un orrore senza fine

Mese: Febbraio 2020 (page 2 of 2)

Lo Stato Fascista

A partire dal 1926 furono soppressi i giornali antifascisti, sciolti i partiti, vietato lo sciopero e riconosciuto il solo sindacato fascista; furono anche istituite apposite località di confino per gli oppositori. I parlamentari non fascisti vennero privati del mandato. Fu anche creata una polizia politica (OVRA, Opera Vigilanza e Repressione Antifascismo) e istituito un tribunale speciale per la difesa dello Stato, con esponenti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) come collegio giudicante. Fu restaurata la pena di morte.

Il consolidamento del regime e la creazione dello Stato totalitario non comportarono l’annullamento dello Statuto albertino, che formalmente rimase in vigore, bensì un progressivo svuotamento delle funzioni del Parlamento: il capo del governo rispondeva del suo operato esclusiva- mente al re e il potere legislativo era esercitato di norma dal governo.

Mussolini accentuò la struttura autoritaria delle istituzioni emarginando anche i “ras” fascisti e gli squadristi della pri- ma ora e riducendo il ruolo politico del Partito Nazionale Fascista.

La società civile fu controllata in ogni sua manifestazione e le forme di opposizione drasticamente represse, anche se, con il passare del tempo e il con il consolidamento del regime crebbe in modo significativo il consenso, mobilitato da un amplissimo ed efficiente apparato di propaganda.

La soluzione dell’annosa questione romana attraverso i Patti Lateranensi (firmati l’11 febbraio 1929, riconoscevano alla Santa Sede lo Stato della Città del Vaticano, regolavano i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa e stabilivano una convenzione finanziaria) avvicinò al fascismo molti catto- lici, anche se i rapporti con la Santa Sede furono spesso difficili.

Il Corporativismo

Il corporativismo è una dottrina che si propone di organizzare la collettività attraverso associazioni rappresentative degli interessi professionali (corporazioni) e di eliminare, attenuare o neutralizzare per mezzo dell’intervento dello Stato i conflitti sociali. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX si era sviluppato un corporativismo di ispirazione cattolica, caratterizzato da un forte spirito solidarista e interclassista e da un fonda- mentale rifiuto dell’individualismo delle dottrine liberali.

Tra gli anni ’20 e ’40, all’interno del regime fascista si affermò invece un corporativismo “dirigista”, i cui principi generali vennero enunciati nel 1927 dalla Carta del lavoro e istituzionalizzati tra il 1934, con la creazione delle corporazioni (che raggruppavano imprenditori e lavoratori delle diverse categorie), e il 1939, con l’istituzione della camera dei Fasci e del- le corporazioni. Il corporativismo fascista fornì l’esempio (opposto a quello della tradizione cattolica, secondo cui rappresentava potenzialmente una forma di anti-Stato) di associazioni professionali strettamente subordinate allo Stato e capaci al tempo stesso di farsi strumento di controllo politico.

La politica economica
In economia, al liberismo durato fino al 1925 successe l’interventismo statale a sostegno dell’industria. Nel 1927 venne rivalutata la lira (fu fissata a quota 90 la parità con una sterlina) e dopo la crisi del 1929 si avviarono grandi opere pubbliche. Per sostenere le imprese nacquero l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI, 1931,) e l’Istituto di Rico- struzione Industriale (IRI 1933). Dal 1934 fu avviata una politica economica autarchica, tesa a raggiungere una crescente indipendenza rispetto all’estero, riducendo le importazioni e aumentando le esportazioni.
L’ideologia fascista si consolidò in senso nazionalista, corporativo, ma anche ruralista e familista (con piani di boni- fica e una politica di espansione demografica): nell’esaltazione della novità dell’uomo fascista e della sua sintesi vitale attivista e volitiva furono così travasati i valori tradi- zionali della società borghese.

I primi passi in politica estera
Nel corso degli anni ’20 Mussolini perseguì una politica estera piuttosto cauta e di impostazione filobritannica. Nel 1924 il Patto di Roma con la Iugoslavia portò Fiume all’Italia mentre nel 1927 Mussolini impose sull’Albania una sorta di protettorato politico-economico.
Tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 l’Italia avviò un’azione diplomatica antifrancese nell’area danubiano- balcanica, appoggiando il revisionismo di Austria e Ungheria (sfociato nel 1934 nel cosiddetto Patto a Tre).

L’ITALIA FASCISTA

Il fascismo è stato l’elemento caratterizzante della storia italiana dagli anni immediatamente successivi alla fine della Prima guerra mondiale fino al 1945. Fondato da Benito Mussolini, già esponente socialista espulso dal partito per le sue posizioni interventiste e propugnatore di vaghe idee su un nuovo assetto sociale estraneo al conflitto di classe, il movimento fascista

si caratterizzò per lo spirito fortemente nazionalista e per un attivismo che
si proponeva come alternativo alla debolezza dei governi liberali. Capace
di intercettare gli umori di ampi strati della borghesia, preoccupati dal sovversivismo socialista e sindacale dell’immediato dopoguerra, si trasformò da movimento rivoluzionario dominato dalle formazioni squadriste in partito d’ordine. Con la marcia su Roma, nell’ottobre del 1922, le istituzioni e la monarchia cedettero alle pressioni delle camice nere e Mussolini fu incaricato di formare il governo. Da quel momento il regime si sarebbe progressivamente consolidato, prima attraverso le intimidazioni durante la campagna elettorale del 1924, conclusesi con l’assassinio Matteotti, poi con una completa svolta autoritaria a partire dal 1925, che comportò l’abolizione dei partiti, la censura sulla stampa, il divieto di sciopero e l’istituzione di una polizia politica segreta. Grazie a uno spregiudicato impiego della propaganda, negli anni ’30 il regime riuscì a veicolare nei suoi confronti anche un diffuso consenso.

Dalla fondazione dei Fasci al 1922

Nel 1919 Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento, una formazione politica che raccoglieva interventisti rivoluzionari, ex combattenti (soprattutto arditi), futuristi, repubblicani e anarcosindacalisti, accomunati dalla richiesta di una politica estera più “dinamica” e da istanze di rinnovamento sociale. Immaginato da Mussolini come polo di riferimento per la sinistra interventista, nei mesi successivi il movimento apparve però vitale solo a Milano, dove alle elezioni del 1919 subì comunque una bruciante sconfitta.

Mussolini non scomparve tuttavia dalla scena politica, grazie al sostegno portato all’impresa di D’Annunzio a Fiume e alla ripresa di parole d’ordine nazionalistiche di facile presa nell’atmosfera della “vittoria mutilata”. Il fascismo rivoluzionario delle origini si trasformava intanto in una for mazione impegnata a ripristinare l’ordine sociale turbato

dal sovversivismo socialista: nelle campagne dell’Emilia e della Bassa Padana si sviluppò un fascismo agrario, finanziato dai proprietari terrieri, basato su Squadre d’Azione che realizzavano spedizioni punitive nei confronti delle organizzazioni politiche sindacali e delle cooperative socialiste e popolari. Anche i ceti medi cittadini colpiti dall’incertezza del dopoguerra individuarono nel fascismo lo strumento adatto per riprendere nella società italiana quel ruolo che le vicende del “biennio rosso” avevano fatto perdere loro. Per parte sua, lo Stato liberale si limitò a cercare di incanalare nell’ambito istituzionale il movimento fascista, nella speranza di limitarne le manifestazioni violente e contenerne la spinta eversiva.

Mussolini giocò abilmente su questo tentativo di recupero legalitario del movimento (ad esempio, proclamando ufficialmente l’accettazione della monarchia), tanto che nell’aprile del 1921 fu eletto in Parlamento con altri 34 deputati, inseriti da Giolitti nelle liste dei “blocchi nazionali” varate per contrastare l’ascesa dei socialisti e dei popolari. Stipulato un trattato di pacificazione con le sinistre (3 agosto 1921) per la cessazione delle violenze squadriste, e cambiato nome al movimento (che ormai contava circa 300 000 iscritti) in Partito Nazionale Fascista (durante il Congresso di Roma del novembre 1921), Mussolini dedicò i suoi sforzi alla conquista del potere, cercando un recupero legalitario del movimento. Caduto il governo Giolitti (giugno 1921), perché le recenti elezioni non avevano dato la maggioranza sperata allo statista piemontese, il regime liberale appariva in piena crisi. Il governo fu affidato prima a Ivanoe Bonomi e poi a Luigi Facta, stretto colla- boratore di Giolitti. Sulla scia dell’esaurimento dei moti operai anche le sinistre erano profondamente divise tra socialisti massimalisti, comunisti e socialisti unitari.

La marcia su Roma
I fascisti ruppero quindi gli indugi e al congresso di Napoli (24 ottobre 1922) Mussolini diede il via alla marcia su Roma per reclamare responsabilità di governo. Provenienti da tutta Italia, le squadre fasciste, organizzate dai “quadrumviri” Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Carlo Maria De Vecchi, si diressero il 28 ottobre verso la capitale con l’intenzione di far cadere il governo Facta. Il re rifiutò di firmare il decreto per lo Stato d’assedio e la pressione sulle istituzioni si concretizzò nella nomina di Mussolini a capo del governo, il 30 ottobre 1922.

Il fascismo al potere

Mussolini formò un governo di coalizione con popolari, nazionalisti, democratico-sociali, esponenti delle forze armate e indipendenti; per mantenere i contatti tra il suo partito e il governo, istituì il Gran Consiglio del Fascismo (dicembre 1922), un organo che aveva lo scopo di propor- re le leggi costituzionali, di formare la lista dei candidati designati alla Camera e di definire le cariche nel partito. Mussolini riuscì a dimostrare di saper normalizzare la si- tuazione mantenendo il controllo sulle Squadre d’Azione e inserendo gli organismi fascisti nella struttura dello Stato. Fuso il PNF con i partiti nazionalisti, creata una forza di polizia di parte trasformando le Squadre d’Azione in Mili- zie Volontarie per la Sicurezza Nazionale (1923) e fatta approvare una nuova legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo), il cosiddetto “listone” fascista (comprendente alcuni dei maggiori nomi della classe dirigente liberale) ottenne alle elezioni del 1924 un clamoroso successo.

La campagna elettorale e le operazioni di voto si tennero però in un clima di violenza, denunciato alla Camera da Giacomo Matteotti, segretario del PSU (Partito Socialista Unitario, nato nel 1922 per iniziativa di Filippo Turati, espulso dal PSI con altri riformisti). Per questa sua denun- cia Matteotti fu rapito e ucciso da sicari fascisti il 10 giugno 1924. Le opposizioni protestarono ritirandosi dall’assemblea e dando vita alla secessione dell’Aventino. La vicenda si chiuse il 3 gennaio 1925: Mussolini, ormai certo di avere in pugno il Parlamento, assunse alla Camera la responsabilità dell’accaduto, liquidando sostanzialmente se non formalmente le libertà statutarie e avviando quella svolta autoritaria che doveva liberarlo definitivamente delle op- posizioni. Furono progressivamente introdotte leggi che attribuivano ampi poteri al capo del governo e che privavano il Parlamento delle sue funzioni. Molti oppositori, tra cui Don Sturzo, Nitti ed esponenti di sinistra lasciarono l’Italia minacciati dalle intimidazioni del regime.

La secessione dell’Aventino

Il termine “Aventino” fu la denominazione assunta dalle opposizioni antifasciste che disertarono le sedute parlamentari all’indomani del rapimento del deputato socialista riformista Giacomo Matteotti (giugno 1924), invocando lo scioglimento della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e il ristabilimento dell’autorità della legge.

L’intenzione degli aventiniani era quella di indebolire il governo fascista impedendone l’attività parlamentare e costringerlo così alle dimissioni. Non tutti gli esponenti dell’antifascismo si dimostrarono però d’accordo:

i comunisti si dissociarono dall’Aventino considerandolo una rinuncia alla lotta contro il regime.
Nonostante una vivace campagna della stampa dell’opposizione e nonostante le difficoltà di Mussolini dopo la scoperta dell’assassinio di Matteotti (il corpo del deputato sarà rinvenuto due mesi dopo il rapimento), l’indifferenza del re Vittorio Emanuele III, l’irresolutezza degli aventiniani e il miglioramento della situazione economica consentirono al governo di ri- prendere in mano la situazione e di eliminare in breve ogni opposizione.

La Germania

Dopo la fuga dell’imperatore Guglielmo II in Olanda (10 novembre 1918), si formò in Germania un governo repubblicano composto da socialdemocratici moderati e indipendenti. Il 30 dicembre Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fondarono il Partito Comunista Tedesco con lo scopo di attuare la rivoluzione proletaria. Il tentativo insurrezionale a Berlino, il cosiddetto moto spartachista, fallì e il 15 gennaio 1919 i due esponenti comunisti furono assassinati a opera di alcuni ufficiali dell’esercito.

Le elezioni per l’Assemblea costituente (19 gennaio) diedero la maggioranza relativa al partito socialdemocratico (30% dei voti); il socialdemocratico Friedrich Ebert fu nominato presidente della repubblica, mentre il governo fu composto da una coalizione di socialdemocratici, cattolici e liberali. Il 6 febbraio seguente l’assise si riunì a Weimar (da qui il nome dato alla Repubblica) approntando una costituzione (11 aprile 1919) che trasformava la Germania in Repubblica federale, affidando al presidente rilevanti poteri (nomina del cancelliere, sospensione delle garanzie costituzionali in casi eccezionali).

Nel Paese, sull’onda dell’indignazione suscitata dalle pe- santi condizioni di pace imposte a Versailles, si era intanto diffusa una forte ondata di nazionalismo con caratteristi- che antiparlamentari e anticomuniste: il 5 gennaio 1919 era nato il Partito Operaio Tedesco (cui nel luglio aderì l’ex ca- porale Adolf Hitler) che nell’agosto del 1920 si trasformò in Partito Nazionalsocialista Operaio Tedesco (di cui Hitler assunse poi il controllo). Figlio del solidarismo nazionale e di primitive pulsioni razziali, il Partito Nazionalsocialista si diede come obiettivo la revisione del trattato di pace.

La questione delle riparazioni di guerra provocò aspre tensioni tra il 1921 e il 1923. Fissate nell’astronomica cifra di 132 miliardi di marchi oro, esse suscitarono lo sgomento di tutti i partiti politici. Di fronte alla riluttanza tedesca a pagare, i Francesi invasero la Ruhr (1923) determinando la resistenza passiva dei lavoratori e il crollo del marco tedesco. Nel 1923 il rapporto dollaro-marco era 1 a 4 200 000 000 000. Nell’agosto del 1923 il governo fu affidato al leader del Partito Popo- lare Gustav Stresemann, che pose fine al contenzioso con la Francia, ridimensionò i comunisti e colpì l’estrema destra: represse infatti la rivolta comunista di Amburgo (23 ottobre) e un tentativo di putsch dei nazionalsocialisti a Monaco (8-9 novembre) che lo accusavano di cedimento verso la Francia. In ambito economico introdusse il Rentenmark, una moneta garantita da un’ipoteca sui beni industriali e agricoli tedeschi. Ma tra il 1929 e il 1932 lo scoppio della crisi economica mon- diale annullò i benefici di questa stabilizzazione e riaccese le tensioni sociali.

L’ultimo governo Giolitti

Nel 1920 Giolitti fu richiamato al potere (giugno 1920- luglio 1921), coinvolgendo nella maggioranza liberali e democratici, cattolici e socialisti riformisti. Lasciò sfogare le agitazioni rivoluzionarie come l’occupazione delle fabbriche a Torino (1920) e l’occupazione contadina di terre demaniali nel Sud, ma tollerò anche le violenze antisocialiste di squadre fasciste, cui venivano contrapposte “guardie rosse” e “avanguardie” di giovani cattolici.
In politica estera Giolitti stipulò il Trattato di Rapallo con la Iugoslavia, riconoscendo Fiume come “Città libera” (1920; un successivo compromesso nel 1924 assegnerà la città all’Italia e il territorio circostante alla Iugoslavia). Le elezioni del 1921 delusero però le speranze di Giolitti di assicurarsi una maggioranza con nazionalisti e fascisti: socialisti e po- polari infatti erano ritornati alla Camera con la stessa forza e le stesse esigenze.

Il “BIENNIO ROSSO” e LA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO

Sull’onda emotiva suscitata dal bolscevismo in Russia, la direzione del PSI passò all’ala massimalista rivoluzionaria, guidati da Giacinto Menotti Serrati (1919). In quell’anno i lavoratori iniziarono un’ondata di scioperi contro il carovita che culminò, in estate, in saccheggi diffusi e nell’occupazione delle terre incolte del Meridione da parte dei contadini. Nel 1920 gravi episodi di protesta si verificarono nelle fabbriche. Dopo il rifiuto dei proprietari di concedere aumenti salariali, i metallurgici (aderenti al sindacato FIOM) occuparono gli stabilimenti (30 agosto). I presupposti per avviare la rivoluzione proletaria c’erano, ma i socialisti, di concerto con i sindacati, non si assunsero la responsabilità di innescare il processo. Fu così che il presidente del consiglio Giolitti risolse la situazione proponendo un piano di “controllo operaio” sulle aziende: progetto approvato, ma mai attuato.

PREMESSE ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

ITALIA

La conclusione della Prima guerra mondiale segnò anche la fine
di quell’egemonia europea che aveva raggiunto il culmine all’inizio del XX secolo. La leadership dei Paesi industrializzati passò infatti agli Stati Uniti.
Nel 1919, dopo la fine delle ostilità, le economie dei Paesi coinvolti nel conflitto stentavano a riprendersi, tanto più che la guerra aveva provocato la morte
di milioni di giovani vite e modificato la geografia politica dell’Europa.
I trattati di pace siglati dopo la conferenza di Parigi, invece di risolvere
i contenziosi riuscirono a provocare il malcontento di vincitori e vinti.
In Italia, il mancato accoglimento delle pretese sulla Dalmazia e sui Balcani suscitò il mito della “vittoria mutilata”; la Francia temeva una possibile ripresa dell’imperialismo tedesco; l’Inghilterra osservava il lento declino del suo prestigio internazionale. Le clausole della Pace di Versailles suscitarono un forte risentimento soprattutto in Germania, dove furono interpretate come
un 
diktat volto a marginalizzare il ruolo del Paese tra le grandi potenze.

L’Italia dalla “vittoria mutilata” a Giolitti

Il dopoguerra italiano presentava con particolare accentuazione i problemi e le tensioni degli altri Paesi europei, usciti come l’Italia dalla guerra spossati, delusi, ansiosi: i reduci stentavano a riadattarsi alla vita civile, la riconversione delle industrie di guerra in industrie di pace era ardua, il bilancio era appesantito dai debiti di guerra e dall’onere del prezzo politico del pane. Le istituzioni, monarchia, governo, Parlamento, polizia, amministrazione pubblica, avevano perduto prestigio e fiducia.

Dopo il conflitto mondiale, a causa delle ridotte ricom- pense territoriali ottenute in Istria e Dalmazia, si diffuse in Italia il mito della “vittoria mutilata” che indusse Gabriele D’Annunzio a occupare, alla guida di un gruppo di volontari, la città di Fiume (12 settembre 1919).

Intanto, la situazione interna si complicava anche per gli effetti di una pesante crisi economica. La piccola e media borghesia, a causa della forte inflazione, vedeva dissolvere i propri risparmi.

I contadini (piccoli proprietari e braccianti) erano costretti a lavorare duramente per modesti compensi. Gli operai, organizzati nei sindacati, erano riusciti a strappare miglioramenti salariali. I grandi gruppi industriali si erano invece rafforzati sul piano finanziario.
I vecchi partiti si stavano logorando a tutto vantaggio di nuove formazioni che si ponevano su posizioni critiche rispetto al sistema economico-sociale. Di fronte alla conti- nua ascesa socialista – nonostante le tensioni interne tra riformisti, massimalisti e comunisti, sfociate nella nascita del Partito Comunista d’Italia nel 1921 –, la Chiesa acconsentì nel 1919 alla fondazione di un partito cattolico democrati- co, il Partito Popolare Italiano (PPI), guidato da Don Luigi Sturzo. Ad esso aderirono i piccoli proprietari contadini che auspicavano la ridistribuzione delle terre.

Nel marzo 1919, con la fondazione dei Fasci di combattimento a opera di Benito Mussolini (ex socialista e direttore de “Il popolo d’Italia”), che incarnavano il malcontento della piccola-borghesia e il risentimento degli ex combattenti, compariva un movimento destinato a diventare in breve tempo il protagonista del panorama politico italiano. L’Italia liberale entrò così in piena crisi. Al governo Orlando, caduto nel giugno 1919 per non aver ottenuto i risultati sperati alla Conferenza di pace di Versailles, fece seguito un gabinetto presieduto da Francesco Saverio Nitti (giugno 1919-giugno 1920), forte di una più larga partecipazione di cattolici e socialisti riformisti ma assillato, oltre che dal- la questione di Fiume, da agitazioni operaie e contadine (occupazione delle terre). Alle elezioni del novembre 1919 i liberali persero la maggioranza, scalzati dal grande successo di socialisti e popolari.