della Prima guerra mondiale fino al 1945. Fondato da Benito Mussolini, già esponente socialista espulso dal partito per le sue posizioni interventiste e propugnatore di vaghe idee su un nuovo assetto sociale estraneo al conflitto di classe, il movimento fascista
si caratterizzò per lo spirito fortemente nazionalista e per un attivismo che
si proponeva come alternativo alla debolezza dei governi liberali. Capace
di intercettare gli umori di ampi strati della borghesia, preoccupati dal sovversivismo socialista e sindacale dell’immediato dopoguerra, si trasformò da movimento rivoluzionario dominato dalle formazioni squadriste in partito d’ordine. Con la marcia su Roma, nell’ottobre del 1922, le istituzioni e la monarchia cedettero alle pressioni delle camice nere e Mussolini fu incaricato di formare il governo. Da quel momento il regime si sarebbe progressivamente consolidato, prima attraverso le intimidazioni durante la campagna elettorale del 1924, conclusesi con l’assassinio Matteotti, poi con una completa svolta autoritaria a partire dal 1925, che comportò l’abolizione dei partiti, la censura sulla stampa, il divieto di sciopero e l’istituzione di una polizia politica segreta. Grazie a uno spregiudicato impiego della propaganda, negli anni ’30 il regime riuscì a veicolare nei suoi confronti anche un diffuso consenso.
Dalla fondazione dei Fasci al 1922
Nel 1919 Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento, una formazione politica che raccoglieva interventisti rivoluzionari, ex combattenti (soprattutto arditi), futuristi, repubblicani e anarcosindacalisti, accomunati dalla richiesta di una politica estera più “dinamica” e da istanze di rinnovamento sociale. Immaginato da Mussolini come polo di riferimento per la sinistra interventista, nei mesi successivi il movimento apparve però vitale solo a Milano, dove alle elezioni del 1919 subì comunque una bruciante sconfitta.
Mussolini non scomparve tuttavia dalla scena politica, grazie al sostegno portato all’impresa di D’Annunzio a Fiume e alla ripresa di parole d’ordine nazionalistiche di facile presa nell’atmosfera della “vittoria mutilata”. Il fascismo rivoluzionario delle origini si trasformava intanto in una for mazione impegnata a ripristinare l’ordine sociale turbato
dal sovversivismo socialista: nelle campagne dell’Emilia e della Bassa Padana si sviluppò un fascismo agrario, finanziato dai proprietari terrieri, basato su Squadre d’Azione che realizzavano spedizioni punitive nei confronti delle organizzazioni politiche sindacali e delle cooperative socialiste e popolari. Anche i ceti medi cittadini colpiti dall’incertezza del dopoguerra individuarono nel fascismo lo strumento adatto per riprendere nella società italiana quel ruolo che le vicende del “biennio rosso” avevano fatto perdere loro. Per parte sua, lo Stato liberale si limitò a cercare di incanalare nell’ambito istituzionale il movimento fascista, nella speranza di limitarne le manifestazioni violente e contenerne la spinta eversiva.
Mussolini giocò abilmente su questo tentativo di recupero legalitario del movimento (ad esempio, proclamando ufficialmente l’accettazione della monarchia), tanto che nell’aprile del 1921 fu eletto in Parlamento con altri 34 deputati, inseriti da Giolitti nelle liste dei “blocchi nazionali” varate per contrastare l’ascesa dei socialisti e dei popolari. Stipulato un trattato di pacificazione con le sinistre (3 agosto 1921) per la cessazione delle violenze squadriste, e cambiato nome al movimento (che ormai contava circa 300 000 iscritti) in Partito Nazionale Fascista (durante il Congresso di Roma del novembre 1921), Mussolini dedicò i suoi sforzi alla conquista del potere, cercando un recupero legalitario del movimento. Caduto il governo Giolitti (giugno 1921), perché le recenti elezioni non avevano dato la maggioranza sperata allo statista piemontese, il regime liberale appariva in piena crisi. Il governo fu affidato prima a Ivanoe Bonomi e poi a Luigi Facta, stretto colla- boratore di Giolitti. Sulla scia dell’esaurimento dei moti operai anche le sinistre erano profondamente divise tra socialisti massimalisti, comunisti e socialisti unitari.
La marcia su Roma
I fascisti ruppero quindi gli indugi e al congresso di Napoli (24 ottobre 1922) Mussolini diede il via alla marcia su Roma per reclamare responsabilità di governo. Provenienti da tutta Italia, le squadre fasciste, organizzate dai “quadrumviri” Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Carlo Maria De Vecchi, si diressero il 28 ottobre verso la capitale con l’intenzione di far cadere il governo Facta. Il re rifiutò di firmare il decreto per lo Stato d’assedio e la pressione sulle istituzioni si concretizzò nella nomina di Mussolini a capo del governo, il 30 ottobre 1922.
Il fascismo al potere
Mussolini formò un governo di coalizione con popolari, nazionalisti, democratico-sociali, esponenti delle forze armate e indipendenti; per mantenere i contatti tra il suo partito e il governo, istituì il Gran Consiglio del Fascismo (dicembre 1922), un organo che aveva lo scopo di propor- re le leggi costituzionali, di formare la lista dei candidati designati alla Camera e di definire le cariche nel partito. Mussolini riuscì a dimostrare di saper normalizzare la si- tuazione mantenendo il controllo sulle Squadre d’Azione e inserendo gli organismi fascisti nella struttura dello Stato. Fuso il PNF con i partiti nazionalisti, creata una forza di polizia di parte trasformando le Squadre d’Azione in Mili- zie Volontarie per la Sicurezza Nazionale (1923) e fatta approvare una nuova legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo), il cosiddetto “listone” fascista (comprendente alcuni dei maggiori nomi della classe dirigente liberale) ottenne alle elezioni del 1924 un clamoroso successo.
La campagna elettorale e le operazioni di voto si tennero però in un clima di violenza, denunciato alla Camera da Giacomo Matteotti, segretario del PSU (Partito Socialista Unitario, nato nel 1922 per iniziativa di Filippo Turati, espulso dal PSI con altri riformisti). Per questa sua denun- cia Matteotti fu rapito e ucciso da sicari fascisti il 10 giugno 1924. Le opposizioni protestarono ritirandosi dall’assemblea e dando vita alla secessione dell’Aventino. La vicenda si chiuse il 3 gennaio 1925: Mussolini, ormai certo di avere in pugno il Parlamento, assunse alla Camera la responsabilità dell’accaduto, liquidando sostanzialmente se non formalmente le libertà statutarie e avviando quella svolta autoritaria che doveva liberarlo definitivamente delle op- posizioni. Furono progressivamente introdotte leggi che attribuivano ampi poteri al capo del governo e che privavano il Parlamento delle sue funzioni. Molti oppositori, tra cui Don Sturzo, Nitti ed esponenti di sinistra lasciarono l’Italia minacciati dalle intimidazioni del regime.
La secessione dell’Aventino
Il termine “Aventino” fu la denominazione assunta dalle opposizioni antifasciste che disertarono le sedute parlamentari all’indomani del rapimento del deputato socialista riformista Giacomo Matteotti (giugno 1924), invocando lo scioglimento della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e il ristabilimento dell’autorità della legge.
L’intenzione degli aventiniani era quella di indebolire il governo fascista impedendone l’attività parlamentare e costringerlo così alle dimissioni. Non tutti gli esponenti dell’antifascismo si dimostrarono però d’accordo:
i comunisti si dissociarono dall’Aventino considerandolo una rinuncia alla lotta contro il regime.
Nonostante una vivace campagna della stampa dell’opposizione e nonostante le difficoltà di Mussolini dopo la scoperta dell’assassinio di Matteotti (il corpo del deputato sarà rinvenuto due mesi dopo il rapimento), l’indifferenza del re Vittorio Emanuele III, l’irresolutezza degli aventiniani e il miglioramento della situazione economica consentirono al governo di ri- prendere in mano la situazione e di eliminare in breve ogni opposizione.
Dopo la fuga dell’imperatore Guglielmo II in Olanda (10 novembre 1918), si formò in Germania un governo repubblicano composto da socialdemocratici moderati e indipendenti. Il 30 dicembre Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fondarono il Partito Comunista Tedesco con lo scopo di attuare la rivoluzione proletaria. Il tentativo insurrezionale a Berlino, il cosiddetto moto spartachista, fallì e il 15 gennaio 1919 i due esponenti comunisti furono assassinati a opera di alcuni ufficiali dell’esercito.
Le elezioni per l’Assemblea costituente (19 gennaio) diedero la maggioranza relativa al partito socialdemocratico (30% dei voti); il socialdemocratico Friedrich Ebert fu nominato presidente della repubblica, mentre il governo fu composto da una coalizione di socialdemocratici, cattolici e liberali. Il 6 febbraio seguente l’assise si riunì a Weimar (da qui il nome dato alla Repubblica) approntando una costituzione (11 aprile 1919) che trasformava la Germania in Repubblica federale, affidando al presidente rilevanti poteri (nomina del cancelliere, sospensione delle garanzie costituzionali in casi eccezionali).
Nel Paese, sull’onda dell’indignazione suscitata dalle pe- santi condizioni di pace imposte a Versailles, si era intanto diffusa una forte ondata di nazionalismo con caratteristi- che antiparlamentari e anticomuniste: il 5 gennaio 1919 era nato il Partito Operaio Tedesco (cui nel luglio aderì l’ex ca- porale Adolf Hitler) che nell’agosto del 1920 si trasformò in Partito Nazionalsocialista Operaio Tedesco (di cui Hitler assunse poi il controllo). Figlio del solidarismo nazionale e di primitive pulsioni razziali, il Partito Nazionalsocialista si diede come obiettivo la revisione del trattato di pace.
La questione delle riparazioni di guerra provocò aspre tensioni tra il 1921 e il 1923. Fissate nell’astronomica cifra di 132 miliardi di marchi oro, esse suscitarono lo sgomento di tutti i partiti politici. Di fronte alla riluttanza tedesca a pagare, i Francesi invasero la Ruhr (1923) determinando la resistenza passiva dei lavoratori e il crollo del marco tedesco. Nel 1923 il rapporto dollaro-marco era 1 a 4 200 000 000 000. Nell’agosto del 1923 il governo fu affidato al leader del Partito Popo- lare Gustav Stresemann, che pose fine al contenzioso con la Francia, ridimensionò i comunisti e colpì l’estrema destra: represse infatti la rivolta comunista di Amburgo (23 ottobre) e un tentativo di putsch dei nazionalsocialisti a Monaco (8-9 novembre) che lo accusavano di cedimento verso la Francia. In ambito economico introdusse il Rentenmark, una moneta garantita da un’ipoteca sui beni industriali e agricoli tedeschi. Ma tra il 1929 e il 1932 lo scoppio della crisi economica mon- diale annullò i benefici di questa stabilizzazione e riaccese le tensioni sociali.
Nel 1920 Giolitti fu richiamato al potere (giugno 1920- luglio 1921), coinvolgendo nella maggioranza liberali e democratici, cattolici e socialisti riformisti. Lasciò sfogare le agitazioni rivoluzionarie come l’occupazione delle fabbriche a Torino (1920) e l’occupazione contadina di terre demaniali nel Sud, ma tollerò anche le violenze antisocialiste di squadre fasciste, cui venivano contrapposte “guardie rosse” e “avanguardie” di giovani cattolici.
In politica estera Giolitti stipulò il Trattato di Rapallo con la Iugoslavia, riconoscendo Fiume come “Città libera” (1920; un successivo compromesso nel 1924 assegnerà la città all’Italia e il territorio circostante alla Iugoslavia). Le elezioni del 1921 delusero però le speranze di Giolitti di assicurarsi una maggioranza con nazionalisti e fascisti: socialisti e po- polari infatti erano ritornati alla Camera con la stessa forza e le stesse esigenze.
Sull’onda emotiva suscitata dal bolscevismo in Russia, la direzione del PSI passò all’ala massimalista rivoluzionaria, guidati da Giacinto Menotti Serrati (1919). In quell’anno i lavoratori iniziarono un’ondata di scioperi contro il carovita che culminò, in estate, in saccheggi diffusi e nell’occupazione delle terre incolte del Meridione da parte dei contadini. Nel 1920 gravi episodi di protesta si verificarono nelle fabbriche. Dopo il rifiuto dei proprietari di concedere aumenti salariali, i metallurgici (aderenti al sindacato FIOM) occuparono gli stabilimenti (30 agosto). I presupposti per avviare la rivoluzione proletaria c’erano, ma i socialisti, di concerto con i sindacati, non si assunsero la responsabilità di innescare il processo. Fu così che il presidente del consiglio Giolitti risolse la situazione proponendo un piano di “controllo operaio” sulle aziende: progetto approvato, ma mai attuato.