Ilìade (gr. ‘Ιλιάς) Titolo con cui è indicato, già in Erodoto (II, 116), uno dei due grandi poemi (Iliade e Odissea) attribuiti dalla tradizione ad Omero (in origine ἰλιάς è aggettivo e significa “d’Ilo, di Troia”, sicché doveva sottintendersi un sostantivo: ἡ ἰλιὰς ποίησις o sim.). L’Iliade ci è giunta in codici risalenti all’attività critica dei filologi alessandrini: sono 15.696 esametri, divisi – da Zenodoto – in 24 libri, contraddistinti con le 24 lettere maiuscole dell’alfabeto greco (le minuscole indicano invece i libri dell’Odissea; sicché ancora adesso, nell’uso filologico: B 150 = Iliade, II 150; β 150 = Odissea, II 150); ognuno dei libri è preceduto da uno o più titoletti (rapidissimi sommari del contenuto), alcuni dei quali sembrano attestare una articolazione in vari episodi precedente alla divisione in libri degli alessandrini, naturalmente imposta dalle necessità della recitazione rapsodica, forse in relazione col modo stesso di formarsi dei poemi omerici.
LA TRAMA
Il poema narra un breve episodio della guerra decennale che una coalizione di principi greci, sotto la guida d’Agamennone, avrebbe condotto contro la città di Troia per vendicare l’offesa fatta da Paride, figlio del re troiano Priamo, a Menelao col rapimento della moglie Elena. Tale guerra, secondo le ricerche archeologiche condotte nella Troade da H. Schliemann e W. Dörpfeld, avrebbe un fondamento storico nella distruzione della città, e precisamente del VI dei nove strati messi in luce dagli scavi (del VIIa, secondo W. Blegen), avvenuta circa il 1200 a. C.
L’azione si svolge in una cinquantina di giorni: Apollo, adirato contro Agamennone che ha negato al suo sacerdote Crise il riscatto della figlia Criseide, sua schiava, fa scoppiare una pestilenza nel campo greco; in una tempestosa assemblea Achille propone che Criseide sia resa al padre; Agamennone lo minaccia di rivalersi su di lui, portandogli via la schiava Briseide, e così fa infatti, mentre Achille si ritira dal combattimento. La madre di lui, Tetide, ottiene da Zeus la promessa di fare in modo che i Greci debbano dolersi della sua assenza (I).
Il giorno seguente Agamennone schiera l’esercito e, per metterlo alla prova, propone il ritorno in patria: i Greci aderiscono con troppo entusiasmo alla proposta e corrono verso le navi, a stento trattenuti da Ulisse, che batte il più riottoso di tutti, Tersite; rassegna dell’esercito, Catalogo delle navi (II).
Greci e Troiani decidono di dirimere la contesa con un duello tra Paride e Menelao; durante la tregua Elena, dall’alto delle mura, mostra ai vecchi troiani i vari eroi greci (teicoscopia); nel duello Paride sta per soccombere, ma Afrodite lo sottrae miracolosamente al combattimento (III).
La tregua, per volere di Atena, è rotta da Pandaro, che ferisce Menelao con una freccia; si riaccende la battaglia (IV),
nella quale Diomede dà prova del suo valore (Aristìa di Diomede V).
Ettore si reca in città per esortare la madre Ecuba a far voti e preghiere ad Atena; s’incontra con la moglie Andromaca (VI).
Tornato nel campo, rincuora i Troiani e si batte con Aiace Telamonio; il duello resta indeciso; tregua per il seppellimento dei morti (VII).
Gli dei, per volere di Zeus, si astengono dalla battaglia, che volge a favore dei Troiani (La battaglia interrotta VIII).
Un’ambasceria di Ulisse, Aiace, Fenice, cerca invano di placare l’ira di Achille (IX).
Durante la notte Ulisse e Diomede escono dal campo greco, s’incontrano col troiano Dolone, uscito anch’esso a esplorare, e da lui hanno notizie intorno alla disposizione del campo troiano; uccidono Dolone; uccidono Reso re dei Traci e ne rapiscono i cavalli (Dolonìa X).
La guerra procede con alterne vicende, ma in complesso è favorevole ai Troiani che respingono i Greci fin sotto le navi e sono sul punto di incendiarle (XI-XV).
Patroclo chiede e ottiene da Achille di vestirsi delle sue armi e, con esse entrato nel combattimento, restaura le sorti dei Greci, finché è ucciso da Ettore (Patroclìa XVI);
intorno al cadavere si accende la mischia; Menelao e Aiace riescono a sottrarlo ai Troiani, ma le armi restano a Ettore (XVII).
Achille decide di riprendere la lotta per vendicare l’amico Patroclo; per invito di Tetide, Efesto gli fabbrica nuove armi (XVIII).
Achille si riconcilia con Agamennone; rientra nella battaglia (XIX),
a cui partecipano ormai tutti gli dei (Teomachia XX);
lotta col fiume Xanto (XXI);
s’incontra con Ettore e l’uccide (XXII);
celebra riti funebri in onore di Patroclo (XXIII);
per dodici giorni strazia e tiene insepolto il cadavere di Ettore finché, per volere di Zeus, lo restituisce a Priamo, venuto segretamente nella sua tenda con l’aiuto di Ermete; il poema termina con la descrizione dei funerali e del compianto di Ettore (Riscatto di Ettore XXIV).
L’azione del poema, quale appare al lettore che a esso si accosti prescindendo dalla pur legittima istanza della cosiddetta “questione omerica”, è tutta imperniata nella tragica figura di Achille, l’eroe dall’impeto strenuo e dal doloroso destino, e segue la parabola della sua μῆνις: l'”ira”, che scoppia stizzosa nella contesa con Agamennone, si rinnova e si nobilita nel desiderio di vendicare Patroclo, giunge a un parossismo disumano nello scempio del cadavere di Ettore, cede o si annulla di fronte alle preghiere di Priamo, per la consapevolezza di un destino ineluttabile che accomuna nel dolore vincitore e vinti.
Per contro, la critica antiunitaria ha creduto di poter distinguere nella compagine del poema diverse individualità poetiche: un poeta dell'”ira”, il più antico; uno, più recente, del Riscatto di Ettore, uno dell’Aristìa di Diomede, uno della Dolonìa ecc.; infine, per conciliare in qualche modo il punto di vista antiunitario con quello unitario, un poeta a cui si dovrebbe la riunione delle singole parti in un’unica architettura. A tale poeta si attribuisce da taluni il libro VIII (La battaglia interrotta) che, pur essendo essenziale all’architettura del poema, appare spesso come un centone di passi, tolti ad altre parti di esso. Comunque si voglia risolvere la questione omerica, la costituzione dell’Iliade in una forma pressappoco identica a quella in cui ci è pervenuta, deve porsi circa il sec. 8° a. C.
Il poema omerico fu tradotto più volte in latino sia nell’epoca repubblicana (da Gneo Mazio e da Ninnio Crasso) sia nell’età imperiale (da Azio Labeone, da Polibio liberto di Claudio e dall’ignoto autore – da qualcuno identificato con Silio Italico – della cosiddetta Iliade latina o Omero latino, che è però un compendio). All’Omero latino, alle narrazioni prosastiche di Ditti e Darete, alle testimonianze indirette di scrittori latini si ridusse la conoscenza del poema durante il Medioevo. Prima traduzione in prosa latina dell’intero poema (e dell’Odissea) fu quella, assai rozza, che Leonzio Pilato fece per volontà di G. Boccaccio e di F. Petrarca (intorno al 1360); altre versioni si ebbero, durante l’Umanesimo, in prosa e in versi latini: fra le altre quelle, parziali, di L. Bruni, di L. Valla, di A. Poliziano. Della fine del Cinquecento è la traduzione spagnola di C. de Mesa. Del sec. 18° le traduzioni in italiano di A. M. Salvini (integrale), di S. Maffei (parziale), e la libera versione di M. Cesarotti (1786). Più famosa di tutte quella, in endecasillabi sciolti, di V. Monti (1810); e ben nota anche la traduzione che di due frammenti fece U. Foscolo (1807, 1821). Fra le traduzioni inglesi sono da ricordare quella di G. Chapman (1609) e soprattutto quella di A. Pope (1715-20); fra le tedesche quelle di L. Stolberg, di J. Bodmer e H. Voss (scorcio del 18° sec. – principio del 19°); tra le francesi quella di Leconte de Lisle (1850). Infine, tra le versioni italiane recenti, ricorderemo quelle di E. Romagnoli, di N. Festa (in prosa), di R. Calzecchi Onesti e di G. Tonna (in prosa).